Una Repubblica fondata sul bene comune
di Salvatore Settis
Una nuova dimensione politica avanza con passo lento, incerto, desultorio: è la politica dei cittadini, che si forma e si esercita non necessariamente contro, ma sicuramente malgrado la politica dei politici di mestiere. Forse in nessuna democrazia quanto in Italia vediamo oggi la «politica militante» «trasformarsi da munus publicum in una professione privata, in un impiego», secondo la desolata profezia di Piero Calamandrei. La politique politiciennediventa anzi anche troppo spesso uno strumento, ora inconsapevole ora cinicamente complice, al servizio della devastazione delle istituzioni e dello Stato mirata alla spartizione delle spoglie, al feroce saccheggio di risorse comuni e pubbliche per il vantaggio dei pochi. Ma «politica» dovrebbe invece essere, non solo per etimologia ma anche per le ragioni della storia e dell’etica, prima di tutto un libero discorso da cittadino a cittadino: un discorso sulla polis, dentro la comunità dei cittadini e a suo beneficio.
Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in quanto tali, e non per ambizioni, patteggiamenti e scambi di potere e di carriera, in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi, sui grandi temi del bene comune, dei diritti della persona, della costruzione del futuro per le nuove generazioni. Davanti al neo-assolutismo di un’economia che degrada perfino gli esseri umani a meri fattori di costo, costringendoli a nuove forme di servitù e condannando alla disoccupazione le «generazioni perdute» dei giovani, è sempre più essenziale il richiamo alla polis (cioè alle comunità di cittadini) come spazio di riflessione, di discussione, di progetto e di resistenza che esalti e consolidi le libertà personali mentre costruisce una lungimirante etica pubblica.
Ma il bene comune è oggi sempre più spesso accantonato come un ferrovecchio, e in nome delle logiche di mercato cresce ogni giorno l’erosione dei diritti, si consolida la struttura autoritaria dei governi, la loro funzione ancillare rispetto ai centri del potere finanziario e bancario, «stanze dei bottoni» totalmente al di fuori di ogni meccanismo democratico di selezione, al riparo da ogni controllo, al di sopra di ogni regola, di ogni legalità, di ogni sanzione. «Mai nella storia l’umanità è stata di fronte a un’alternativa così radicale: o cambiare profondamente i valori della nostra civiltà o perire», ha scritto in un suo libro recente Heiner Geissler, deputato Cdu per 25 anni, ministro in un Land e poi nel governo federale, e infine segretario generale della Cdu (1977-89)*, che nel nuovo scenario economico e politico ha profondamente modificato le proprie idee, come su una drammatica via di Damasco. Politica, cittadinanza, scontro frontale fra le ragioni del mercato e i principi del bene comune: queste le coordinate entro le quali Paolo Maddalena ha composto questo suo libro.
Il carattere squisitamente urbano di alcune grandi proteste popolari degli ultimi anni, da Madrid (Puerta del Sol) a New York (Zuccotti Park) ha almeno due matrici, anche se non tutti ne sono consapevoli. Prima di tutto, la forte tematica del diritto alla città non solo come spazio urbano ma per il necessario equilibrio, dimensionale e strutturale, fra il tessuto delle architetture e delle strade e la dignità personale dei cittadini. A quasi cinquant’anni dal Droit à la ville di Henri Lefebvre (1968, ma prima dei moti parigini del Maggio), questa riflessione aveva bisogno di un radicale ripensamento davanti al disfacimento della forma urbana che la generò e all’insorgere delle megalopoli, le immense conurbazioni formatesi al servizio di altrettante spietate macchine produttive. Rebel Cities. From the Right to the City to the Urban Revolution di David Harvey (Verso, 2013) ci offre oggi una nuova cornice di pensiero e di categorie descrittive per dare al diritto alla città, attraverso l’universo dei beni comuni, la nuova dimensione di una cittadinanza consapevole dei propri diritti sovrani: primo passo per intendere come, perché e da chi essi sono calpestati, e per organizzare una riscossa.
