sabato 31 maggio 2014

Il soul dissacrante della tigre celtica

da il manifesto
CULTURA

Il soul dissacrante della tigre celtica

Roddy Doyle. L’epopea della working class è segnata dal rapporto ambivalente con l’identità dominante. In Irlanda questo significa analizzare il ruolo della chiesa cattolica e il mito della lotta per l’indipendenza. E fare i conti con gli effetti di una crisi economica che ha fatto ritornare al centro della scena pubblica una diffusa povertà. Un’intervista con lo scrittore, ospite a Roma del Festival delle Letterature

''Ogni volta che lascio il mio paese divento subito irlan­dese. Ho biso­gno del pas­sa­porto. Eppure non so bene cosa signi­fi­chi, anzi, se addi­rit­tura signi­fi­chi qual­cosa. Sono piut­to­sto sod­di­sfatto di essere irlan­dese, ma dete­sto essere “irlan­dese”. L’adoro e lo com­batto. Ecco dove penso si possa tro­vare l’identità, nella lotta all’identità. O nella lotta all’identità impo­sta. Stavo scri­vendo il mio nono romanzo quando mi sono reso conto che era pro­prio quello che stavo facendo: lot­tavo con­tro la mia iden­tità, o con­tro quella che altri ave­vano cer­cato di impormi, lot­tavo con­tro l’ideale. Lot­tavo con­tro quello che altri si aspet­ta­vano che fossi e scri­vevo con gioia quello che altri con­si­de­ra­vano non irlan­dese, o meno irlan­dese o più dubli­nese che irlan­dese. Alle pagine dei miei romanzi ho impo­sto la mia per­so­nale defi­ni­zione di ciò che signi­fica essere irlan­desi. E l’ho fatto anche per­ché ne avevo bisogno».
Un irlan­dese rilut­tante, è così che Roddy Doyle si è pre­sen­tato al Festi­val Let­te­ra­ture che si è aperto mar­tedi a Roma. Eppure, nes­suno come que­sto ex inse­gnante di liceo che dal 1993 a oggi ha sfor­nato una decina di romanzi straor­di­nari, fino a diven­tare uno dei pro­ta­go­ni­sti della nar­ra­tiva con­tem­po­ra­nea, ha saputo cogliere e rac­con­tare miti e inquie­tu­dini della terra d’Irlanda. Cre­sciuto nel quar­tiere popo­lare di Kil­bar­rack, nel nord di Dublino, a parte un breve periodo di stu­dio a Lon­dra, Doyle va fiero di non aver mai vis­suto a più di 3 km da dove è nato.
La memo­ria della Dublino ope­raia, i miti infranti della wor­king class, ma anche lo slang biz­zarro di chi vi abita e il modo scan­zo­nato di affron­tare le avver­sità della vita, pro­prio di chi ha cono­sciuto più ombre che luci, tor­nano più volte nei libri di Doyle che, allo stesso tempo, affronta senza alcun timore reve­ren­ziale, e soprat­tutto con un’ironia irre­si­sti­bile, anche gli ele­menti fon­da­tivi dell’identità irlan­dese: la fede cat­to­lica e il ruolo della Chiesa, la lotta per l’indipendenza nazio­nale prima e la lotta armata dell’Ira poi, la povertà ende­mica e il pal­lido oriz­zonte di un boom eco­no­mico rapi­da­mente tramontato.
Da «I Com­mit­mens», por­tato sul grande schermo da Alan Par­ker, a «Paddy Clarke ah ah ah!», da «The Snap­per», di cui Ste­phen Frears ha diretto la ver­sione cine­ma­to­gra­fica, a «The Van», pas­sando per la tri­lo­gia che attra­versa gli anni dell’insurrezione del 1916 e della grande depres­sione e che ha come pro­ta­go­ni­sta Henry Smart, per non citare che alcuni dei suoi titoli più for­tu­nati, lo scrit­tore irlan­dese si erge a testi­mone, ma senza pren­dersi mai troppo sul serio, dei tanti cam­bia­menti vis­suti da un paese che si vor­rebbe, al con­tra­rio, immu­ta­bile e nel solco della tradizione.
Fedele a que­sta sua indole dis­sa­crante ma sem­pre pro­fon­da­mente empa­tica quanto le sorti degli «ultimi», l’ultimo romanzo di Roddy Doyle, La musica è cam­biata (Guanda, pp. 395, euro 18,50), torna a pro­porci la figura di Jimmy Rab­bitte che nei Com­mit­ments era il mana­ger della soul band for­mata da un gruppo di ragazzi squat­tri­nati che cer­ca­vano così di far fronte come pote­vano alla crisi eco­no­mica. Invec­chiato e gra­ve­mente amma­lato, con una nume­rosa fami­glia sulle spalle, sta­volta Jimmy si imbarca in un’impresa altret­tanto ardua: ritro­vare — o inven­tare? — le can­zoni che si suo­na­vano in Irlanda nel 1932, quando si svolse il primo Con­gresso euca­ri­stico del paese, di cui, nel 2012, anno in cui è ambien­tato il romanzo, si cele­bra una nuova edi­zione. Que­sto, men­tre tutto intorno a lui, l’economia della «tigre cel­tica» sta andando in pezzi sotto i colpi della crisi internazionale.
Jimmy Rab­bitte è tor­nato: l’Irlanda è messa così male che biso­gna rico­min­ciare a inven­tarsi qua­lun­que cosa, pur di restare a galla?
Non abban­dono mai i miei per­so­naggi. Ho scritto dieci romanzi e sono sem­pre tor­nato a tro­varli, anche a distanza di molti anni, per vedere che cosa era cam­biato nelle loro vite. Però, è vero, ho pen­sato al ritorno di Jimmy per­ché ho asso­ciato la sua figura alla parola «reces­sione». A distanza di più di vent’anni, volevo capire come Jimmy, e ora anche la sua fami­glia, avreb­bero affron­tato la situa­zione di una nuova crisi eco­no­mica dopo quella con cui ave­vano dovuto fare i conti ai tempi deI Com­mit­ments. Volevo stu­diare le loro rea­zioni, le dina­mi­che che si sareb­bero messe in moto. Volevo, insomma, capire cosa Jimmy avrebbe potuto inven­tarsi stavolta.
