giovedì 29 maggio 2014

L’angelo perduto di Thomas Wolfe

da il  manifesto alias
ALIAS DOMENICA

L’angelo perduto di Thomas Wolfe

O lost. Lo straripante romanzo di formazione con cui Thomas Wolfe inaugurò la sua ricerca di un mito americano, esce per Elliot nella sua prima versione
Fra i grandi scrit­tori ame­ri­cani Tho­mas Wolfe è in Ita­lia il più tra­scu­rato, quello di cui i let­tori non per­fet­ta­mente fami­lia­riz­zati con la let­te­ra­tura d’oltreoceano sanno meno. È noto l’elogio postumo che gli venne da Faul­k­ner, il quale lo con­si­de­rava il più talen­tuoso della sua gene­ra­zione, tra­volto da un «best fai­lure» per aver ten­tato di dire di più e meglio di tutti gli altri; altret­tanto signi­fi­ca­tiva l’attenzione riser­va­ta­gli da Gil­les Deleuze (che lo accolse nel suo pan­theon ideale di scrit­tori angloa­me­ri­cani); e però anche in Ame­rica Wolfe paga ancora la sua fama di autore debor­dante, indi­sci­pli­nato, pro­dut­tore ine­sau­sto e tor­ren­ziale di pagine, inca­pace di distac­carsi da un ansioso, lus­su­reg­giante fondo auto­bio­gra­fico di matrice romantica.
In Ita­lia, ben­ché le sue opere di mag­gior impe­gno, alcune delle quali postume (You Can’t Go Home Again, Of Time and the River,The Web and the Rock) siano state tra­dotte per Mon­da­dori fra il 1949 e il ’62, Wolfe resta un autore poco letto e meno ancora discusso. Ma sem­bra sia arri­vata l’occasione per ripar­lare dello scrit­tore di Ashe­ville morto pre­ma­tu­ra­mente nel 1938, e per rimet­terlo in cir­colo: men­tre, infatti, l’editore Carta Canta ha pub­bli­cato la ritra­du­zione (a firma di Jacopo Len­ko­wicz) dei rac­conti di Dalla morte al mat­tino, Elliot ha dato alle stampe la prima ver­sione ine­dita del romanzo d’esordio di Wolfe: un romanzo finora noto solo nella ver­sione del 1929 uscita con il titolo Look Homeward, Angeldopo un fati­coso pas­sag­gio sotto le for­bici del famoso Max­well Per­kins, che fu edi­tor anche di Heming­way e di Fitz­ge­rald. Dun­que, ora la let­tura del monu­men­taleO Lost (tra­du­zione di Maria Baioc­chi e Anna Taglia­vini, Elliot, pp. 760, euro 29,00), con­dotta sulla Cen­te­nary Edi­tion a cura di Arlyn e Mat­thew J. Bruc­coli, uscita nel 2000 per la Uni­ver­sity of Cali­for­nia Press – un vero e pro­prio evento edi­to­riale – lascia fra­stor­nati e stra­na­mente ine­briati. Lo stra­ri­pante romanzo di for­ma­zione con cui Tho­mas Wolfe, a ven­ti­sei anni, inau­gurò la sua insonne ricerca di un mito inti­ma­mente ame­ri­cano, tenta di riflet­tere nello spec­chio della coscienza dei pro­pri pro­ta­go­ni­sti l’anima non nata del con­ti­nente, sulle orme dell’amato James Joyce e della divisa del suo Ste­phen Deda­lus («for­giare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza»).
O Lost è la sto­ria di Eugene Gant, cre­sciuto nella città non troppo imma­gi­na­ria di Alta­mont (die­tro cui si nasconde la natia Ashe­ville, North Caro­lina): ciò che il romanzo inse­gue è l’ingresso tor­men­tato di un Io nel mondo. Figlio di un ampol­loso scal­pel­lino dedito all’alcol e di una madre ocu­lata e intran­si­gente, Eugene vive avi­da­mente, da ossesso, «in una favola di cui non capiva nulla», al cen­tro di un cao­tico fer­mento sen­so­riale che dovrà attra­ver­sare ma anche addo­me­sti­care al fine di tro­vare una strada nel mondo. Abita in lui una scan­da­losa, impla­ca­bile one­stà che non è costume morale ma un modo di essere, fisico e men­tale: «Come maschera, il volto di Eugene era inu­tile: era una pozza scura in cui anche il più pic­colo ciot­tolo di pen­siero e di sen­ti­mento pro­du­ceva ampi cerchi».
La postura nar­ra­tiva di Wolfe è molto sem­plice: si basa sul con­flitto, che è l’elemento in cui cre­sce la sco­perta di sé, e per il cui tra­mite quell’Io che pre­tende di sen­tire tutto in tutte le maniere deve cir­co­scri­vere il pro­prio desi­de­rio. Qui il con­flitto fra Io e mondo è dato secondo la più schietta for­mula roman­tica e va preso per quello che è, pen­sando al pudore e alla sete di vita di una ado­le­scenza che costrui­sce fan­ta­sie gigan­te­sche: «Il mondo era un incan­tato paese fan­ta­sma oltre il pro­filo neb­bioso dei monti, una terra piena di echi, di frut­teti sor­ve­gliati da qual­che genio, di mari color del vino, di città ina­bis­sate, fantastiche…»
