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lunedì 30 marzo 2015
Vite in cambio di Santino Gallorini
Er tempo perduto, by plz
ER TEMPO PERDUTO by plz
Santa Marinella. Interno giorno in un ristorantino all' aperto in una piazzetta inondata di caldo sole.
Brano di conversazione da uno dei tanti tavoli.
-Meno male che oggi c'è sta er sole, ma fino all' artro giorno...
-E già. Non c'è stai a capì niente, er tempo nuné più quella d'una vorta
-E già, dichi bau bau micio micio. T' aricordi vene? Er pomeriggio di venerdì passato? Oh vene... l'artro ieri
-M'aricordo, m'aricordo...
-Peresempio a Roma pioggia, pioggia, pioggia, ma sai che vordì pioggia? A Ladispoli, sempre vene, sole, sole, sole, ma sai che vordì sole?Oh gnente, da nun crederci. Sole, sole, sole. Sai che vordì sole?
-Er tempo nuné più quello d'una vorta
-C'è stanno poche certezze, ormai. E meno male che la cucina de Ninetto nun cambia mai.
-Già. Aoh, magnamo sti gnocchi allo scoglio che ce passa la malinconia der tempo perduto comebbe a dì Prost, che porello nun core più
Santa Marinella. Interno giorno in un ristorantino all' aperto in una piazzetta inondata di caldo sole.
Brano di conversazione da uno dei tanti tavoli.
-Meno male che oggi c'è sta er sole, ma fino all' artro giorno...
-E già. Non c'è stai a capì niente, er tempo nuné più quella d'una vorta
-E già, dichi bau bau micio micio. T' aricordi vene? Er pomeriggio di venerdì passato? Oh vene... l'artro ieri
-M'aricordo, m'aricordo...
-Peresempio a Roma pioggia, pioggia, pioggia, ma sai che vordì pioggia? A Ladispoli, sempre vene, sole, sole, sole, ma sai che vordì sole?Oh gnente, da nun crederci. Sole, sole, sole. Sai che vordì sole?
-Er tempo nuné più quello d'una vorta
-C'è stanno poche certezze, ormai. E meno male che la cucina de Ninetto nun cambia mai.
-Già. Aoh, magnamo sti gnocchi allo scoglio che ce passa la malinconia der tempo perduto comebbe a dì Prost, che porello nun core più
venerdì 27 marzo 2015
Pitigliano in Musica Festival Internazionale 2015 Luigi Boccherini STABAT MATER
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L’erba cattiva /2
L’erba cattiva /2
27/03/2015 di triskel182
Che cosa sono, sette minuti di intervallo in meno, in una fabbrica tessile che è appena passata di proprietà e mentre tante altre aziende concorrenti chiudono, licenziano, diminuiscono i salari?
Niente, non sono niente. Infatti quando la sessantenne delegata sindacale Blanche torna con questa notizia dalla trattativa, sembra scontato che tutte le lavoratrici approvino, piene di sollievo. Temevano peggio, molto peggio.
Ma perché, perché bisogna regalare – tutte insieme – seicento ore di lavoro al padrone? E soprattutto: la resa di fronte a questa richiesta non aprirà la strada poi a molte altre, fino alla riduzione dei salari o dei turni, o addirittura fino ai liberi licenziamenti? Così, a fronte dell’entusiasmo delle colleghe per non aver perso il lavoro, Blanche si chiede: «E se il lavoro lo perdessimo proprio per aver votato sì?» .
Ecco, dice Blanche: «Forse ci chiedono sette minuti per vedere come reagiamo. Ci mettono alla prova. Per ottenere di più, sempre di più. Lo fanno in modo furbo: se cercassero tutto subito non l’otterrebbero, ci sarebbe uno scontro. Hanno scelto un’altra via: i sette minuti». Uno scenario teorico, certo; solo teorico. A cui quindi di slancio reagisce con rabbia una collega, giovane e immigrata dall’est Europa: «Fesserie. Dovremmo ringraziarli, altro che rifiutare. Io voto sì, e subito». E un’altra, diretta a Blanche: «Ma tu per un’idea vuoi mettere in discussione il lavoro, che è una cosa concreta?».
Si intitola appunto “7 minuti – consiglio di fabbrica“, il libro di Stefano Massini da poco uscito per Einaudi con i testi di una pièce teatrale che è stata messa in scena, poco prima della morte, anche da Luca Ronconi.
E c’è tutto il lavoro dipendente contemporaneo, nel dramma di quei sette minuti: l’azienda che vuole conquistare un territorio in più nei confronti dei lavoratori, la paura della crisi e della disoccupazione, l’erba cattiva che si mangia quella buona fino a diventare l’unica esistente, quindi facendoci credere che sia ottima, da mangiare.