Nel libro, il rife­ri­mento agli avve­ni­menti del 1932 sem­bra riman­dare anche ai segni che la povertà e la crisi lasciano, oggi come allora, sulle per­sone. Cosa la col­pi­sce o la spa­venta di più di quanto sta acca­dendo nel suo paese?
La cosa più dura da accet­tare, è il ritorno stesso della crisi eco­no­mica che da noi non è una novità, anche se pen­sa­vamo di esser­cela lasciata alle spalle. Nel 1932 l’Irlanda era un paese pove­ris­simo, con tanta gente che non aveva da man­giare e molti altri che erano costretti ad emi­grare. Dieci anni dopo le cose non anda­vano meglio, e lo stesso si può dire anche per i decenni suc­ces­sivi. Solo nel 1962 la situa­zione è comin­ciata a cam­biare, anche se per par­lare dav­vero di dif­fu­sione del benes­sere dob­biamo aspet­tare almeno fino alla fine degli anni Ottanta. Poi, sono arri­vate altre bato­ste, fino a quando, negli ultimi dieci anni è ini­ziato il cosid­detto mira­colo eco­no­mico della «tigre cel­tica». All’inizio, in molti non si aspet­ta­vano quasi quello svi­luppo, ne erano stu­piti, ci si sono abi­tuati pian piano e poi, sul più bello, quando ave­vano fatto l’abitudine a stare meglio, è arri­vata la nuova tegola della crisi inter­na­zio­nale. Per l’Irlanda è stato un vero shock. Pen­sa­vamo di avere chiuso per sem­pre con la mise­ria e invece davanti a noi si è aperto d’improvviso un pre­ci­pi­zio e ci siamo finiti den­tro con tutte le scarpe. La cosa più inquie­tante è che le per­sone della mia età lasce­ranno il paese in una con­di­zione peg­giore rispetto a quella in cui l’hanno tro­vato quando erano giovani.
Gran parte dei per­so­naggi dei suoi romanzi ven­gono dalla «wor­king class», si sente un po’ il loro portavoce?
In effetti, solo Paddy Clarke appar­tiene alla classe media. Ma non è stata una scelta razio­nale, ho scritto sol­tanto dell’ambiente che cono­scevo meglio. Diciamo che dal mio punto di vista l’appartenenza alla classe ope­raia non si defi­ni­sce tanto dai soldi che si hanno in tasca, quanto piut­to­sto dal modo in cui si decide di spen­derli. È prima di tutto una que­stione di cul­tura. Scri­vere del ceto medio signi­fica neces­sa­ria­mente pre­oc­cu­parsi di sta­tus sym­bol come i mobili, i vestiti, le auto. Ma que­sto non è il mondo in cui sono cre­sciuto e anche ora che non posso certo dire di essere povero, non mi inte­ressa granché.
Per far soldi, Jimmy vuole rac­co­gliere vec­chie can­zoni irlan­desi, ma non cerca pezzi tra­di­zio­nali, bensì sogna di sco­prire qual­che blues dimen­ti­cato, cen­su­rato, spiega, per­ché, «non cor­ri­spon­deva all’immagine che De Valera aveva all’epoca del paese». Nei «Com­mit­mens» si suo­nava soul, qui si evoca il blues di Chi­cago, più che alla musica cel­tica lei sem­bra pen­sare che l’Irlanda sia legata alla cul­tura afroa­me­ri­cana. È il suo modo di inter­pre­tare l’identità del paese?
Non so se siamo impa­ren­tati con gli afroa­me­ri­cani, ma mi pia­ce­rebbe tanto che fosse così. Il soul dei Com­mit­mens era la musica che ascol­tavo all’epoca, e che comun­que in Irlanda era tra­smessa mol­tis­simo dalle radio. Quando alle ricer­che di Jimmy, beh credo che in effetti abbiano a che fare almeno in parte con la mia idea di iden­tità. Mi spiego. Il «Con­gresso euca­ri­stico» del 1932, più che un fatto reli­gioso, rap­pre­sentò per molti soprat­tutto il primo evento inter­na­zio­nale che si teneva nel paese: chi non vi prese parte, restò incol­lato alla radio per giorni per seguirlo. Allo stesso modo, sor­pren­den­te­mente per un paese così cat­to­lico e in un’epoca in cui la reli­gione e la Chiesa domi­na­vano ogni cosa, molte delle can­zoni di quel periodo erano piut­to­sto scon­cer­tanti. Ce n’era ad esem­pio una che si can­tava ancora quando ero ragazzo. È la «Bal­lata dell’omicida», che hanno can­tato intere gene­ra­zioni di dubli­nesi: una can­zone su una donna che uccide il suo bam­bino appena nato con un col­tello in mezzo ad un bosco. Quando avevo otto o nove anni, can­ta­vamo que­sta can­zone a squar­cia­gola nel cor­tile della scuola, ci met­te­vamo molta gioia, come se si trat­tasse di un inno alla Ver­gine Maria. Ecco, tutto que­sto fa parte della nostra edu­ca­zione irlan­dese, del nostro essere irlandesi.
La lotta per l’indipendenza dalla Gran Bre­ta­gna è uno dei capi­toli fon­da­men­tali della sto­ria irlan­dese. Oggi cosa prova nel vedere che gli inglesi vogliono essere indi­pen­denti dall’Europa e che l’Ukip, il par­tito che difende que­sta idea biz­zarra, è il più votato?

