lunedì 29 dicembre 2014

Squallidi, teneri e dannati, gli antieroi di Richard Yates

da il manifesto
ALIAS DOMENICA

Squallidi, teneri e dannati, gli antieroi di Richard Yates

Narrativa americana. Secondo romanzo dell'autore di "Revolutionary Road", "Sotto una buona stella" racconta l'odissea isterica di una scultrice mancata e la vita in guerra di suo figlio

Ciò che rende Richard Yates uno scrit­tore così sin­go­lare ben­ché non esi­bi­sca segnali sti­li­stici cla­mo­rosi, ha a che vedere con la sua ricor­rente capa­cità di appas­sio­narci a per­so­naggi per­denti, ma non fino al punto di pro­porsi quali figure esem­plari della mise­ria umana; come se una natu­rale discre­zione tenesse le pagine dello scrit­tore ame­ri­cano lon­tane dagli eccessi, e il suo pudore si tra­du­cesse nella abi­lità di tro­vare la giu­sta misura del pathos. Per di più, Yates sa ren­dere attraenti le vicis­si­tu­dini dav­vero poco ecla­tanti di per­so­naggi senza par­ti­co­lari carat­teri distin­tivi, non dise­gna scene memo­ra­bili, e le trame dei suoi romanzi si sno­dano in buona parte pre­ve­di­bili, senza mai sbi­lan­ciarsi in bru­sche virate, men­tre tutta la riserva di suspence si ali­menta, in fondo, a niente altro se non le rica­dute in quella auto­di­strut­ti­vità che cicli­ca­mente e inde­fet­ti­bil­mente guida le gesta dei suoi per­so­naggi. Certo, anche gli eventi esterni spesso infie­ri­scono, ma ciò che deter­mina il destino degli uomini e delle donne cari a Yates pro­viene dalla strut­tura della loro per­so­na­lità, dalle loro orga­niz­za­zioni difen­sive con­tro una vita che sem­bra averli pre­vi­sti con le spalle al muro.
Quasi tutto ciò che lo scrit­tore ame­ri­cano inventa ha solide radici nella sua bio­gra­fia, sulla quale domina, come una costel­la­zione sini­stra, la figura della madre, che si chia­mava Ruth e era una scul­trice pro­prio come Alice Pren­tice, anima prin­ci­pale del secondo romanzo di Yates, Sotto una buona stella, scritto nel 1969 e tra­dotto solo ora da Andreina Lom­bardi Bom (mini­mum fax, intro­du­zione di Fran­ce­sco Longo, pp. 411, euro 14,50). Otto anni prima, l’unico vero suc­cesso dello scrit­tore sta­tu­ni­tense, Revo­lu­tio­nary Road, sem­brò fis­sare la soglia delle aspet­ta­tive troppo in alto per essere di nuovo rag­giunta, e dun­que agì retroat­ti­va­mente a mo’ di male­di­zione, oscu­rando la fama di altri romanzi che avreb­bero meri­tato di venire valu­tati, se non altro, come una con­ferma. Il fatto è che nulla di quanto Yates avrebbe poi rac­con­tato risultò tanto coin­vol­gente quanto i litigi e le fru­stra­zioni dei gio­vani Whee­ler, gli abi­tanti di Revo­lu­tio­nary Road insod­di­sfatti e idio­sin­cra­tici rispetto allo ste­reo­tipo bor­ghese anni ’50, che loro mal­grado si tro­vano a incarnare.
