martedì 1 luglio 2014

Luzi, sperimentalismo per via toscana

da il manifesto
ALIAS

Luzi, sperimentalismo per via toscana

Aragno . Raccolta di «prose» del poeta ermetico fiorentino. Dopo una fase vertiginosa e lirica il Luzi prosatore insegue sempre più la chiarezza esatta del «suo» paesaggio senza tempo: anzi gotico e antico
Quando un poeta scrive in prosa ha due pos­si­bi­lità: eman­ci­parsi dai modi (e più rara­mente dai temi) già pra­ti­cati in versi, oppure con­fer­marli in altra veste. Mon­tale, per citare il mas­simo esem­pio nove­cen­te­sco, è andato più vicino alla prima opzione, dotan­dosi per la scrit­tura nar­ra­tiva e gior­na­li­stica di uno stile lon­tano da quello sublime di Occa­sioni Bufera. Sereni invece è rima­sto in pros­si­mità dell’altra opzione, quasi rove­sciando il rap­porto tra i due generi: nel senso che, in certi casi, la forma secon­da­ria sem­bra quella poe­tica, che affiora ideal­mente o mate­rial­mente (testi­moni le carte e gli scritti dell’autore) da una prosa men­tale lun­ga­mente rimu­gi­nata.
Il caso di Mario Luzi è diverso: per lui entrambe le opzioni sono state dispo­ni­bili, avvi­cen­dan­dosi nel tempo senza annul­larsi reci­pro­ca­mente. Que­sta carat­te­ri­stica si apprezza ora con migliore evi­denza leg­gendo l’ampia rac­colta di scritti nar­ra­tivi e di viag­gio, pub­bli­cati insieme agli elze­viri e ai ricordi di amici: Mario Luzi, Prose, a cura di Ste­fano Ver­dino (Nino Ara­gno Edi­tore, pp. 383, euro 20,00).
Nel volume, che esce oppor­tu­na­mente nel cen­te­na­rio della nascita del poeta, con­flui­scono testi diversi: l’edizione di Trame (1982), di cui fa parte anche la Bio­gra­fia a Ebe (1942), da Luzi stesso defi­nita nella nota con­clu­siva un«parallelo e con­tro­canto» in prosa del suo libro di poe­sia Avvento not­turno (1940); una serie di prose scelte dall’autore nel 2004, che avreb­bero dovuto far parte di una nuova edi­zione, poi non rea­liz­zata (De qui­bus e altro, in cui rien­tra anche un vivido ricordo di Tom­maso Lan­dolfi); altre prose disperse in pub­bli­ca­zioni di non facile repe­ri­bi­lità o addi­rit­tura recu­pe­rate in forma di file e tra­scritte dai col­la­bo­ra­tori di Luzi. (Esem­pio, quest’ultimo, di filo­lo­gia digi­tale che avrà sem­pre mag­gior rilievo nell’ambito degli studi su autori con­tem­po­ra­nei, per cui alcuni cen­tri, come Pavia, stanno met­tendo a punto strut­ture e pro­to­colli appositi).
Il «biso­gno di impie­gare la prosa» scri­veva ancora Luzi nella nota finale diTrame, era det­tato dal desi­de­rio di «stare, anche ana­li­ti­ca­mente, più addosso alle cose, per stu­diare da vicino certi tratti […], per ricon­durre il lin­guag­gio della poe­sia a una nuova par­tenza o per dar­gli una più dut­tile e natu­rale arti­co­la­zione». Un’esigenza avver­tita dap­prima intorno al bien­nio 1943-’44 e poi dieci anni dopo; comun­que dopo la prosa lirica, sti­li­sti­ca­mente ver­ti­gi­nosa e irri­pe­ti­bile (anche per­ché impro­po­ni­bile fuori dalla tem­pe­rie erme­tica) di Bio­gra­fia a Ebe. Quel ‘romanzo’ (ma giu­sta­mente Ver­dino parla piut­to­sto di récit) si pre­senta, come scrive il cura­tore, «ricco di germi […]poi esplosi nella suc­ces­siva poe­sia» e di situa­zioni, come il col­lo­quio con le figure fem­mi­nili, calate «in un clima di con­fi­denza che non c’è nelle coeve poe­sie dell’Avvento, più algide». La nascita alla prosa di Luzi è dun­que all’insegna di uno spe­ri­men­ta­li­smo, forse anche invo­lon­ta­rio, che almeno in parte ali­men­terà la suc­ces­siva pro­du­zione in versi.