La porta del mondo, la luce dell’esperienza, rimane sem­pre a un passo da Eugene, ma non pare mai aprirsi. E c’è poi il leit­mo­tiv del romanzo: la fame, «il bran­co­lare sel­vag­gio e igno­rante, l’inseguimento alla cieca, il desi­de­rio dispe­rato e sem­pre bef­fato»: l’avidità di divo­rare il mondo nei suoi infi­niti aspetti che non abban­dona mai Eugene e che ha la sua ragion d’essere nella pro­pria stessa insa­zia­bi­lità, nell’ebbrezza dei pos­si­bili. Di più, il con­flitto diventa una forza strut­tu­rante dello stile: O Lost esi­bi­sce in un primo momento una ten­sione descrit­tiva deci­sa­mente rea­li­stica, che si esplica anche in una sorta di estasi dei cata­lo­ghi (per esem­pio quello, denso ed ela­bo­rato, delle decine di pro­fumi e afrori che si aprono a Eugene bam­bino) ma poi alterna impen­nate sco­per­ta­mente liri­che, dove l’enfasi va a tam­po­nare un’incertezza fon­da­men­tale, un’insicurezza che era anche il tratto più umano di Wolfe.
Tutta que­sta ansia di nomi­na­zione, che a volte nau­fraga con­tro agget­tivi come «indi­ci­bile» e «ine­spri­mi­bile», è il rove­scio di un pro­fondo senso dell’ingovernabilità del reale. Quanto alla pre­senza di Joyce, non la si vede tanto nell’insoddisfazione per il lin­guag­gio o nell’instancabile piluc­care det­ta­gli da affol­lare intorno alla coscienza del pro­ta­go­ni­sta, quanto nei momenti in cui Eugene fa inte­rior­mente il punto senza però mai venire a capo del fluire dell’esperienza (e là si sente l’impronta ine­lu­di­bile del Por­trait, il romanzo di for­ma­zione joy­ciano). Tut­ta­via, che non sia Joyce ma Whit­man il vero faro di Wolfe lo si capi­sce da fram­menti come quello dedi­cato, a romanzo inol­trato, all’inno rivolto al Dio dei Viaggi, dove l’impeto a una aper­tura quasi esal­tata esi­bi­sce la sua carta d’identità, tra le più tra­spa­renti. E infatti, a pun­teg­giare il flusso di O Lost, soprat­tutto nelle chiuse dei capi­toli, tro­viamo stra­te­gie epi­che, apo­strofi, for­mule ricor­sive, refrain (comeO perduti!…Et ego in Arcadia…La foglia, il sasso, la porta mai tro­vata) gra­zie a cui Wolfe si con­nette a una tra­di­zione mil­le­na­ria e insieme si pro­pone come erede del bardo d’America. O Lost è infatti per­corso e elet­triz­zato dal senso della gran­dezza, già del tutto intrin­seca al sen­ti­mento di sé della fami­glia Gant, con­scia di essere com­po­sta da esseri supe­riori, «angeli per­duti»: un tita­ni­smo tutto ideale que­sto di Wolfe, che cerca la gran­dio­sità di Whit­man o di Lau­tréa­mont («Dov’è la tene­bra, figliolo, là è la luce»), e in cui le epo­che sto­ri­che si con­fon­dono: Tebe e Babi­lo­nia si sovrap­pon­gono e si inter­se­cano alle sfre­nate tele di Brue­gel e alle minia­ture del Graal.
Per Wolfe il romanzo è un’estensione della poe­sia che non rinun­cia a niente e acco­glie tutto: «Non dimen­ti­care, Scott, che un grande scrit­tore è uno che non sol­tanto esclude ma anche include», scrisse a Fitz­ge­rald in una cele­bre let­tera, oppo­nendo alla selet­ti­vità flau­ber­tiana il genio digres­sivo di Sterne. Fedele al pro­prio impulso ori­gi­na­rio, quello dell’abbandono lirico e della richie­sta emo­zio­nata dell’Io nei con­fronti di un mondo su cui gli sfugge la presa, Wolfe scrive al cospetto della sto­ria nella sua inte­rezza, della Bib­bia, di Sha­ke­speare e di Cer­van­tes, e dei miti atem­po­rali che tenta, pro­iet­tan­doli sullo schermo della pro­pria magni­lo­quenza, di insuf­flare nel cuore dell’America. Tita­nica dev’essere stata, per­ciò, anche la tra­du­zione – «un’impresa esal­tante e impe­gna­tiva» – hanno scritto Maria Baioc­chi e Anna Taglia­vini. Dav­vero tra­sci­nante que­sto impe­gno, e lo si vede nelle pie­ghe e nelle impen­nate di un ita­liano con­ge­niale anche alla visio­na­rietà più accesa, che è uno dei tratti spic­cati di Wolfe ma anche uno di quelli che hanno retto di meno al tra­scor­rere del tempo.
Secondo i cura­tori dell’edizione ame­ri­cana, O Lost è un’opera più riu­scita e più potente di Look Homeward, Angel, ed era per­fet­ta­mente pub­bli­ca­bile nella sua forma ori­gi­na­ria nel 1929. Max­well Per­kins, ten­tando di imbri­gliare le forze capric­ciose della scrit­tura di Wolfe, scor­ciò il romanzo di un quarto della lun­ghezza otte­nen­done 625 pagine a stampa: impose l’eliminazione del lungo pro­logo di cento pagine con la sto­ria dello spa­valdo ubria­cone Oli­ver Gant, padre di Eugene; e, ancora, tutta una serie di tagli minori che coin­vol­ge­vano parti sca­brose (come il coito di un ami­chetto di Eugene con una gal­lina) o cen­su­ra­vano osser­va­zioni cri­ti­che nei con­fronti del Sud degli Stati Uniti, degli sport cari agli ame­ri­cani e di deter­mi­nati ambienti sociali, con un occhio som­ma­mente attento ai gusti del let­tore dell’epoca.

