sabato 31 maggio 2014

Stenografare i ricordi in un groviglio di epoche e ambienti

da il manifesto

Stenografare i ricordi in un groviglio di epoche e ambienti


Quando Mark Twain comin­ciò a «met­tere su carta» la sua vita, attorno al 1870, si comin­ciò a misu­rare con un com­pito «impos­si­bile». Ad irri­tarlo era soprat­tutto l’ordine cro­no­lo­gico richie­sto dalla nar­ra­zione auto­bio­gra­fica tra­di­zio­nale, che impo­nendo allo scrit­tore di rac­con­tare la pro­pria sto­ria dalla «culla» alla «tomba», senza «escur­sioni late­rali», finiva per con­durre a un reso­conto troppo «let­te­ra­rio» e lon­tano dal vero. Solo nel 1904, dopo anni di ten­ta­tivi fal­li­men­tari, Twain esco­gitò il «metodo giu­sto» per lasciarsi alle spalle gli arti­fici della let­te­ra­tura. Si mise allora a det­tare l’autobiografia a un’esperta ste­no­grafa per un paio d’ore al giorno, ani­mato dal prin­ci­pio di un’assoluta libertà, vagando «a pia­ci­mento» attra­verso gli eventi e i ricordi allo scopo di sal­va­guar­dare «l’interesse» del rac­conto.
Fino ad ora non è stato facile ren­dersi conto della por­tata di un simile metodo, tanto inno­va­tivo ed effi­cace da costi­tuire, secondo Twain, un modello «per tutte le auto­bio­gra­fie future». Le tra­du­zioni ita­liane dell’Auto­bio­gra­fia di Twain segui­vano infatti il testo assem­blato nel 1959 da Char­les Nei­der, che a forza di tagli aveva rima­neg­giato i mate­riali auto­bio­gra­fici fino a rior­di­narli lungo un ipo­te­tico asse cro­no­lo­gico. Basan­dosi sull’edizione appre­stata nel 2010 da Har­riet Eli­nor Smith nell’ambito del «Mark Twain Pro­ject», la nuova tra­du­zione dell’Auto­bio­gra­fia di Mark Twain (a cura di Sal­va­tore Pro­ietti, Don­zelli, pp. XXXIX-469,  euro 35,00) si impe­gna invece a ripri­sti­nare il testo inte­grale delle diverse ses­sioni di det­ta­tura. In que­sto modo, per la prima volta, viene messo a nostra dispo­si­zione il «pro­getto» di un auto­bio­grafo dispo­sto a par­lare non con­tro, ma a favore della men­zo­gna, nella piena con­sa­pe­vo­lezza che «nes­sun uomo può dire la verità su di sé».
Per accor­ger­sene basta lasciarsi cat­tu­rare anche sol­tanto dalla verve delle prime det­ta­ture, capaci di tra­sci­narci a con­tatto con gli argo­menti più dispa­rati. Twain non si pre­oc­cupa dell’ampiezza delle digres­sioni, né della fre­quenza dei com­menti, per­ché è con­vinto che l’elemento deci­sivo del suo discorso non risieda nelle «azioni» del pas­sato, bensì nel pen­siero «del momento», da risve­gliare con qual­siasi mezzo. Anche per que­sto l’autobiografia si deli­nea fin dall’inizio come una com­bi­na­zione di «sto­ria» e «dia­rio» del pre­sente, che non esita a sca­te­nare la «tem­pe­sta» dei ricordi a par­tire da rita­gli di gior­nale, brani di cor­ri­spon­denza e discorsi tenuti dallo scrit­tore durante la sua tra­scorsa atti­vità di con­fe­ren­ziere. Per­sino la bio­gra­fia che una delle figlie di Twain, la pic­cola Susy, scrisse sul padre in tenera età viene uti­liz­zata come con­trap­punto per ali­men­tare le osser­va­zioni e gli andi­ri­vieni di un testo onni­voro, privo di ini­zio e di fine, dove assieme alla suc­ces­sione dei fatti viene desti­tuita di impor­tanza ogni gerar­chia tra eventi «grandi» e «pic­coli».
Pro­ce­dendo con le sedute, a tratti si ha l’impressione che Twain stia costruendo un edi­fi­cio nar­ra­tivo molto simile alle case in cui rac­conta di aver vis­suto. Con la sua «enorme con­fu­sione di camere, sale, cor­ri­doi, celle e spazi spre­cati», la Villa di Quarto a Firenze, descritta nei det­ta­gli come sede delle prime det­ta­ture, potrebbe rap­pre­sen­tare l’emblema del libro. Anche i capi­toli dell’Auto­bio­gra­fia di Twain, come le stanze della Villa, asso­mi­gliano a un «insen­sato gro­vi­glio» di epo­che e di ambienti pronti a immet­tersi l’uno nell’altro: l’unica pla­ni­me­tria che per­metta ai let­tori di non smar­rirsi, in que­sta teo­ria di spazi senza solu­zione di con­ti­nuità, è il reti­co­lato offerto dalla libera asso­cia­zione delle idee. Non esi­ste, per il resto, oro­lo­gio o calen­da­rio che possa indi­riz­zare la suc­ces­sione del tempo, né sono pre­senti bar­riere in grado di osta­co­lare la fuga del pen­siero da una stanza all’altra, e tan­to­meno di impe­dire il pro­gres­sivo ingi­gan­tirsi del per­corso sotto il mol­ti­pli­carsi delle diva­ga­zioni.