E poi, la frantumazione e parcellizzazione delle condizioni e quindi delle visioni anche tra chi fa lo stesso lavoro (altro che blocco sociale!) perché ogni lavoratrice ha il suo passato, i suoi impegni, la sua etnia, le sue diverse prospettive e speranze, quindi nulla è più facile che dividerle tra loro. E contano molto anche le differenze generazionali (quindi culturali) tra chi ritiene il lavoro un diritto e chi invece una grazia ricevuta, una fortuna, un privilegio. Differenze tali, tra le operaie, da far saltare rapidamente i già deboli rapporti di solidarietà e fiducia, nella discussione sui “sette minuti”, e a far divampare i più assurdi sospetti.
Il libro di Massini riprende un fatto realmente accaduto in una fabbrica francese nel 2012; il testo è quindi ambientato in Francia, ma potrebbe essere ovunque, in Europa e non solo. Si legge in meno di un’ora. Mette addosso un senso di rabbia, ma anche di amore. E lascia – nella chiusa – un grande vuoto, fatto di paura e di incertezza: «Dunque?». Buio.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
KRAMER CONTRO KRAMER Dialogo fratricida su memoria e passato Valerio e Flavio fusi discutono sul libro Campi di fragole per sempre di Flavio Fusi
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giovedì 26 marzo 2015
Oggi scrivo in un'altra lingua
da l' Espresso Sei in:
FENOMENI
Jhumpa Lahiri A dar voce a chi scrive in italiano è Jhumpa Lahiri . Gli autori anglofoni invece sono rappresentati da Francesca Marciano . È uno degli incontri di chiusura del festival Libri Come, in programma domenica 15 marzo al Parco della Musica di Roma. Il tema è “Come ho scelto una nuova lingua”.
Sul palco si confrontano una scrittrice americana di origine bengalese che, dopo essere arrivata fino al Pulitzer per i suoi primi romanzi, ha deciso di abbandonare l’inglese in favore dell’italiano (un’avventura raccontata nel volume “In altre parole”, Guanda), e una regista e sceneggiatrice romana che, dopo molti anni vissuti in giro per il mondo, ha scelto di scrivere in inglese i suoi romanzi e racconti: il libro più recente si intitola proprio “ The other language ”.
L’incontro di Libri Come accende i riflettori su un fenomeno sempre più frequente nell’editoria. Dove ormai abbondano i romanzieri che hanno scelto di non usare la lingua madre per la loro carriera. Per chi è cresciuto credendo nella frase di Italo Calvino («Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno»), l’idea che la lingua per uno scrittore sia una scelta e non un destino è uno choc. Parlare molte lingue è importante, saperle usare anche per iscritto è necessario, ma davvero è possibile esprimere se stessi, avere uno stile usando parole che non si padroneggiano da sempre?
Eppure quello che ieri era un’eccezione (dall’inglese travolgente del polacco Joseph Conrad allo stile legnoso di Italo Svevo che, ci hanno insegnato a scuola, in tedesco avrebbe scritto più fluidamente, ma ha deciso di essere italiano nello pseudonimo e nella lingua), oggi è una scelta piuttosto comune.
C’è chi cambia lingua per staccarsi da radici ingombranti: Linn Ullmann , figlia di Liv, l’indimenticabile attrice norvegese, e del regista svedese Ingmar Bergman, scrive in inglese. Chi lo fa per motivi politici: Kader Abdolah , scrittore di lingua olandese che andando in esilio si è lasciato l’Iran alle spalle non solo rinunciando a scrivere in farsi ma costruendosi uno pseudonimo con i cognomi di due martiri della resistenza agli ayatollah. Chi lo fa per scelta culturale: Jonathan Littell , americano laureato a Yale, pensava già di vedere tra gli amatissimi libri Gallimard il suo monumentale “Le benevole”, scritto in francese, grazie al quale ha vinto il Goncourt e ha ottenuto la sospirata nazionalità del paese dove ha trascorso l’infanzia.
INGLESE DALLE UOVA D'ORO
Certo, per chi ha la possibilità di pubblicare in inglese, cambiare lingua è una scelta coraggiosa. Perché significa rinunciare a un mercato enorme e per di più refrattario ai libri pubblicati in traduzione. I bosniaci Aleksandar Hemon ( “Il progetto Lazarus” e “Il libro delle mie vite”, Einaudi) e Prcic Ismet ( “Schegge” , Bompiani), lodatissimi dai critici americani, avrebbero avuto la stessa eco sui media locali se i loro libri fossero stati pubblicati in traduzione?
Impossibile, e per capirlo basta guardare i candidati al Book Prize del “Los Angeles Times”, un premio che nasce con l’intento di prendere in considerazione tutti i libri, non solo quelli scritti in inglese. Nella lista annunciata nei giorni scorsi non c’è nemmeno un romanzo tradotto: ma ci sono due lodatissime autrici straniere, la messicana Valeria Luiselli e la nigeriana Helen Oyeyemi .
