sabato 21 giugno 2014

L’ozio come antidoto al presente

da il manifesto

L’ozio come antidoto al presente

Scaffale. Luciano Canfora e il suo pamphlet «Gli antichi di riguardano», per Il Mulino. Gli studi classici? Non sono inutili, anzi....
A cosa ci serve lo stu­dio dell’antichità clas­sica? Da un pezzo la domanda è diven­tata pura­mente reto­rica. Figu­ria­moci, poi, nel tempo delle rot­ta­ma­zioni e del «fare» sans phrase. Da decenni, di riforma in riforma, gli stra­te­ghi mini­ste­riali hanno inse­guito la fata mor­gana di un sistema for­ma­tivo fun­zio­nale al mer­cato del lavoro. Mer­cato di cui tutto igno­ra­vano e del quale non hanno indo­vi­nato, nean­che lon­ta­na­mente, la ben­ché minima ten­denza e, men che meno, la pro­gres­siva scom­parsa. In com­penso sono riu­sciti a tra­sfor­mare il corso degli studi in un iter buro­cra­tiz­zato e mole­sto. La modu­li­stica uni­ver­si­ta­ria e la selva degli adem­pi­menti sono diven­tate ben più com­plesse della scrit­tura cunei­forme ed occu­pano buona parte del tempo e delle ener­gie dei docenti.
Ma per tor­nare alla parola d’ordine che ha accom­pa­gnato tutte le tappe di que­sto disa­stro («ade­guia­moci al mer­cato del lavoro!») è chiaro che gli studi clas­sici ne hanno fatto le mag­giori spese, anche se non sono stati certo i soli. All’«utilità o il danno dello stu­dio dell’antichità clas­sica per la vita» Luciano Can­fora ha recen­te­mente dedi­cato un breve scritto pole­mico, genere in cui è mae­stro, inti­to­lato Gli anti­chi ci riguar­dano (Il Mulino, pp. 104, euro 10), nel quale passa in ras­se­gna, più che l’ostilità domi­nante, la debo­lezza degli argo­menti messi in campo nel difen­dere dai suoi detrat­tori «rifor­mi­sti» lo stu­dio dell’antichità clas­sica. Quest’ultimo rap­pre­senta cer­ta­mente un caso spe­ci­fico, ma rin­via anche a un tema molto più gene­rale.
Tra gli argo­menti presi cri­ti­ca­mente in esame da Can­fora vi è quello dell’«utilità dell’inutile» che l’autore con­si­dera un sofi­sma desti­nato a rove­sciarsi nel suo con­tra­rio e magari per­fino a insi­nuarsi attra­verso qual­che impro­ba­bile per­tu­gio nell’agognato mer­cato del lavoro. Ma forse la que­stione dell’«inutile» andrebbe affron­tata in un altro modo, con un occhio alla sto­ria e un altro alla gerar­chia dei saperi (e dei poteri). Allo scopo pos­siamo fare ricorso a due autori, un espo­nente dell’Illuminismo e uno dei suoi più acuti cri­tici. «Non vi è scienza – scrive Con­dor­cet nella Quinta memo­ria sull’Istruzione pub­blica ( 1791) – che, per la natura stessa delle cose, non sia con­dan­nata a inter­valli di rista­gno e di oblio. Se intanto allora la si tra­scura (…) biso­gnerà riper­cor­rere una seconda volta la via abban­do­nata, quando nuovi biso­gni o nuove sco­perte obbli­ghe­ranno gli spi­riti a tor­narvi sopra. Ma, al con­tra­rio, se le società dei dotti con­ser­vano lo stu­dio di que­ste scienze, allora nelle epo­che fis­sate dalla natura al loro rin­no­va­mento, si vedranno riap­pa­rire con nuovo splen­dore». Qui «il rista­gno e l’oblio» signi­fi­cano soprat­tutto quel salu­tare attrito con il pro­prio tempo che resti­tui­sce l’«utile», sot­traen­dolo all’eterno pre­sente della «fine della sto­ria», alla con­tin­genza che gli è pro­pria. Quante mode cul­tu­rali e saperi che avreb­bero dovuto rap­pre­sen­tare e per­meare il futuro sono tra­mon­tati in una giran­dola di «master» nel giro di pochi anni?
