lunedì 16 gennaio 2012

L’urlo del Quinto Stato contro il Moloch della crisi

da MicroMega

L’urlo del Quinto Stato contro il Moloch della crisi

di Francesca Coin


È un libro di poesia e rivolta, quello di Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri: "La furia dei cervelli" (Manifestolibri). Un grido ruvido di rabbia e zerbini randagi, un canto di resistenza. Non voglio ripercorrere il testo per intero, voglio soffermarmi su quello che per me è il suo nodo centrale. Il conflitto in corso non è solamente un conflitto contro i nostri corpi. La precarietà ai limiti dell'inoccupazione, l'assenza di garanzie sociali e di reddito, la riforma delle pensioni e del ciclo della vita, lo sfregio continuo del vivere insieme e della tenerezza, non sono semplicemente corollari di uno stato di emergenza che è divenuto permanente. Sono di più: sono i sintomi di un pensiero che in modo sempre più feroce negli ultimi decenni ha sfigurato la vita.

Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri ripercorrono questo processo dall'interno. Guardano, in altre parole, alle modalità con cui la nuova generazione, quella che adesso ha venti, trenta o quarant'anni, si è trovata, a partire dagli anni Novanta, a lavorare in un contesto immateriale caratterizzato dalla crescente autonomia dei processi di valorizzazione sulla produzione. Protagonisti, da allora, non sono più solamente i corpi ma le menti. Travolte in un flusso immateriale incessante nel quale il lavoro intellettuale si snoda, si divarica e si concatena producendo nuove prossimità e nuove soggettività, i lavoratori cognitivi diventano da un lato i funzionari della rendita del neoliberismo, coloro che, attraverso la pubblicità, la moda, la finanza, lo spettacolo, la conoscenza o l'editoria si fanno strumenti di un pensiero affilato; e dall'altro sono fucina di linguaggi, immagini, saperi, informazione, soggettività.

È qui che si colloca l'aporia, intrigante e insidiosa scrivono giustamente gli autori, del lavoro della conoscenza. Mentre l'“oligarchia degli incapaci”, come scrive Sophie Coignard, difende un pensiero tecnico dedito al generale declassamento della vita, i lavoratori cognitivi quali soggetto dell'autonomia creatrice diventano fautori di un'eresia contagiosa che afferma diritti, saperi e universi liberi. È qui che il libro di Ciccarelli e Allegri diventa il grido del nostro tempo.

Lungo l'intero ragionamento di Ciccarelli e Allegri si staglia la stessa aporia, in modo incessante, ossessivo, liberatorio: produrre cultura o divenirne ostaggio, esserne appendici oppure registi, fuggire o scrollarsela di dosso? Ciccarelli e Allegri ci portano nel cuore di questo processo. Dentro un'Italia metropolitana retta quasi esclusivamente dal lavoro cognitivo professionale, tra pubblicitari, informatici, stagisti e tirocinanti iper-specializzati, gli autori insinuano lentamente tra le pagine una domanda: che succede se questa infinita potenza, questo ceto medio dei professionisti istruiti, colonna portante della società, scriveva Ballard, si rivolta? È allora che il testo diventa un fiume in piena che alternando gli odori delle strade alle intuizioni delle menti ci riporta negli anni Novanta, nel magma culturale hip hop e punk che segna la prima forma di ribellione della psiche collettiva alla colonizzazione del tempo.

Ciccarelli e Allegri vedono nel movimento studentesco della Pantera “un vero e proprio sommovimento politico indotto dall'urgenza della presa di parola collettiva” (p. 44), l'inizio di una vera e propria ribellione della psiche che in queste pagine emerge come un processo di ricomposizione delle menti e dei corpi, dei corpi con i corpi. Certo, gli autori sono curiosi e non si accontentano degli anni Novanta, vogliono conoscere i nostri antenati, e dunque ci portano nel 1700, tra i seduttori. Si chiamavano seduttori, allora, “i pensatori eretici e radicali, liberali e proto-comunisti, attori e medici, ottici e alchimisti, professionisti e lavoratori di bottega, folli visionari profeti, aristocratici ripudiati e figli illegittimi, piccole sette para-massoniche che celebravano il “cane Spinoza”, odiavano le corti europee, trafficando dall'alba al tramonto con il popolo e le classi avanzate nei mestieri urbani” (p. 81).

Il libro insegue ferocemente quel desiderio nei secoli e nelle pagine, quel desidero sublime, indomito, maledetto di disprezzare liberamente la mondanità mercenaria per afferrare nello slancio della follia le visioni mai confessate, i sogni mai ammessi di un presente sublime sino ad afferrarli oltre alle stelle in un'insurrezione terrena. Arriviamo qui in uno slalom tra intellettuali alla vaselina e cervelli a cottimo alla messa in scena dell'estasi, all'abbandono delle monete a lungo risparmiate, della competizione che non porta a nulla, di tutto ciò che è utile per l'inutile affermando un'altra vita così, con semplice tenerezza come si trasforma un palcoscenico dismesso nella danza sensuale dei corpi.

Non sono parole al vento, sono fatti: è questa la storia del Teatro Valle Occupato, che dal 14 giugno ha trasformato in arte la vita. È questo il manifesto degli scrittori TQ, che producono immaginario affinchè vi si adegui la realtà. È questo il rovesciamento che ispira gli intermittenti dell'Acta o gli studenti, perchè è la realtà che deve cambiare, non i nostri desideri. Il Quinto Stato è la potenza creatrice che afferma il dovere d'esilio di Moloch dalle nostre vite. È questa d'altro canto per me l'inevitabile colonna sonora del testo: l'Urlo di Ginsberg. Nemmeno a ridosso degli anni Sessanta già Ginsberg percepisce che è in atto una guerra.