Gli Stati Uniti sono però particolarmente accoglienti con gli scrittori che arrivano dall’estero: i giovani stranieri promettenti ricevono borse di studio che nessuna istituzione italiana dedica ai loro omologhi. Si spiega così che cinque anni fa nella lista dei venti migliori giovani autori americani scelti dal “New Yorker” quasi metà fossero nati e cresciuti in un altro paese: Perù, Lettonia, Cina, Etiopia, Russia. Serbia...
STORIE METICCE
In alcuni casi la lingua è una scelta perché la cultura di origine è poliglotta. È sempre stato il caso degli scrittori ebrei: per fare un solo esempio, i fratelli Singer, Israel Joshua e Isaac Bashevis, polacchi fuggiti a New York sotto il nazismo, non hanno mai abbandonato l’yiddish.
Oggi è la regola soprattutto per gli autori del mondo arabo. Prendiamo l’ultimo romanzo di Rabih Alameddine appena tradotto da Bompiani, “Io, la divina” : inizia con una ragazzina libanese che, spostata dai genitori dalla scuola francese a quella inglese («Mio padre decise che, anziché il francese, doveva essere l’inglese la mia prima lingua»), reagisce con una serie di insulti in dialetto libanese alle provocazioni di un compagno di classe.
Se Alameddine, nato in Giordania da genitori libanesi e cresciuto tra Irak, Libano e Gran Bretagna, ha scelto di scrivere in inglese, è comprensibile che si mantenga fedele all’arabo un personaggio come Mohammed Al Achaari , che in Marocco è stato anche ministro della Cultura (“ L’arco e la farfalla ”, Fazi). Mentre sarebbe una doppia provocazione se Amina Sboui , blogger che ha scandalizzato la Tunisia postando una foto in topless, avesse scritto in arabo e non in francese il suo “Il mio corpo mi appartiene” (Giunti).
Del resto la narrativa francese è molto arricchita dagli autori provenienti dalla “Françafrique”. L’uso della lingua degli ex colonizzatori europei però è un problema scottante, al centro di un acceso dibattito che va dal Congo all’estremo oriente (vediintervista ad Alain Mabanckou ).
E in Italia? Non c’è solo Jhumpa Lahiri, con il suo rifiuto viscerale dell’inglese e soprattutto del circo mediatico mondiale che usare questa lingua comporta. Ma gli scrittori che scelgono l’italiano lo fanno per ragioni pratiche, non ideologiche: il comparatista Armando Gnisci li studia dagli anni Novanta, e sono fotografati nel recente rapporto sui “ Nuovi scenari socio-linguistici in Italia ” (Centro Studi e Ricerche Idos e Synergasìa Onlus).
Arrivano qui per lavoro, come Hu Lanbo , giornalista e imprenditrice, autrice di un romanzo autobiografico (“Petali d’orchidea”, Barbera), e spesso il nostro paese è solo una tappa del loro viaggio in cerca di fortuna. È successo all’albanese Ron Kubati , unico romanziere non “italiano doc” preso in considerazione dal premio Strega (“ Il buio del mare ”, Giunti), oggi italianista all’università di Chicago.
E alla sua conterranea Ornela Vorpsi , che dopo aver scritto libri molto lodati dalla critica e tradotti in sedici lingue (“Fuorimondo”, “Il paese dove non si muore mai”, Einaudi) si è trasferita a Parigi dove ha esordito l’anno scorso in francese per Gallimard (“ Tu convoiteras ”).
Le storie “meticce” di questi scrittori italiani per scelta attirano l’attenzione anche fuori dal nostro paese: non a caso l’unico film tricolore in concorso al festival di Berlino, “ Vergine giurata ”, era tratto dal romanzo di un’albanese “scoperta” da Feltrinelli, Elvira Dones .
Premi e festival nostrani invece li trascurano. Per fare un solo nome, non si trova nei palmarès di Strega o Campiello neanche un’autrice affermata come la ex-tedesca Helga Schneider : da cinquant’anni a Bologna, quattordici libri tra i quali “Il rogo di Berlino” e “Lasciami andare, madre” (usciti da Adelphi , mentre Pendragon ha appena ristampato una nuova versione del suo esordio, il noir “ La bambola decapitata ”).
Ma spesso ci pensano le classifiche a premiarli. È il caso diAmara Lakhous , algerino, che ha firmato diversi bestseller a partire da “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” (edizioni e/o). O di Nicolai Lilin (“Educazione siberiana”, Einaudi), che le nostre cronache si ostinano a definire “scrittore russo” anche se nella lingua natìa non ha mai pubblicato nulla neanche in traduzione.