Dalla miniera ine­sau­ri­bile dei Minima mora­lia di Adorno tra­iamo invece la seguente osser­va­zione: «Ai fatali trans­fert dal campo della pia­ni­fi­ca­zione eco­no­mica al campo della teo­ria (…) appar­tiene la fede nell’amministrabilità del lavoro intel­let­tuale, in base a cri­teri che deter­mi­nano ciò di cui è neces­sa­rio o ragio­ne­vole occu­parsi. Si sta­bi­li­sce un ordine di cono­scenze più o meno urgenti. Ma pri­vare il pen­siero del suo momento d’involontarietà signi­fica abo­lire pro­prio la sua neces­sità». In que­sto caso l’attrito si pro­duce con il sistema di potere che sta­bi­li­sce la gerar­chia dell’’utile’ e ne ’ammi­ni­stra’ l’elaborazione, ma anche con l’ortodossia della disci­plina e le sue regole di scuola: ’la sche­ma­tiz­za­zione in impor­tante e secon­da­rio ripete for­mal­mente la gerar­chia di valori della prassi domi­nante anche quando ne con­trad­dice il con­te­nuto’».
Certo, la vene­ra­zione del mondo antico è stata un tempo dalla parte del «neces­sa­rio», del «prin­ci­pale», fun­gendo pro­prio da ser­ba­toio di quei «valori della prassi domi­nante» a cui Adorno si rife­ri­sce, da prin­ci­pio d’ordine e abi­tu­dine alla disci­plina. Una grande misti­fi­ca­zione, spiega Can­fora, dedita a fab­bri­care quel «canone» del mondo antico che lo sot­traeva alle furiose con­trad­di­zioni, ai con­flitti , alle bifor­ca­zioni e alle alter­na­tive che lo ave­vano attra­ver­sato per con­se­gnarlo all’ideologia nazio­nale.
È, al con­tra­rio, pro­prio da que­sti con­flitti radi­cali, da que­sti pro­blemi inso­luti, che deri­ve­rebbe, secondo l’autore, l’insegnamento più impor­tante dell’antichità, dall’essere stata cioè un gran­dioso labo­ra­to­rio nel quale furono spe­ri­men­tati, senza rispar­miarsi, tutti i fon­da­men­tali della poli­tica, poste tutte le domande che restano ancora aperte. È, insomma, un approc­cio machia­vel­liano, quello che ci viene sug­ge­rito. Una let­tura sto­rica della poli­tica e una let­tura poli­tica della sto­ria. Una scienza delle pas­sioni umane nel loro reci­proco agire. Non pro­prio ciò che più aggrada alla stuc­che­vole reto­rica del «nuovo che avanza» con­ci­tato, senza pro­ve­nire da nes­suna parte.
Ma nel rap­porto di Machia­velli con l’antichità clas­sica vi è anche un altro ele­mento niente affatto secon­da­rio: quello del pia­cere, della fasci­na­zione, della curio­sità, dell’otium. È una ragione più che suf­fi­ciente per avven­tu­rarsi tra gli autori clas­sici. Del resto nem­meno il più arido degli uti­li­ta­ri­sti, tutt’altro che inclini al puri­ta­ne­simo e all’ascesi, si sarebbe mai sognato di ban­dire il pia­cere dalla dimen­sione dell’utile.
I «rifor­mi­sti», invece, non tro­vano dif­fi­coltà nel farlo, nel rite­nerlo una mani­fe­sta­zione del col­pe­vole desi­de­rio di «vivere al di sopra dei pro­pri mezzi». Poi­ché non è che il cal­colo costi\benefici a trac­ciare i con­fini dell’utile che essi inten­dono imporre. Le riforme dell’Università che si sono sus­se­guite negli anni hanno coe­ren­te­mente lavo­rato a demo­lire con tenace deter­mi­na­zione, il pia­cere dello stu­dio. Tanto che l’argomento del pia­cere non figura nem­meno più tra quelli messi in campo dai difen­sori degli studi uma­ni­stici. È forse il segno di una gene­rale ras­se­gna­zione all’«intervallo di rista­gno e di oblio»?
Ma tor­niamo alla poli­tica, quella che sta­bi­li­sce la scala delle prio­rità, tenendo bene a mente l’insidia che in essa si cela e che Adorno così descrive: «la divi­sione del mondo in cose prin­ci­pali e acces­so­rie, che ha sem­pre con­tri­buito a neu­tra­liz­zare, come sem­plici ecce­zioni, i feno­meni chiave dell’estrema ingiu­sti­zia sociale, va per­se­guita fino al punto in cui viene con­vinta della pro­pria fal­sità». Magari con l’aiuto degli anti­chi che, come scrive Can­fora «non hanno scelto la via con­so­la­to­ria» e con­ti­nuano così a for­nire un anti­doto con­tro l’autoassoluzione dello stato di cose presente.

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