“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude, […] che attraversavano universita' con freddi occhi splendenti allucinando l'Arkansas e la tragedia della Blake-light fra gli studiosi della guerra […] Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha mangiato i loro cervelli e la loro immaginazione? Moloch! Solitudine! [...] Moloch! Incubo di Moloch! Moloch il senza amore! Moloch Mentale! Moloch il grande giudicatore di uomini! Moloch il carcere incomprensibile! Moloch prigione senz'anima”.

Sono strazianti le parole di Ginsberg ma è con un atto di poesia che Ginsberg umilia Moloch, il complesso di industrie e guerra responsabile di aver stretto l'immaginazione nella sua metallica geometria. L'urlo del 14 dicembre 2010 è un canto d'amore a Ginsberg. È l'eruzione “tre volte maledetta e quattro volte benedetta” dei sogni nelle piazze. È la vittoria dell'anima sull'inutile. L'affermazione ultima, appassionata e resiliente che “questo mondo e questo cervello sono nostri” (p. 71).

LINK Il blog de "La furia dei cervelli"

INTRODUZIONE (DA "LA FURIA DEI CERVELLI", MANIFESTOLIBRI)

di Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri

Non ho tentato e fallito,
nient'altro che questo
per tutta la vita...
eppure non basta...
occorre tentare farlo
di nuovo...e meglio
(Samuel Beckett)


Gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi, e molto prima delle puttane. Il verso di Majakovskij è una ragione sufficiente per non parlare di intellettuali, di talenti e della fuga dei cervelli in questo libro. Perché nella desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula della «fuga dei cervelli» si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti che hanno facilitato, diluito e infine naturalizzato il genocidio delle nuove generazioni.

L’invenzione di questa espressione ha accompagnato la liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, giovani e meno giovani, costretti ad esportare il loro «capitale umano» all’estero, facendo perdere cifre consistenti alla madre patria. Nel 2010 un’indagine commissionata dallaFondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo aveva quantificato la perdita in quasi 4 miliardi di euro. Il dato è stato ricavato dai profitti accumulati in vent’anni dalle 356 domande di brevetti depositate da ricercatori italiani emigrati. A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.

Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. È chiaro che l’espressione anglosassone «brain drain» è diventata l’occasione per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito.

In realtà, questa retorica è il risultato della sistematica rimozione delle potenzialità politiche, intellettuali e affettive di tutti i lavoratori, giovani e meno giovani, dipendenti, precari o autonomi, laureati o diplomati nel nostro paese. Ed è anche il risultato di una manipolazione delle analisi sulla produzione immateriale basata sui saperi, la conoscenza e le relazioni, centrata solo su alcuni ambiti della ricerca universitaria (preferibilmente quella medica e quella informatica), a dispetto della più ampia ed articolata economia del «terziario avanzato», del lavoro indipendente e dell’intelligenza diffusa.

Il «cervello» universitario sarebbe dunque l’unico qualificato a fuggire, mentre la maggioranza – soprattutto quella non universitaria – che resta nel paese della vergogna non è meritevole di un riconoscimento postumo, prima dell’apocalisse. Il successo di questo trucco è presto spiegato: esso rappresenta il rovescio del ritornello nazionale sulla precarietà, immancabilmente rappresentata dai sindacati, dai governi e dalle cattedre universitarie come dalle inchieste giornalistiche televisive di maggior successo da dieci anni a questa parte, come una forma di vita povera e sfortunata che, per diventare meno povera e un po’ più «civile», può solo mettersi alla catena di montaggio; sedere nello scantinato di un ministero, in regione, comune, provincia, comunità montana, o in un qualsiasi ente pubblico. Fare il servo conviene, soprattutto quando ministri pensionati, abituati alla vita nobile del parastato, consigliano di smettere di studiare e riscoprire il fascino onorevole di un lavoro da imbianchino. Competenze, ingegno, volontà e disponibilità servono a sposare un miliardario.

Questo libro propone una genealogia antica e contemporanea del Quinto Stato, un concetto che riteniamo sia molto più ampio del lavoro della conoscenza, che ne costituisce una parte importante. La sua andatura evoca cortocircuiti temporali alla ricerca di un nuovo immaginario e azzarda fughe in avanti e ritorni su precedenti sentieri interrotti. A questo proposito ringraziamo Enrico Parisio per avere creato l’immagine della copertina che simbolizza questo movimento nello spazio e nel tempo.

Soprattutto questo libro parla del furore. In primo luogo contro noi stessi. Perché è il furore l’unica matrice del cambiamento, l’inizio dell’autotrasformazione, la liberazione dai peccati degli altri. Il furore non si presenta però solo in una forma intimistica, e tantomeno in una religiosa, come accade nel dionisismo. La sua originaria espressione si oppone ai culti ufficiali, rappresenta l’affrancamento da quell’ordine mostruosamente civile che ha creato il nuovo genocidio italiano.

Noi sappiamo chi sono i responsabili. Noi conosciamo i colpevoli. In questo libro non troverete i loro nomi, perché li conosciamo tutti, uno per uno, ma ne riconoscerete le figure e le loro indegne funzioni. Il furore è l’espressione della rabbia degna e dell’odio contro un mondo organizzato sul principio della disperazione e della perdita di tutto. Ma è anche l’espressione del furore divino in cui Platone riconosceva la vera conoscenza di dio, che per noi è quella del contatto con la vita in comune e delle sue potenzialità. La furia dei cervelli è infine l’espressione di una potenza femminile che non è quella distruttrice di Medea, ma quella della creazione di una nuova conoscenza e di una nuova vita.

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