Quella che Yates inter­pretò con i suoi romanzi sarebbe pas­sata alla sto­ria come l’età dell’ansia. Tre anni dopo la sua nascita comin­ciò la Grande depres­sione, poi venne la guerra, pos­si­bile tea­tro di riscatto per uomini come quelli che lo scrit­tore ame­ri­cano mette in scena. Pro­prio uno di loro è il pro­ta­go­ni­sta di Sotto una buona stella: si chiama Robert J. Pren­tice, viene arruo­lato a diciotto anni come fuci­liere e desti­nato, subito dopo lo sfon­da­mento tede­sco nelle Ardenne bel­ghe, a rag­giun­gere la Nor­man­dia, poi l’Alsazia sotto il comando della Prima Armata fran­cese. Sem­pre meno capace di cap­tare il senso di ciò che gli suc­cede intorno, Pren­tice avverte le scene che la guerra offre alla sua ine­spe­rienza come una sequenza di riprese mon­tate a casac­cio: le poche azioni bel­li­che in cui è coin­volto rive­lano la sua gof­fag­gine ma al tempo stesso il suo corag­gio e il desi­de­rio quasi dispe­rato di farsi valere. Deve la pro­pria insi­cu­rezza al fatto di essere cre­sciuto lon­tano dal padre, un brav’uomo che prov­vede al suo sosten­ta­mento e a quello della madre scia­lac­qua­trice, ver­bosa e mani­cale nel suo otti­mi­smo fuori luogo, il cui umore sale a misura delle ille­git­time fan­ta­sie di gran­dezza che le deri­vano dal suo lavoro di scultrice.
Da bam­bino Pren­tice posava nudo per lei, sfi­dando il sar­ca­smo dei com­pa­gni di scuola e la noia delle lun­ghe gior­nate pas­sate immo­bile con il brac­cio pie­gato e un grap­polo d’uva a sfio­rar­gli la bocca. Da grande scrive alla madre let­tere dal fronte, ma prima ancora – quando il romanzo prende avvio – sfrutta la breve licenza che lo separa dalla guerra che com­bat­terà in Europa per andarla a tro­vare. Ed ciò che il suo occhio regi­stra a for­nire al let­tore il primo ritratto di Alice. A dispetto delle sue fan­ta­sie di gran­deur, gli interni della casa che ora abita si pre­sen­tano sciatti, arre­dati con mobili sbi­len­chi, imbrat­tati di cenere di siga­retta. E quando porta il figlio a man­giare fuori gli dice la stessa iden­tica frase che ripe­terà quat­tro­cento pagine dopo alla amica di turno, ossia che tutti i risto­ranti della zona sono orrendi ma lei ne ha tro­vato uno decente, anzi pro­prio sim­pa­tico e poco caro, come a signi­fi­care che il suo fiuto e il suo indub­bio buon gusto bastano a dis­sol­vere lo squal­lore in cui le tocca vivere.
La car­riera arti­stica di Alice è «una odis­sea iste­rica», resa sop­por­ta­bile dalla con­vin­zione di tro­varsi comun­que sotto quella buona stella che dà il titolo al libro, e soprat­tutto con­for­tata dalla soli­da­rietà incrol­la­bile, seb­bene non acri­tica, del suo bam­bino, che cre­sce sen­ten­dosi l’unico senza un padre, l’unico a avere sta­tue nel garage invece di una mac­china, il solo a essere allog­giato in una casa che sa di escre­menti di gatto e rima­su­gli di pla­stlina. Tutto ciò che Alice chie­derà al figlio in par­tenza per la guerra è di con­ve­nire con lei su quanto ha biso­gno di pen­sare: che la sua vita non è stata un fal­li­mento.
Come molti altri per­so­naggi di Yates, Alice Pren­tice deve ele­mo­si­nare dallo sguardo dell’altro ciò che le serve per sen­tirsi una per­sona meri­te­vole di esi­stere. Ha avuto un marito ma era per lei troppo mode­sto: liti­ga­vano e ha divor­ziato. Ha ceduto alle lusin­ghe pas­seg­gere di altri uomini, e quando ormai le spe­ranze sem­bra­vano per­dute era arri­vato l’incontro che avrebbe inau­gu­rato la sua nuova vita. Fin dalla prima frase – «Ho saputo che lei è un’artista» – Ster­ling Nel­son si era annun­ciato come l’uomo per­fetto. Ma era scritto nel destino di Alice che se ne sarebbe andato, seb­bene non avesse pre­vi­sto l’onta di sco­prirlo in fuga dai suoi debi­tori. Per­ciò ancora una volta lei resterà sola con il figlio, diso­rien­tata nella grande casa vuota, fra oggetti pre­ziosi la cui ori­gine e il cui valore le sono inin­tel­le­gi­bili, pronta a un nuovo trasloco.
