martedì 15 luglio 2014

Nadine Gordimer, l’anima bianca dell’Africa

da il manifesto

Nadine Gordimer, l’anima bianca dell’Africa

Nadine Gordimer. La scrittrice sudafricana è morta nella sua casa di Johannesburg all’età di 90 anni. Nobel per la letteratura nel 1991, vicina a Mandela nella lotta contro l’apartheid, aveva esordito nel 1953 con il romanzo «I giorni della menzogna»
Quasi ven­ti­cin­que anni fa, e pre­ci­sa­mente nel 1991, l’Accademia di Sve­zia con­fe­riva il Pre­mio Nobel per la let­te­ra­tura alla suda­fri­cana Nadine Gor­di­mer (scom­parsa dome­nica scorsa per un can­cro al pan­creas), sot­to­li­neando come, «attra­verso la sua magni­fica prosa epica», Gor­di­mer (nata a Springs, una pic­cola citta del Tran­svaal, a cin­quanta chi­lo­me­tri da Johan­ne­sburg, nel 1923) avesse dato, para­fra­sando le parole dello stesso Alfred Nobel, un «grande con­tri­buto all’umanità».
Nel discorso sti­lato per l’occasione, dopo aver dis­ser­tato sul nodo che lega la parola scritta alla pre­senza (
Wri­ting and Being) e aver ricor­dato, tra gli altri, Ngugi wa Thiong’o, Brey­ten Brey­ten­bach, Jack Mapa­nje, Mon­gane Wally Serote e tutti que­gli intel­let­tuali che, con il loro esem­pio, si erano oppo­sti all’oppressione e alla discri­mi­na­zione, nella poe­sia come nei fatti, finan­che scon­tando la più dura deten­zione, la scrit­trice con­cluse richia­mando i doveri di verità che la lin­gua ha di fronte alle sue stesse men­zo­gne e aldilà delle stesse con­vin­zioni o delle idee dell’artista (inteso come per­sona al ser­vi­zio del genere umano), met­tendo alla ber­lina il raz­zi­smo, il ses­si­smo e il pre­giu­di­zio attra­verso cui il potere, nella sua acce­zione nega­tiva didomi­na­tion, eser­cita la pro­pria tiran­nia. A quell’altezza, ovvero al cul­mine di una car­riera che già van­tava oltre venti titoli tra romanzi, sil­logi di rac­conti, testi per il tea­tro e di sag­gi­stica, il pre­sti­gioso rico­no­sci­mento non solo cele­brava il talento indi­scusso di una per­so­na­lità di cara­tura inter­na­zio­nale, ma spo­stava l’attenzione della civiltà let­te­ra­ria verso una realtà lace­rata da con­flitti e lotte fra­tri­cide per il rico­no­sci­mento dei più ele­men­tari diritti civili; lotte alle quali Gor­di­mer aveva par­te­ci­pato sin dai primi anni Ses­santa, quando, dopo l’arresto dell’amica e atti­vi­sta Bet­tie du Toit, abbrac­ciò la causa anti-apartheid e arrivò ad essere uno dei più stretti col­la­bo­ra­tori di Nel­son Man­dela. Con lui, Gor­di­mer scrisse il cele­bre discorso che que­sti tenni nel 1964 in occa­sione del pro­cesso ai capi dell’African Natio­nal Con­gress arre­stati l’anno prima a Rivo­nia (I Am Pre­pa­red to Die), cemen­tando un’amicizia e un soda­li­zio ultratrentennale.
PAROLE PAR­TI­GIANE
Durante tutta la sua mili­tanza, Gor­di­mer svolse un ruolo sem­pre più deci­sivo nel movi­mento, conobbe la cen­sura (il suo secondo romanzo, Un mondo di stra­nieri, del 1958, fu ban­dito per oltre un decen­nio, e lo stesso accade a Il mondo tardo bor­ghese, del 1976) e con­si­derò il giorno più impor­tante della sua vita, quello in cui, nel 1986, testi­mo­niò, nel pro­cesso Del­mas Trea­son, a favore di Simon Nkoli, Mosiuoa Lekota e altri venti mem­bri di spicco dell’Anc. Dal punto di vista storico-politico, il Nobel del 1991 pre­co­niz­zava la svolta che, di lì a poco, nell’aprile del 1994, sarebbe stata uffi­cia­liz­zata dalle prime ele­zioni demo­cra­ti­che con suf­fra­gio uni­ver­sale esteso a tutte le etnie che por­ta­rono Man­dela a capo della Repub­blica Suda­fri­cana, e mise anche la scrit­trice in una dif­fe­rente posi­zione rispetto all’opera che fino ad allora tanti debiti aveva con­tratto con il suo enga­ge­ment (è risa­puto quanto, per Gor­di­mer, con­ta­rono le let­ture da Jean-Paul Sar­tre e Albert Camus).
Per John Max­well Coe­tzee (dopo di lei il secondo scrit­tore suda­fri­cano cele­brato col Nobel, nel 2003), la fine dell’apartheid segnò un deci­sivo spar­tiac­que nella pro­du­zione let­te­ra­ria dell’autrice di
