ALIAS DOMENICA
Il punto cieco di Javier Cercas
Intervista. Lo scrittore spagnolo, che sabato e domenica sarà al Festivaletteratura di Mantova, parla del suo nuovo libro, un "romanzo senza finzione" titolato "L'impostore" e basato sul caso vero di un uomo che per tre decenni si spacciò come deportato nei campi nazisti dove non era mai stato
Javier Cercas
Mettere insieme frasi trasparenti e precise per stanare verità semioccultate è una delle qualità più ricorrenti nei «romanzi senza finzione» di Javier Cercas, quei libri la cui materia è già Storia, in cui un certo numero di fatti realmente accaduti si moltiplica e si riverbera in combinazioni retoriche sapientemente architettate.
L’ultima sua performance muove dalla storia di un uomo chiamato Enric Marco, per quasi tre decenni agli onori della cronaca in quanto combattente antifranchista deportato nella Germania hitleriana, poi – raccontava – sopravvissuto ai campi nazisti e dunque presidente per tre anni della grande associazione spagnola dei sopravvissuti, la Amical de Mauthausen. Venne tributato di onorificenze, invitato a tenere centinaia di discorsi, anche in Parlamento, richiesto di migliaia di interviste, finché uno storico tanto oscuro quanto ostinato, Benito Bermejo, non scoprì che era tutto falso: quello che nel libro di Cercas sarebbe diventato L’impostore (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 416, euro 20,00) non fu mai deportato, men che meno approdò a Flossenbürg dove pretendeva di essere stato internato, e tutta la sua vita fu un enorme abuso, probabilmente perpetrato allo scopo di compensare la mancanza di amore che la madre, una pazza rinchiusa per trentacinque anni nel manicomio dove lo partorì, non aveva potuto dargli.
Man mano che Cercas si addentrava nella storia di Enric Marco scopriva in lui «un picaro, un ciarlatano scatenato, un imbroglione unico», sempre schierato con la maggioranza, sistematicamente pronto a dire di sì, un vorace accaparratore di consensi, in cerca di simpatia, onori, visibilità. La sua gigantesca menzogna era tessuta di piccole verità, e se ebbe tanto ascolto e ne derivò altrettanto successo fu grazie ad alcune debolezze collettive così tipiche della sinistra: il prestigio della vittima, l’aura del testimone, la conversione in retorica della memoria storica.
Javier Cercas indugiò molto a lungo prima di scrivere questo libro: dice di avere avuto paura, perché a volte «la realtà uccide e la finzione salva».
Riepiloghiamo con lui alcuni temi, prima che sabato prossimo, al Festivaletteratura di Mantova, racconti come si è districato in questo incredibile intreccio di verità e bugie.
Lei aveva costruito il suo romanzo titolato «Anatomia di un istante» intorno al gesto di Adolfo Suárez che si rifiutò di gettarsi a terra mentre i golpisti sparavano sul Parlamento: un atto di coraggio che è anche – scrive – un «gesto di grazia, di indubbio valore estetico». Nell’«Impostore», invece, si è dovuto confrontare con un uomo la cui vita è sprofondata nel Kitsch, un bugiardo aspirante al ruolo della vittima. Sembra che lei abbia dovuto vincere, tra l’altro, una riluttanza di tipo estetico, quasi avesse avuto paura di venire contagiato, in quanto persona e in quanto romanziere: come se raccontando la storia di Marco rischiasse di esporsi a un cinismo con il quale non avrebbe voluto intrattenersi. È così?
Forse. Non c’è etica senza estetica: il gesto di Suárez che dice No è bello perché è un gesto di coraggio; i gesti di Marco che dice Sì sono orribili perché vili. Lei ha ragione: questi due personaggi sono per molti versi opposti (anche se non del tutto: Suárez è stato, per gran parte della sua vita, un picaro, come Marco). Comunque, almeno quando, nel febbraio del 1981 i gopisti spararono sull’emiciclo del Parlamento, Suárez si comportò da autentico eroe, rifiutandosi di abbandonare il suo scranno e di buttarsi a terra. Marco, per parte sua, è stato un falso eroe per quasi tutta la sua vita. Dico quasi tutta perché sta al lettore decidere se, in qualche momento, abbia contraddetto le sue abitudini. Per il resto, ho l’impressione che il mio atteggiamento verso entrambi i personaggi sia lo stesso: cerco di capirli in tutta la loro complessità per comprendermi e per comprenderci; è quasi superfluo dire che capire non vuol dire giustificare, semmai il contrario.