Seb­bene non sia del tutto riu­scito il ten­ta­tivo di incar­nare nel mito il carat­tere ame­ri­cano di una «razza nomade», pro­iet­tata a capo­fitto nel futuro, il romanzo di Tho­mas Wolfe resta memo­ra­bile gra­zie alla sua resti­tu­zione dell’intenso reso­conto lirico di una for­ma­zione gene­ra­zio­nale nella pro­vin­cia ame­ri­cana. Siamo sem­pre stra­nieri e sem­pre soli – sem­bra dire O Lost – quanto più ci illu­diamo di abbrac­ciare il mondo nel corpo e nella coscienza. Dopo aver divo­rato la vita e non averne avuto nulla, Eugene si pre­para a par­tire. L’allontanamento dal padre morente coin­cide per lui con la con­ferma della voca­zione alla scrit­tura, dibat­tuta in un incon­tro con lo spet­tro del fra­tello Ben («Tu sei il tuo mondo»). E pro­se­gue trac­ciando linee di fuga verso l’invenzione di un popolo a venire, men­tre l’Io si rico­no­sce negli altri: «la folta per­duta legione di se stesso – le mille forme che arri­va­vano, pas­sa­vano, si alter­na­vano e ondeg­gia­vano in un infi­nito cam­bia­mento, e che resta­vano immu­ta­bil­mente Sé».

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