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Annarita-LTEver
mi/vi ha regalato questa bella poesia
Quale di questi specchi
ciechi
riflette
la mia vera immagine?
Contorni sfocati e indistinti
confondono teorie di sogni,
lucide lame di pensieri
cesellati da un tempo
dilatato e inclemente.
Lo sguardo impaziente
si placa cogliendo
un profilo riflesso
di donna,
immagine forte che emerge
e richiama la vita.
Con la poesia Annarita, come lei stessa scrive,vuole esprimere quanto segue:
"L'identità di una donna ha mille sfaccettature. Il tempo non sempre aiuta a dimenticare i sogni della gioventù: l'immagine che una donna ha di sé ha molteplici aspetti, dovuti alle "maschere" che spesso è necessario indossare nella quotidianità.
A volte uno specchio può aiutarci a guardare dentro di noi, ben oltre l'immagine che riflette".
http://www.youtube.com/watch?v=wdObt1vGTKU
Il Serial Killer che e' in me ha abbandonato la sua lama iridescente e indossati i panni di Arsenio Lupin dal blog di Teoderica (http://teodericaforum.blogspot.com/) ha rubato
ho preso un cartone gettato via.
L' ho riempito di mare
vi ho fatto un sole.
Non so se alba o tramonto.
Vi ho messo dei pezzi di vetro
l'ho sigillato
l'ho fermato il tempo.
Ho preso l' alba
ho preso il tramonto
ho preso me stessa.
Complimenti alle poetesse,veramente molto brave.
RispondiElimina'A Tiana
RispondiEliminaÈ vero, “A volte uno specchio può aiutarci a guardare dentro di noi, ben oltre l’immagine che riflette”.
Mi sovviene di quando ero meno di un ragazzino. Insieme a tre fratelli, più piccoli di me, ci piaceva ascoltare le storielle, di maghi, di fate e di orchi, che raccontava con dolcezza 'a zi' Maria, un’anziana persona paralitica. A quel tempo si viveva a Puccianiello un paese della periferia a nord di Caserta, proprio in prossimità del limite del parco della nota Reggia di questa città. Qui il parco è particolarmente avvincente, quasi fuori dal tempo, perché vi è dislocato il famoso «Giardino Inglese» pieno di piante esotiche e più a monte, dal punto dove poi viene giù una caratteristica cascata, si estende sul retro il cosiddetto bosco di San Silvestro. Chi si addentra in questi luoghi è come se fosse trasportato in un mondo surreale legato al mito, a meravigliose favole. Un fantastico mondo in cui strani esseri pare che si sentano girare qua e là, giusto il risvolto alle favole di zi’ Maria.
Di quelle favole mi è rimasto impresso nella mente una curiosa filastrocca, detta in napoletano, che spesso le precedeva. Chissà perché, mi sono chiesto in seguito da grande, ogni volta che mi ritornava in mente. Ma era talmente radicata in me da provare gusto nel ripeterla mentalmente, ma a volte anche a bassa voce. Perché?
Forse doveva costituire, per mano del fato, un’amorevole azione protettiva o qualcosa del genere. Forse anche perché potessi ora raccontare, a chi potesse recepirla, la filastrocca in questione per trarre illuminazioni mentali. Quasi che fosse il famoso bacio del principe per disincantare la bella principessa addormentata ed il suo reame della nota favola. Viene da sorridere?
Eppure quanti “reami” sepolti nella mente, ad un tratto, riemergono per semplici ed inspiegabili stimoli. Perché proprio in questo modo potrebbe essere concepita la riflessione poetica di Annarita. Dunque sentite la filastrocca napoletana:
«Ce steve 'na vota 'nu viecchie,
e 'na vecchia areto a 'nu specchio,
areto a 'nu monte...
Statte zitte che mò tu conte.
E tu conte dint' 'a tiana,
mammeta e patete i ruffiani».
Tradotta fa così:
«C'era una volta un vecchio, / ed una vecchia dietro uno specchio, / dietro un monte... / Stai zitto che or te lo racconto. / E te lo dico dentro un tegame, / mamma e papà i ruffiani».
Come sembra ravvisarvi, c'è l'essenziale del minimo della vita se non di più, che io intravedo nel modo seguente. Il passato, che è anche punto di termine della vita in quei due «viecchie» quando facciamo riflessioni davanti allo specchio, vuol indicare al limite la nostra coscienza, ma è anche la normale attività di pensiero. Il presente è il superamento del monte delle asperità della vita riconducibile anche alla prospettiva del mistero riposto nella fine di ogni cosa, la morte. Nel presente l’emblema dei due «ruffiani» in noi che sono sempre i due «viecchi», ci aiuta a svincolarci dalla superbia causa dello svanire dell'amore per dar luogo ad un incerto e periglioso «fai da te» che si ravvisa nella raccomandazione di «statte zitte», ossia rifletti prima di svincolarti dai due in questione, ovvero prima di costituirti artefice di te stesso, se non vuoi sperimentare la mortale solitudine del vuoto dell'anima.