La «casa» dell’autobiografia di Twain, per que­sti versi, può rag­giun­gere dimen­sioni para­dos­sali. Per­ché lo scrit­tore, se dav­vero vuole ripro­durre il «tor­rente» di pen­sieri che scorre nella sua «testa», rischia di impie­gare un intero volume solo per «descri­vere in ste­no­gra­fia» quanto gli è acca­duto il giorno pre­ce­dente. Col risul­tato che un’autobiografia «com­pleta» assu­me­rebbe forme mostruose: «Se avessi com­piuto il mio dovere auto­bio­gra­fico sin dalla gio­ventù – osserva Twain – tutte le biblio­te­che della terra non baste­reb­bero a con­te­nere lo sforzo». E non ci sarebbe da ral­le­grarsi troppo di fronte a una simile ver­bo­sità, se l’autobiografo non si fosse pre­oc­cu­pato di span­dere in ogni angolo della sua infi­nita e infi­ni­bile auto­bio­gra­fia una spessa patina di quell’umorismo che costi­tui­sce – anche secondo la testi­mo­nianza di Susy – la cifra distin­tiva di ogni altro suo scritto.
Ma in che cosa con­si­ste per Twain l’umorismo? Non si tratta sol­tanto del sor­riso diver­tito con cui lo scrit­tore, ad ogni pagina, alleg­ge­ri­sce il peso delle sue digres­sioni auto­bio­gra­fi­che. Secondo quanto Twain afferma in un sag­gio su Come rac­con­tare una sto­ria, l’effetto umo­ri­stico che si sca­tena nei suoi romanzi non dipende dal con­te­nuto, ma dalle stra­te­gie di nar­ra­zione. A dif­fe­renza delle sto­rie «comi­che» o «argute», che devono essere brevi e avere una con­clu­sione, la sto­ria umo­ri­stica può infatti «andare per le lun­ghe e uscire dal semi­nato quanto le pare, senza appro­dare sostan­zial­mente a nulla»: pro­prio come accade anche alle sto­rie sca­tu­rite in sede di det­ta­tura auto­bio­gra­fica.
Ma allora Twain, quando «mette su carta» la pro­pria vita, non si trat­tiene dal rici­clare la stessa tec­nica let­te­ra­ria dei suoi romanzi. E se si è affret­tato a met­tere al bando l’ordine cro­no­lo­gico dalle sue pro­ce­dure, non è sol­tanto per incen­ti­vare l’interesse, ma anche per lasciare aperta la porta dell’autobiografia all’irruzione della let­te­ra­tura. Non è un caso se le osser­va­zioni di Twain sem­brano rical­care l’umorismo del Tri­stram Shandy di Sterne, un romanzo dove il nar­ra­tore si ritrova sepolto da un gro­vi­glio di digres­sioni che, pur costi­tuendo «l’anima» del libro, rischiano di ampli­fi­care il rac­conto all’infinito. Col suo metodo «inno­va­tivo» e all’apparenza «a-sistematico», Twain non fa altro che reim­pian­tare le fon­da­menta dell’autobiografia sullo stesso ter­reno della tra­di­zione roman­ze­sca umoristica.
Non c’è dun­que da stu­pirsi se Twain, giunto a par­lare della «camera» che custo­di­sce l’autobiografia del fra­tello Orion, si decide a rive­larci la natura infida del pro­prio edi­fi­cio. Al fra­tello, Twain aveva infatti con­fes­sato che un’autobiografia è sem­pre un gioco tra verità e men­zo­gna: «l’autore for­ni­sce la men­zo­gna, il let­tore for­ni­sce la verità – ovvero arriva alla verità con l’intuizione». E se dun­que il let­tore vuole rac­co­gliere que­sta sfida sin­go­lare, non gli resta che setac­ciare il «tor­rente» dei pen­sieri dell’autobiografo come una sorta di rab­do­mante in cerca di pol­vere d’oro; gli con­verrà seguire, in altre parole, «l’arte» pra­ti­cata dalla madre di Twain, che secondo l’Auto­bio­gra­fia sapeva sfron­dare dai «ricami» ogni rac­conto del figlio, per arri­vare al «gio­iello del fatto» dopo averlo estratto dalla sua «matrice d’argilla».

In ogni caso, per quanto lo scrit­tore possa men­tire, ci pen­serà l’autobiografia a par­lare alle sue spalle. Nella com­po­si­zione auto­bio­gra­fica – ci ricorda Twain, prima di ricon­se­gnarsi alle sue det­ta­ture – è sem­pre all’opera «qual­cosa di sot­tile e dia­bo­lico» che scon­figge i ten­ta­tivi avan­zati dal nar­ra­tore per dipin­gersi «a modo suo».

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