In effetti, a prima vista potrebbe quasi sem­brare un cosa buffa o para­dos­sale — cosa signi­fica voler essere indi­pen­denti da un orga­ni­smo plu­ri­na­zio­nale, col­let­tivo per defi­ni­zione? -, ma in realtà è qual­cosa di pre­oc­cu­pante e che in me desta parec­chia inquie­tu­dine. Que­sta ondata di destra che scuote l’Europa non mi lascia tran­quillo. Ma sto cer­cando anche di capire cosa sta suc­ce­dendo dav­vero. Par­tiamo da un ele­mento che mi sem­bra cen­trale. Secondo un cen­si­mento che è stato fatto due o tre anni fa, almeno un abi­tante su dieci della Repub­blica d’Irlanda è nato in un altro paese. Eppure, da noi, que­sto argo­mento non si è mai tra­sfor­mato in un tema da cam­pa­gna elet­to­rale. In que­sti giorni, invece, ho letto che in Dani­marca un abi­tante su otto è di ori­gine stra­niera, e da loro la cosa è diven­tata così seria che un par­tito di estrema destra ha vinto le ele­zioni. Que­sto mi fa capire che non devo sot­to­va­lu­tare troppo il fatto di vivere in Irlanda e che, forse, il modo migliore di affron­tare que­sti temi asso­mi­glia un po’ al mio paese e alla musica che amo: è un mix senza fine. Dublino, la mia città, rias­sume in sé quello che con­si­dero uno degli anti­doti migliori al raz­zi­smo e all’intolleranza: rein­venta e ride­fi­ni­sce senza sosta la pro­pria iden­tità e la pro­pria cul­tura. Credo sia l’unico modo per potersi dire orgo­gliosi di vivere in un deter­mi­nato paese senza fare danni o esclu­dere qualcuno.

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