E poi si tocca terra raccomandabile con la «tiana», col vaso delle cose che sembrano amabili, ma anche delle cattive sorprese frammischiate sapientemente (se si sta “zitti”, però). Può servire il “digiuno” per evitare l’amarezza che potrebbe trapelarsi in questa o quella ciotola del nutrimento, che, gira e rigira, non è possibile evitare? O forse altre «tiane», più in là, ci sembrano migliori come amori che riteniamo ci spettino, risolvino ogni cosa non più gradevole dei vecchi orcioli? Ma se ciò fosse, come sembra che avvenga oggi, non restano che lo specchio ed il monte, come voler dire attenzione a non corrompere anche questi “due” dalle apparenze poco o nulla incisive, ma che costituiscono le sostanziali “radici” delle nostre origini divine.
«’A tiana» dei racconti di «zi' Maria» ci potrebbe ricondurre al mitico Graal dei cavalieri del Medio Evo, considerando che questo termine dialettale, «tiana», è relativo ad un tegame molto somigliante con un altro a forma di bacile in uso nel Medio Evo.
Dai primi racconti sul Graal questo calice in principio era - ed è ancor oggi, in parecchi dialetti tra la Catalogna e le Fiandre - un bacile largo e basso, di materiale prezioso e pregevole fattura, destinato a piatti di pesce e al loro elaborato intingolo, detto anche «gradalis» o «gradale», «caro e gradito a chi vi mangia». Il resto della storia a ritroso su questa incerta coppa senza tanta apparente nobiltà, ci viene così tramandato dal passato, ma anche tutt’ora sono in molti a cesellarla con contorni persino fantasiosi. Che dire del Graal? Meglio: cosa conta come emblema, al di là delle fantastiche concezioni ingigantite oggi dai media della carta stampata e dai cineasti? L'opinione che raccolgo dai diversi scrittori a riguardo si impernia sullo slancio umano alla ricerca della verità su se stessi e sugli altri; il simbolo del dono di sé, dell’imitazione di Cristo nell’Incarnazione e nella Passione, della Creazione stessa intesa come dono; perché il Graal è la figura medievale dell’eterno mito di Ulisse, archetipo dei moderni ideali di pace tra tutti i popoli, nel progresso e nella libertà.
Ma intanto in quest’epoca preme il rovescio di tutto ciò, con cavalieri di un anti-Graal che sembrano addirittura prevalere: sapranno i primi cavalieri ricacciare gli spiriti della superbia e del malcostume dei secondi ed incatenarli all’abisso ove prima si trovavano? È vero anche che c’è di mezzo il Cristo e questo ci riporta a tutto ciò che egli ha detto al suo tempo in Palestina, poi riferito dai suoi apostoli attraverso i Vangeli.
Gesù Cristo mentre procedeva durante la festa della Palme in questione, fu rimproverato da alcuni farisei che ritenevano blasfemo il fatto che egli era acclamato e benedetto perché ritenuto un Re mandato dal Signore. Da qui la secca frase del Cristo di rimando: «Vi dico che se essi taceranno, grideranno le pietre».
Ora per chi non sorride quando parlano i “filosofi”, che si occupano della “pietra” appunto, sanno che si tratta di una sostanza vetrosa che passa sotto il nome do V.I.T.R.I.O.L. Si tratta di un termine usato nella letteratura alchemica, ed è formato dall’espressione latina Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem Veram Medicinam, che significa “Visita l’interno della terra, e rettificando troverai la pietra nascosta che è la vera medicina”.
E così toccando i piedi a terra ritorniamo allo specchio di Annarita, non prima di esserci resi conto che la “pietra-tiana” dei racconti di “’zi Maria” è uno dei tanti modi di portare a conoscenza di un certo “mare” che il cristianesimo ravvisa nella Madonna. Ma, nel nostro piccolo è bastato una donna per esorcizzarlo attraverso l’arte, Teoderica con il suo semplice ma profondo «Mare” su un banale cartone.
Ma non basta perché Pier Luigi Zanata, preso per le poesie di Annarita e Teoderica, ha fatto il resto. Le ha unite per sempre col suo sigillo fondendo la pietra che prima non si poteva portare al calore di fusione. Questa è l’opera regia dei nostri tempi senza l’uso di micidiali crogiuoli alchemici.
Ho preso un cartone
ho preso un cartone gettato via.
L’ho riempito di mare
vi ho fatto un sole.
Non so se alba o tramonto.
Vi ho messo dei pezzi di vetro
l’ho sigillato
lìho fermato il tempo.
Ho preso l’alba
ho preso il tramonto
ho preso me stessa.
E poi...
Lo sguardo impaziente
si placa cogliendo
un profilo riflesso
di donna,
immagine forte che emerge
e richiama la vita.
gaetano
Grazie Fratellone, per averla pubblicata. E grazie anche a Stella per averla apprezzata.
RispondiEliminaVale
Gaetano, non ho parole! Analisi estetica formidabile e straordinaria.
RispondiEliminaPier, il commento di Gaetano è da pubblicare nel post delle due poesie a testimonianza di quanto riescano ad esprimere la ricchezza interiore, unita ad una sensibilità estrema e una visione profonda del mondo e delle cose, elementi indissolubili coesistenti nel potentissimo coacervo umano che è Gaetano.
Un grazie incommensurabile a Gaetano, Teoderica e te, Pier.
Lo sapete già, ma non è mai troppo ribadire che siete fondamentali per me, tutti e tre...
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