Non era dif­fi­cile per Yates, imme­de­si­marsi in quella prov­vi­so­rietà eletta e regola di vita, né descri­vere i gesti rive­la­tori di una donna model­lata su sua madre, anche lei una arti­sta man­cata al seguito della quale aveva fatto le vali­gie almeno una volta l’anno. Nel ricordo che Richard Price gli dedicò, l’autore di Revo­lu­tio­nary Road appare come un uomo indi­gnato, pieno di ama­rezza e di ran­cori. Di sicuro lo era, ma l’esperienza di una vita tanto avara di sod­di­sfa­zioni – ben­ché avesse gua­da­gnato una noto­rietà suf­fi­ciente a far­gli com­mis­sio­nare la ste­sura dei discorsi di Robert Ken­nedy quando era mini­stro della difesa – rese al tempo stesso più spie­tato e più com­mosso il suo sguardo di scrit­tore. Tutta una serie di river­beri si aprono, infatti, a illu­mi­nare, ma anche a giu­sti­fi­care, la debo­lezza dei suoi per­so­naggi, le pic­cole mise­rie, la bra­mo­sia di venire innal­zati a una più nobile con­di­zione sociale gra­zie alla fre­quen­ta­zione delle per­sone «giuste».
Alcune tra le pagine più belle di que­sto secondo romanzo di Yates col­gono Alice Pren­tice nel salotto dei grandi pos­si­denti ter­rieri dai quali vor­rebbe otte­nere un affitto, poi nella casa dei suoi nuovi spre­giu­di­cati vicini: in entrambe le situa­zioni, tre­mante di disa­gio o di ammi­ra­zione, con­tem­pla quelli che fino a un minuto prima le sareb­bero sem­brati difetti, e li con­verte in virtù. Il distacco, la sciat­te­ria, l’incuranza della più rudi­men­tale gen­ti­lezza, la casua­lità del vestire, tutto le appare come un segno di distin­zione, di rilas­sata libertà dei costumi, a fronte della sua con­ven­zio­na­lità borghese.
Le pagine che Yates dedica a Alice si alter­nano a quelle dove è pro­ta­go­ni­sta il gio­vane Robert, che dal fronte passa in ospe­dale per curarsi una pol­mo­nite, pro­prio men­tre la prima Armata attra­versa il Reno e nel Paci­fico i mari­nes sbar­cano a Iwo Jima. L’uccisione dell’unico com­pa­gno d’armi al quale Pren­tice si era affe­zio­nato gli fa cer­care una occa­sione per espiarne la morte, ma per quanto si affanni quella occa­sione non gli verrà data.
Anche in Cold Spring Har­bor Yates attin­gerà alle sue per­so­nali espe­rienze di inviato sul fronte – prima in Fran­cia, poi in Ger­ma­nia con le forze di occu­pa­zione – e pro­iet­terà sul per­so­nag­gio di Evan le lusin­ghe che la guerra for­ni­sce alla for­ma­zione della per­so­na­lità di un ragazzo; ma subito dopo ritira quella pro­messa di digni­tosa viri­lità, e anche di Evan fa un can­di­dato al fal­li­mento. Qui, per la verità, il per­so­nag­gio di Robert gode di qual­che luce in più, ma pro­prio quando il let­tore sem­bra legit­ti­mato a nutrire una spe­ranza sulle sue sorti, pro­prio quando la guerra è ormai finita e il gio­vane Pren­tice è pronto a andare per il mondo, un finale bru­sco taglia il fiato del romanzo, come se Yates non avesse saputo risol­vere altri­menti il suo impe­ra­tivo a lasciare il let­tore con l’amaro in bocca.


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