CULTURA
La ricreazione è servita
Saggi. «A casa del popolo» di Antonio Fanelli, per Donzelli. Una ricerca antropologica sul campo per rintracciare le origini dei luoghi di associazionismo operaio e proletario
All’indomani del Risorgimento le plebi italiane si affacciarono alla vita politica. I centri di socializzazione e incontro furono da principio le cantine e le osterie, alla bevuta si accompagnava così la lettura ed il commento di qualche foglio o dei primi giornali; la «Canaglia», il «Comunardo», l’«Anticristo». Erano i tempi dei Costa, dei Marabini, degli uomini che posero le basi politiche ed organizzative per la nascita del movimento operaio nel nostro paese.
È in questa fase dello sviluppo, contemporanea alla nascita del partito e del movimento socialista, che fioriscono le prime case del popolo. In un unico luogo fisico si ritrovano a svolgere le loro attività organizzazioni politiche, sindacali, mutualistiche, cooperative e ricreative. In pochi anni, grazie anche alla lotta contro l’analfabetismo e agli sforzi per divulgare una preparazione professionale, le case del popolo diventano il simbolo dell’unità, dell’espansione e della forza del movimento. Se è vero che a questa forma avanzata di associazionismo contribuiscono anche democratici e cattolici, è altrettanto vero che decisivo è il rapporto, via via simbiotico, che viene a stabilirsi con le organizzazioni operaie.
L’esigenza di ricostruire la storia del movimento associativo fiorentino nel secondo dopoguerra, e in particolare delle case del popolo e dei circoli Arci, ha spinto Antonio Fanelli, dottore di ricerca in antropologia presso l’Università di Siena, a realizzare il libro A casa del popolo. Antropologia e storia dell’associazionismo ricreativo (Donzelli, pp. 258, euro 30). Si tratta di una ricerca di antropologia storica condotta sul campo, attraverso trentacinque testimonianze orali di dirigenti locali e lo studio degli archivi storici delle case del popolo.
Fanelli ne ricostruisce, quindi, l’evoluzione da luoghi dell’autonomia proletaria, in cui forti erano i sentimenti di solidarietà e identità di classe, «a spazi plurali della società civile».
Sullo sfondo dei profondi mutamenti avvenuti in questi ultimi decenni sul piano della partecipazione e della solidarietà, emerge – a giudizio dell’autore — «una forte capacità di resistenza e di adattamento delle case del popolo», la cui funzione sembra quindi estrinsecarsi, per un verso, nella mediazione dei conflitti e nell’integrazione sociale, per un altro, nella promozione della cultura e del tempo libero.
Sullo sfondo dei profondi mutamenti avvenuti in questi ultimi decenni sul piano della partecipazione e della solidarietà, emerge – a giudizio dell’autore — «una forte capacità di resistenza e di adattamento delle case del popolo», la cui funzione sembra quindi estrinsecarsi, per un verso, nella mediazione dei conflitti e nell’integrazione sociale, per un altro, nella promozione della cultura e del tempo libero.
Ad essere venuto meno, sembra utile sottolineare, è il progetto compiutamente politico di emancipazione, la cosiddetta prospettiva: quell’orizzonte per cui le case del popolo, nei centri più piccoli e nelle campagne in particolare, erano «la prima pietra di una società nuova» (Ragionieri, 1956). «Casematte» attraverso cui i lavoratori, «prima di conquistare il potere governativo» (Gramsci, Q 19), iniziavano ad assumere una effettiva funzione dirigente, elaborando coscienza e costruendo forme di relazione e di vita, esperienze e linguaggi, «liberati» dallo sfruttamento. Di questa mancanza, tradottasi in crisi di consapevolezza e disorientamento, vi è traccia tra le testimonianze raccolte.
L’attenzione dell’autore, in più punti della trattazione, si concentra sul complesso rapporto tra l’intellettualità di sinistra, e più in particolare comunista, e la cultura di massa. Se l’elaborazione dell’Arci sul tema, fin dalle origini e ancora nei primi anni settanta – a guida socialista, fu improntata a «cogliere con maggior pragmatismo le opportunità di sviluppo della modernità», rappresentando pertanto «una modalità ’altra’ di accesso al mondo dei consumi da parte dei ceti popolari», quella del Pci, a parere dell’autore, fu vittima di uno «schematismo illuminista», che limitando la capacità di comprensione della dinamica delle «trasformazioni in corso», finì per dar luogo a forme di «conservatorismo».
Posta in termini antinomici la questione rischia, tuttavia, di essere semplificata. All’irreggimentazione del dibattito politico, e culturale, lungo i canali della guerra fredda, corrispose, infatti, una dialettica di posizioni assolutamente trasversale alle organizzazioni del movimento operaio dato che, peraltro, assai spesso si trattava di persone che militavano contemporaneamente, con funzioni dirigenziali, in diverse organizzazioni.
L’attenzione dell’autore, in più punti della trattazione, si concentra sul complesso rapporto tra l’intellettualità di sinistra, e più in particolare comunista, e la cultura di massa. Se l’elaborazione dell’Arci sul tema, fin dalle origini e ancora nei primi anni settanta – a guida socialista, fu improntata a «cogliere con maggior pragmatismo le opportunità di sviluppo della modernità», rappresentando pertanto «una modalità ’altra’ di accesso al mondo dei consumi da parte dei ceti popolari», quella del Pci, a parere dell’autore, fu vittima di uno «schematismo illuminista», che limitando la capacità di comprensione della dinamica delle «trasformazioni in corso», finì per dar luogo a forme di «conservatorismo».
Posta in termini antinomici la questione rischia, tuttavia, di essere semplificata. All’irreggimentazione del dibattito politico, e culturale, lungo i canali della guerra fredda, corrispose, infatti, una dialettica di posizioni assolutamente trasversale alle organizzazioni del movimento operaio dato che, peraltro, assai spesso si trattava di persone che militavano contemporaneamente, con funzioni dirigenziali, in diverse organizzazioni.
Un peso indubbio, in questa vicenda, lo ebbe certamente la cultural cold war: in una prima fase, infatti, le attenzioni della diplomazia culturale americana si erano concentrate proprio sulla cultura popolare, cui si attribuiva «un ruolo cruciale nel mobilitare le scelte del popolo»: l’Italia del resto, spiega Simona Tobia in Advertising America. The United States Information Service in Italy (2008), secondo la valutazione del Dipartimento di Stato, era il paese dell’Europa occidentale più vulnerabile al «rischio» del comunismo.
Il Pci dal canto suo, pur con dei ritardi, seppe cogliere il cambio di clima politico determinatosi nel paese. Paradigmatica è la vicenda delle elezioni per il Comune di Bologna del 1956, in cui la Dc tentò, con Dossetti, di sfidare da «sinistra» il governo locale comunista, predicando una via di austerità. Il Pci, di converso, assumendo la promozione e la difesa del benessere materiale delle classi popolari e medie quale proprio ruolo nevralgico, riuscì a prevalere nettamente nelle urne. è in questo quadro, in conclusione, che il «centrismo» a marca Dc, la formula politica che avrebbe dovuto garantire la crescita dei consumi e più in generale dell’economia, mantenendo gli equilibri sociali dell’Italia tradizionale e il relativo sistema dei valori, entra in crisi, gettando le basi per una serie di cambiamenti politici, non ultimo, il protagonismo del Psi.
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