La seconda matrice è più remota: ed è l’antica arma dell’azione popolare, che già nel diritto romano rappresentava al massimo livello la dignità personale del cittadino, conferendogli il potere di agire contro le istituzioni in nome del bene comune, contro le mutevoli leggi in nome di uno stabile Diritto intessuto di profondi legami sociali e di alti principi etici. Non insisto qui su questo tema, al quale è dedicato un mio libro recente (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2013); se non per ricordare il filo rosso che lo riconnette aldiritto di resistenza del cittadino, quale ricorre in alcune antiche Costituzioni, per esempio in quella della Repubblica Partenopea (1799) che all’art. 15 lo definisce «il baluardo di tutti i diritti». È un diritto che ricompare oggi insistentemente sulla scena, riarticolato secondo i linguaggi della adversary democracy, e cioè della necessaria dinamica fra gli organi della democrazia rappresentativa e il diritto di parola dei cittadini (singoli o associati). Perché in uno Stato moderno è cruciale «l’idea che il popolo sovrano conservi un potere negativo che gli consente di vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori» (così Nadia Urbinati).
Queste due matrici del nuovo dissenso (diritto alla città e azione popolare) hanno in comune un punto essenziale, il richiamo ad alti principi etico-politici contro la contingenza di norme concepite al servizio del potere. Nello scenario italiano di oggi, questo aspro contrasto, evidenziato dal continuo ricorso a norme efferate non solo ad personam ma contra cives (basti richiamare il «federalismo demaniale» o le leggi elettorali che impediscono al cittadino la libera scelta dei propri rappresentanti, dal Porcellum di Calderoli alla similare proposta Berlusconi-Renzi), prende la forma di un richiamo alla Costituzione della Repubblica. In essa troviamo il coerente manifesto di uno Stato fondato sul bene comune e non sul profitto dei pochi; sulla dignità della persona e non sulla sua oppressione; sul diritto al lavoro e non sull’«austerità» che condanna alla disoccupazione; sulla cultura che progetta il futuro e non su una pretesa «stabilità» che di fatto paralizza il paese.
È in questo aspro contrasto che si capisce – che è, anzi, necessaria e sacrosanta – l’ira dei miti. «Oggi Goethe andrebbe sulle barricate», ha scritto John le Carré. È in questo quadro che Paolo Maddalena ha raggiunto con questo libro il punto (per ora) culminante della sua traiettoria di giurista, che parte da una formazione romanistica, passa attraverso la Corte costituzionale, e attraverso la riflessione sul danno ambientale e sulle tematiche connesse allarga crescentemente il proprio orizzonte. Già col suo importante libro sul Danno pubblico ambientale (Maggioli, 1990), con numerosi altri contributi di studio e col suo lavoro di capo dell’Ufficio legislativo al ministero dell’Ambiente, ma poi specialmente con la sua opera di giudice della Corte costituzionale (2002-2011), l’autore di questo libro ha mostrato una straordinaria sensibilità, illuminata dai valori della Costituzione, verso l’interesse pubblico e la necessità di proteggerlo con norme di alto profilo e radici profonde nella nostra tradizione normativa.
Fra le pronunce da lui redatte alla Corte, specialmente numerose sono quelle incentrate sui temi dell’ambiente. Si sa che la tutela dell’ambiente è assente nel testo originario della Costituzione (quale entrò in vigore il 1° gennaio 1948); ma la sua rilevanza giuridica emerse gradualmente ben prima che la riforma del Titolo V (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ne prendesse atto, e Paolo Maddalena è fra quanti vi hanno contribuito con lucido argomentare. Le pronunce della giurisprudenza costituzionale avevano messo a punto, almeno a partire dalla sentenza n. 151 del 1986, la centralità della tutela dell’ambiente, come nozione giuridica e come dovere civile, rilevandone i molteplici intrecci con altri interessi costituzionalmente rilevanti, in particolare nell’incrocio fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32).
Questo percorso mette in luce la straordinaria lungimiranza della nostra Carta costituzionale. Nata in un momento storico in cui la cultura ambientalistica non si era ancor formata, essa tuttavia fissò già allora un sistema di relazioni, di valori e di principi a difesa del cittadino, che hanno consentito al giudice delle leggi di affermare con forza la tutela dell’ambiente come valore costituzionale primario, in quanto espressione dell’interesse diffuso dei cittadini.