Trovo molto efficace la retorica con la quale lei costruisce i suoi libri, ripetendo anche a distanza di poche pagine, le stesse cose: a volte con le stesse parole, a volte invece cambiandole e aggiungendo dettagli, ma sempre come se fosse la prima volta che ne parla. È una strategia narrativa che aveva già impiegato in «Anatomia di un istante», mentre non compare nei romanzi di sola finzione. Come ci è arrivato?
Credo che in un certo senso tutti i miei libri – i romanzi come la non-fiction – funzionino così. Sono un po’ come quelle composizioni musicali in cui il tema, e persino le singole frasi, si ripetono più volte, cambiando via via fino a costruire una rete di significati che dovrebbe imprigionare il lettore e liberarlo allo stesso tempo. La musica che mi piace funziona così: Bach, Mozart, lavorano in questo modo; ma anche il rock and roll funziona così: sulla base di variazioni e ripetizioni. E naturalmente lo stesso vale per la poesia. Come ci sono arrivato? Non lo so: forse, appunto, attraverso la poesia o la musica. Anche alcuni romanzieri, tuttavia, procedono in questo modo, per esempio Conrad, e tra i contemporanei Kundera e Thomas Bernhard.
A me pare che questa strategia sia stilisticamente mimetica dell’intreccio tra verità e finzione che è alla base di tutti i suoi libri.
Il fatto è che la finzione pura non esiste: è una invenzione di quelli che non sanno cosa sia; d’altronde, se la finzione pure esistesse, non avrebbe alcun interesse: la finzione è interessante perché è intrecciata alla realtà e se ne alimenta. Detto questo, è ovvio che in qualsiasi scrittore minimamente valido la relazione che stabilisce tra realtà e finzione ha una sua specificità, e nel mio caso varia in ogni libro.
Lei ha perfettamente ragione quando scrive che il peggior nemico della sinistra è la sinistra stessa, e quando denuncia la caduta in un sentimentalismo ipocrita e ornamentale; ma non pensa che questo sia un fenomeno più ampio, che si accompagna, per esempio, all’addio alla verità che ha contrassegnato la stagione postmoderna? Non ci sono fatti, solo interpretazioni, la celebre sentenza di Nietzsche la cui conseguenza sarebbe che il mondo vero ha finito per convertirsi in favola, è quanto Marco porta a giustificazione delle proprie bugie. Fin dagli esordi di «Soldati di Salamina», invece, la sua narrativa sembra avere molto a cuore la realtà dei fatti. E tuttavia, lei torna più volte a scrivere che la finzione salva e la realtà uccide. Come si conciliano queste sue convinzioni?
Concordo totalmente con il fatto che il Kitsch non è un patrimonio esclusivo della sinistra: se questa attira, nel corso del romanzo, le mie critiche, è perché sono un uomo di sinistra. Il tema della finzione che salva di contro alla realtà che uccide si ripete lungo tutto il libro, variando di significato. Per un verso è vero che non possiamo vivere di sola realtà, e che abbiamo bisogno della finzione perché la realtà è non solo insufficiente ma brutale e non ci offre mai ciò di cui abbiamo bisogno. «Human kind cannot bear too much reality», dice T.S. Elliot, e ha ragione. Marco ne è un esempio perfetto: si salva inventandosi un sé eroico, come Alonso Quijano si salva inventandosi un Chisciotte tanto eroico quanto pazzo. Per un altro verso, però, si ricordi che alla fine del romanzo Cervantes fa sì che Chisciotte muoia savio, lo restituisce al suo vero sé, proprio come io ho cercato di riportare Marco alla realtà della sua persona, riconciliandolo con la verità della sua vita. Quel che Cervantes dice nel Chisciotte tento di dimostralo anch’io nell’Impostore: abbiamo bisogno della finzione tanto quanto della realtà. Per il resto, difendo comunque il postmoderno, o almeno alcuni suoi aspetti fondamentali, intendendo qualcosa che ha la sua origine più remota nel Chisciotte e la più vicina in Borges; però sono d’accordo con lei: Nietzsche non ha ragione, oltre alle interpretazioni dei fatti esistoni i fatti in sé. Quanto a me, non sono già più postmoderno, sono post-postmoderno.