È pro­prio quella maniera ara­be­scata a risul­tare più datata (e del resto, come si è detto, è lo stesso autore a col­lo­care negli anni suc­ces­sivi alla Bio­gra­fia la vera neces­sità di una scrit­tura in prosa). Un esem­pio: «Riten­terò così la dol­cezza ora che è noto il nome e l’impero del deserto nell’epilogo di que­ste donne, per la strada dell’esatta pia­nura. Poi­ché tal­volta con­viene mera­vi­gliarsi che la tri­stezza abbia tro­vato i suoi giu­sti con­fini, come fu inerte e com­piuto l’incontro con que­sta àncora bianca di marmo appena pro­fonda da intrat­te­nere la cele­rità del bas­so­piano». È un io, quello che qui prende la parola, spro­fon­dato nei minimi tra­sa­li­menti dell’«uomo erme­tico» stig­ma­tiz­zato da Cal­vino nel Midollo del leone. Ma sarà lo stesso Luzi, e non da solo, a fare i conti con quell’eredità e a pren­derne le distanze. Emble­ma­tico, in tal senso, il passo di una prosa che si legge pro­prio in quest’edizione, il Tac­cuino di viag­gio in Cina (1980), reso­conto di una mis­sione per il Sin­da­cato nazio­nale degli scrit­tori ita­liani, intra­presa in com­pa­gnia di Arba­sino, Malerba e Vit­to­rio Sereni: «Nel per­corso in taxi dall’aeroporto siamo stati iden­ti­fi­cati come poeti erme­tici… “Non c’è scampo” abbiamo detto con Sereni».
Se in Bio­gra­fia a Ebe l’osmosi tra lirica e prosa è totale, la suc­ces­siva ricerca di dut­ti­lità e arti­co­la­zione pro­duce una scrit­tura più esatta, a tratti fin troppo com­pìta per ten­sione alla chia­rezza. Anche que­sta seconda maniera si svolge in parte come espe­ri­mento e pre­pa­ra­zione a una poe­sia rin­no­vata o da rin­no­vare; ma con una coscienza più piena dell’autonomia di un genere rispetto all’altro. L’autore in prosa più vicino a que­sto Luzi sem­bra il Bilen­chi dei rac­conti, sia per lo stile sia in parte per i temi: penso ad esem­pio a Il voca­bo­la­rio, nel libro luziano delle Trame, da acco­stare al bilen­chiano Un errore geo­gra­fico, ana­logo per il sog­getto e l’ambientazione sco­la­stica. Come Bilen­chi, il pro­sa­tore Luzi è uno scrit­tore senza tempo. Non inat­tuale, o forse sì, ma per effetto di una scrit­tura asso­luta, remota dagli spazi e dai temi della con­tem­po­ra­neità; si potrebbe in fondo dire di lui quello che Luzi stesso scri­veva del quar­tiere fio­ren­tino dove sorge la chiesa del Car­mine, cui inti­tola una delle prose qui rac­colte: «Aveva qual­cosa di appar­tato, una spe­cie di dome­sti­cità d’altri tempi in con­fronto con altre zone magari adia­centi. C’erano spazi tran­quilli, piazze, piaz­zette, vicoli poco fre­quen­tati eppure vivi».
Vale anche per la poe­sia di Luzi? In parte sì, prima ma anche dopo l’exploit diNel magma (1963), che pro­ietta l’autore fuori da quella «spe­cie di dome­sti­cità» in cui rischia di rin­chiu­dersi tut­tora la memo­ria delle sue opere. Rischio da cui sem­brano immuni altre ‘corone’ della cosid­detta terza gene­ra­zione: cer­ta­mente Sereni, ma – stando alla for­tuna critico-accademica – anche Caproni e forse Bertolucci.
Certo conta anche la geo­gra­fia esi­sten­ziale e let­te­ra­ria del fio­ren­tino Luzi, diversa da quella lom­barda di Sereni. «Quello che Firenze tra­smette ai suoi» si legge qui nei Para­grafi fio­ren­tini «è para­go­na­bile a una strut­tura fon­da­men­tale, a una gram­ma­tica della mente e del senso». La rac­colta delle prose illu­stra in modo ideale come l’immaginario luziano ade­ri­sca rigo­ro­sa­mente a quella gram­ma­tica, decli­nata nel pae­sag­gio di una Toscana gotica, antica: San Miniato, Siena, l’Amiata. Que­sta è la forza ma anche il con­fine di Luzi, come può mostrare una nota di viag­gio più ‘eso­tica’ (Sky­line), scritta di ritorno dagli Stati Uniti: se per­fino a New York è pos­si­bile «guar­dare il pre­sente con la lente del pas­sato» vuol dire che niente potrà mai spez­zare quella «strut­tura fondamentale».


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.