 Occa­sione d’amore (1984) e Sto­ria di mio figlio(1991): a detta di Coe­tzee, con «il rilas­sarsi degli impe­ra­tivi ideo­lo­gici che sotto l’apartheid ave­vano oscu­rato tutte le que­stioni cul­tu­rali», Gor­di­mer si liberò dalla con­di­zione di lace­ra­zione che l’aveva spinta a porre, al cen­tro della sua nar­ra­tiva, «per­so­naggi, per lo più suda­fri­cani bian­chi, che in ter­mini sar­triani vivono in mala­fede fin­gendo con se stessi di non sapere come stanno le cose». Se ciò è in parte vero, almeno stando alla let­tura di romanzi come Un’arma in casa (1998) o L’aggancio (2001) – soprat­tutto da quest’ultimo Coe­tzee trae le sue con­clu­sioni; se, dun­que, dal pieno com­pi­mento del pro­cesso demo­cra­tico in Suda­frica la scrit­tura di Gor­di­mer apparve più sca­bra ed allu­siva, meno sche­ma­ti­ca­mente avvinta al dato reale, ma più inte­res­sata ad esplo­rare ter­ri­tori ine­diti ed ori­gi­nali, è altret­tanto evi­dente come la pul­sione che, tra anni Cin­quanta e Ottanta, l’aveva por­tata a inter­ro­garsi inces­san­te­mente su cosa signi­fi­casse, per un intel­let­tuale, scri­vere in nome di un popolo per essere letto da un popolo, non venne mai del tutto meno.
UNA PARA­BOLA ESISTENZIALE
Nei rac­conti com­po­sti nel primo decen­nio del nuovo secolo e poi rac­colti nel 2007 in Bee­tho­ven era per un sedi­ce­simo nero (pub­bli­cato in ita­liano, come tutti i suoi altri titoli, da Fel­tri­nelli), l’impressione di Coe­tzee è giu­sti­fi­cata dalla scom­messa sti­li­stica di Gor­di­mer, che riversò tutta la sua sapienza nar­ra­tiva nella forma del com­po­ni­mento breve, sulla lastra delle poche pagine che cat­tu­ra­vano, per effetto di una sug­ge­stione cul­tu­rale o del fascino di un det­ta­glio di cro­naca, il senso di una para­bola esi­sten­ziale, facendo riful­gere l’essenzialità di un atto lin­gui­stico prima ancora che nar­ra­tivo; in que­ste shorts­to­ries, la con­cre­zione for­male dei rap­porti umani, dello scacco della lin­gua e della morte – il tutto sor­retto da quell’analogia senile e cor­po­rale che diventa il nucleo della realtà, lo spar­tiac­que tra quanto è solo pen­sato e ciò che dav­vero si pati­sce — si coniuga in modo impre­ve­di­bile al rovello della soli­tu­dine: tema irre­pa­ra­bil­mente legato alla per­dita di qual­cuno, all’assenza non con­di­vi­si­bile di un affetto, di una parte di noi che è stata e ora non è più se non nei ricordi, cioè «nella pos­si­bi­lità del ricordo, nel richia­mare alla memo­ria tutti i momenti, le fasi, i posti, le emo­zioni e le azioni di ciò che lui(la per­sona scom­parsa) era, di come ha vis­suto men­tre era». Ma come in ogni auten­tico scrit­tore, ovvero in ogni essere umano con­sa­pe­vole dei pro­pri mezzi e delle pro­prie respon­sa­bi­lità eti­che, una scom­messa for­male non fa che pre­pa­rare il rilan­cio di una nuova posta, sic­ché, dalla rastre­ma­zione più spinta di rac­conti come «Sto­ria», «Gre­gor» o «Alle­svor­le­ren», nel 2012 Gor­di­mer tornò al romanzo con Ora o mai più, sorta di summa della sua intera espe­rienza let­te­ra­ria in cui la vicenda dei due pro­ta­go­ni­sti prin­ci­pali, il bianco bene­stante Steve e la nera zulu Jabu — cre­sciuti entrambi, ma su fronti diversi, nella lotta al regime segre­ga­zio­ni­sta -, rac­co­glie la sfida di un paese gio­vane, un paese in cui rico­struire sulle mace­rie del pas­sato è forse più dif­fi­cile che con­se­gnarne la memo­ria (ed il senso) agli scia­calli della Sto­ria. I poli socio­cul­tu­rali de L’aggancio ven­gono qui rove­sciati: se nel primo è la donna, Julie, l’espressione dell’ordine costi­tuito, men­tre Abdu, l’uomo di cui si inva­ghi­sce, rap­pre­senta, in ter­mini socio­lo­gici, l’altro, il diverso, inNo Time Like the Pre­sent (que­sto il titolo ori­gi­nale di Ora o mai più), l’inversione del sesso rie­dita in una nuova chiave, più rea­li­stica e con­no­tata, i ter­mini emi­nen­te­mente poli­tici di Luglio (July’s Peo­ple, del 1981), ponendo in una chiave scet­tica e dubi­ta­tiva, fin quasi sim­bo­lica, l’ineludibile tema della giu­sti­zia ter­rena.
Sessant’anni dopo l’esordio, nel 1953, con
 I giorni della men­zo­gna, Gor­di­mer ha affi­dato alle oltre quat­tro­cento pagine del suo ultimo, grande romanzo, il pro­prio testa­mento arti­stico e il com­pito di fare i conti con quella sto­ria che, come riporta l’epigrafe tratta da Guerra e pace, «ha a che fare con mani­fe­sta­zioni della libertà umana nel con­te­sto del mondo esterno, con il tempo e con la dipen­denza dalle cause», ricor­dando a noi let­tori, con le parole del poeta e atti­vi­sta dell’African Natio­nal Con­gress Keo­ra­pe­tse Kgo­si­tsile, come «seb­bene il pre­sente rimanga / Un luogo peri­co­loso in cui vivere / Il cini­smo sarebbe un lusso avventato».


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