Perché, stando a quanto ha scritto, un autore dovrebbe aspirare alla sconfitta?
Perché gli unici libri che vale davvero la pena scrivere sono quelli teoricamente, impossibili. Per questo Faulkner diceva che il massimo cui dobbiamo aspirare noi scrittori è una onorevole sconfitta.
A un certo punto Marco le chiede di lasciargli qualcosa a cui aggrappare il poco che gli resta della sua identità smascherata. A me sembra che questo sia anche il problema del narratore: da una parte, la sua empatia fa sì che lei si chieda: cosa posso lasciare a Marco perché non vada del tutto distrutta quella immagine di sé alla quale aveva aderito con tutto se stesso? Ma anche: cosa posso lasciare a questo personaggio affinché non sembri solo un fantoccio posseduto da una idea? Perché continui a sembrare vivo?
Questo è un momento chiave del libro. Sapevo fin dall’inizio che non avrei potuto scrivere un romanzo convenzionale, un romanzo di finzione, perché Marco è di per sé una finzione ambulante, una girovagante menzogna, e scrivere una finzione sulla finzione sarebbe stato ridondante, letterariamente irrilevante; ciò che avrei dovuto fare, piuttosto, era raccontare la verità di Marco e metterla in conflitto con le sue bugie. Cosi, fin dall’inizio dissi a Marco che non intendevo scrivere una sua agiografia, non volevo né vendicarlo né riabilitarlo, come lui avrebbe desiderato; gli spiegai che avrei semplicemente cercato di raccontare la verità sulla sua vita, tutta la verità. Ma poi, nel momento che lei ha ricordato, Marco mi ha fatto pena, mi è dispiaciuto doverlo spogliare dell’involucro di bugie in cui aveva avvolto la sua vita, nel tentativo di farsi amare dagli altri e ingannandoli tutti; ma ho anche sentito di non poter fare altrimenti, perché lo esigeva il libro, perché era il mio dovere. A volte noi scrittori ci mettiamo nei pasticci, è una attività nella quale sono uno specialista. D’altronde, chi non accetta di mettersi nei guai non dovrebbe fare lo scrittore.
Per la prima volta lei introduce in questo romanzo un capitolo che è intitolato a una sua teoria, già in altre occasioni enunciata: «il punto cieco». Può riassumere cosa intende con questa espressione?
L’anno prossimo uscirà in Italia un libro, tratto da una conferenza che ho tenuto la primavera scorsa a Oxford, in cui lo spiegherò come meglio posso. L’idea centrale può comunque essere riassunta in poche parole: al cuore di tutti i miei romanzi – e della maggior parte di quelli che ammiro e che fanno parte della grande tradizione narrativa, dal Don Chisciotte a Moby Dick al Processo – c’è sempre un punto cieco; vale a dire un punto attraverso il quale, in teoria, non si vede niente. Tuttavia, è precisamente attraverso questo punto cieco che, all’atto pratico, il romanzo vede; è attraverso quel silenzio che si rende eloquente, e attraverso quella oscurità che ci illumina. Romanzi di questo tipo possono venire letti come una anomala variante del thriller, o addirittura come degli anti-thriller. Intendo dire che nel loro incipit, o nel loro cuore batte una domanda centrale, e tutto il romanzo consiste della ricerca di una risposta. Alla fin fine la risposta qual è? È che non c’è altra risposta se non la propria ricerca di una risposta, la domanda in sé, il libro in sé; alla fine della ricerca l’esito non è chiaro, tassativo, univoco. La risposta è sempre ambigua, contraddittoria, equivoca, fondamentalmente ironica: una risposta che di fatto non è tale, e tuttavia è l’unico genere di risposta che può permettersi un romanzo, il cui obbligo non consiste nel far fronte alla domanda che esso stesso si è posto, bensì nel formularla nel modo più esauriente possibile. Naturalmente, è proprio la persona di Marco il grande punto cieco, il grande interrogativo dell’Impostore, come la balena lo è di Moby Dick. In conclusione: Marco è il mio Moby Dick.
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