Paolo Maddalena ha contribuito notevolmente a consolidare questa evoluzione, con le sentenze di cui è stato estensore alla Corte costituzionale e, più di recente, come autore di numerosi saggi, fra cui specialmente rilevante è Ambiente, bene comune (nel volume a cura di Tomaso Montanari Costituzione incompiuta, Einaudi, 2013). Ma vi aveva contribuito anche prima di entrare da giudice alla Consulta, affermando, con circa venti anni di anticipo sulla normativa comunitaria (direttiva 2004/35/CE), la risarcibilità del danno ambientale, il quale non è un danno civilistico di natura individuale, bensì un danno pubblico, nel senso che è un danno alla collettività e allo Stato che la rappresenta e la incarna. In tale concezione, già accolta in Italia dalla l. 349/1986, l’ambiente è un bene comune, e come tale l’interesse pubblico dello Stato coincide con il diritto individuale, fondamentale e inviolabile, alla fruizione e alla tutela dell’ambiente. Ma la tutela ambientale (come quella del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) non è un tema «di nicchia»: a ogni giorno che passa, la devastazione dell’ambiente è sempre più chiaramente la cartina di tornasole di un degrado etico, politico e civile che, per essere combattuto, deve giocoforza ricorrere a categorie analitiche ancor più ampie, collegandosi ad altre prescrizioni costituzionali, ad altri diritti. Dobbiamo dunque cercare la radice del male nella deriva della politica, nell’invasiva presenza della finanza e dei mercati, nell’asservimento delle istituzioni democratiche ai poteri non-democratici di banche e imprese. Proporre, come fa Maddalena, una nuova consapevolezza del cittadino a partire dall’orizzonte dei suoi diritti.
L’argomentazione sul territorio come bene comune degli italiani, che Maddalena ci offre in questo libro, è un contributo, appassionato e rigoroso, a quella discussione sui beni comuni che va oggi dilagando, ma non sempre con piena consapevolezza delle categorie giuridiche adoperate né del loro spessore storico né, infine, del loro concreto potenziale politico e civile. Pochi intendono infatti, come Maddalena fa in questo libro, che solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione e il puntuale radicarsi nel nostro ordinamento possono far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell’utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile. Perciò è necessario far crescere nei cittadini (come sarà, credo, per ogni lettore di questo libro) la consapevolezza di categorie come «proprietà pubblica»/«proprietà privata»/ «proprietà collettiva», nella loro interazione e nella loro gerarchia. Partendo dallo squilibrio ambientale, economico, sociale che è sotto gli occhi di tutti, Paolo Maddalena ha costruito in queste pagine un percorso che lega fortemente, come vuole la Costituzione, le forme della proprietà ai diritti fondamentali, e ha indicato le res communes omnium come lo scenario di una rinnovata tensione fra i problemi (e i rischi) della biosfera e lo statuto (e i doveri) della cittadinanza.
Tutto in questo libro, anche l’ingrediente romanistico usato come grimaldello esplicativo e non come apparato erudito, concorre a un calibrato omaggio alla Costituzione, in particolare al disegno di «ordine pubblico economico» scolpito negli artt. 41-46, dei quali Maddalena sottolinea il carattere precettivo. A questa luce, egli scrive, «è un intero mondo di cose che deve essere rivisto e ripensato. La distruzione del nostro territorio, infatti, può essere evitata non solo con norme penali ma anche, e forse soprattutto, facendo valere l’inesistenza di diritti di proprietà che perseguano una funzione “antisociale”, ovvero la nullità assoluta di contratti con “causa illecita”, aventi anch’essi un chiaro contenuto “antisociale” (art. 1322 c.c.)».
Centrale è dunque, in questo libro, il principio di «utilità sociale», che illumina non solo la tessitura della Costituzione, ma l’intero nostro ordinamento, rendendo possibili forme di azione popolare che non siano astratte rivendicazioni ma forti e concreti richiami alla legalità costituzionale; ad esempio specificando e limitando lo ius aedificandi, che non può essere inerziale e inespugnabile attributo di una rendita fondiaria spesso parassitaria e devastatrice. Su questo come su altri punti, l’apporto interpretativo e propositivo di Paolo Maddalena in questo libro dovrà, io spero, trovare nei movimenti di resistenza civile e di consapevolezza ambientale il proprio spazio di sperimentazione e di applicazione, fra diritto alla città e azione popolare.
* Sapere aude! Warum wir eine neue Aufklärung brauchen, Ullstein, Berlin 2012
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