Per arrivare al recentissimo Antonio Dikele Distefano , il “nuovo Moccia” che dopo aver lanciato sui social il suo “Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?” è stato pubblicato daMondadori : la copertina lo definisce «angolano di 22 anni nato a Busto Arsizio e cresciuto a Ravenna».
PARIGI VAL BENE UN ACCENTO
È una novità, però, che anche gli italiani sempre più spesso cambino lingua. Quelli che scelgono di tentare la fortuna puntando direttamente ai mercati esteri aumentano. ComeSimonetta Greggio , ormai affermata in Francia, o Gilda Piersanti , giallista di Tivoli trapiantata a Parigi e da poco tradotta in italiano (“Estate assassina”, Bompiani) o Daniela Sacerdoti , pronipote di Carlo Levi che ha sposato uno scozzese, scrive in inglese e con un suo romanzo è stata per 18 mesi tra i primi cento libri più venduti da Amazon (Newton Compton ha appena tradotto “ Se stiamo insieme ci sarà un perché ”).
E allora viene in mente un consiglio da dare ai nostri aspiranti scrittori: più che studiare scrittura creativa, forse vale la pena di studiare bene l’inglese, o magari il norvegese, approfittando dei corsi organizzati dalle edizioni Iperborea. Perché laNorvegia agli autori che si esprimono in quella lingua assediata dall’inglese e dallo svedese promette l’acquisto di una copia per ognuna delle mille biblioteche circolanti, e per qualche anno persino uno stipendio.
FENOMENI
Oggi scrivo in un'altra lingua
Italiano per Jhumpa Lahiri. Francese per Gilda Piersanti. E il nuovo Moccia è angolano. Ecco perché per gli autori sempre più spesso l'idioma è una scelta e non un destino
DI ANGIOLA CODACCI-PISANELLI
Sul palco si confrontano una scrittrice americana di origine bengalese che, dopo essere arrivata fino al Pulitzer per i suoi primi romanzi, ha deciso di abbandonare l’inglese in favore dell’italiano (un’avventura raccontata nel volume “In altre parole”, Guanda), e una regista e sceneggiatrice romana che, dopo molti anni vissuti in giro per il mondo, ha scelto di scrivere in inglese i suoi romanzi e racconti: il libro più recente si intitola proprio “ The other language ”.
L’incontro di Libri Come accende i riflettori su un fenomeno sempre più frequente nell’editoria. Dove ormai abbondano i romanzieri che hanno scelto di non usare la lingua madre per la loro carriera. Per chi è cresciuto credendo nella frase di Italo Calvino («Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno»), l’idea che la lingua per uno scrittore sia una scelta e non un destino è uno choc. Parlare molte lingue è importante, saperle usare anche per iscritto è necessario, ma davvero è possibile esprimere se stessi, avere uno stile usando parole che non si padroneggiano da sempre?
Eppure quello che ieri era un’eccezione (dall’inglese travolgente del polacco Joseph Conrad allo stile legnoso di Italo Svevo che, ci hanno insegnato a scuola, in tedesco avrebbe scritto più fluidamente, ma ha deciso di essere italiano nello pseudonimo e nella lingua), oggi è una scelta piuttosto comune.
C’è chi cambia lingua per staccarsi da radici ingombranti: Linn Ullmann , figlia di Liv, l’indimenticabile attrice norvegese, e del regista svedese Ingmar Bergman, scrive in inglese. Chi lo fa per motivi politici: Kader Abdolah , scrittore di lingua olandese che andando in esilio si è lasciato l’Iran alle spalle non solo rinunciando a scrivere in farsi ma costruendosi uno pseudonimo con i cognomi di due martiri della resistenza agli ayatollah. Chi lo fa per scelta culturale: Jonathan Littell , americano laureato a Yale, pensava già di vedere tra gli amatissimi libri Gallimard il suo monumentale “Le benevole”, scritto in francese, grazie al quale ha vinto il Goncourt e ha ottenuto la sospirata nazionalità del paese dove ha trascorso l’infanzia.
INGLESE DALLE UOVA D'ORO
Certo, per chi ha la possibilità di pubblicare in inglese, cambiare lingua è una scelta coraggiosa. Perché significa rinunciare a un mercato enorme e per di più refrattario ai libri pubblicati in traduzione. I bosniaci Aleksandar Hemon ( “Il progetto Lazarus” e “Il libro delle mie vite”, Einaudi) e Prcic Ismet ( “Schegge” , Bompiani), lodatissimi dai critici americani, avrebbero avuto la stessa eco sui media locali se i loro libri fossero stati pubblicati in traduzione?
Impossibile, e per capirlo basta guardare i candidati al Book Prize del “Los Angeles Times”, un premio che nasce con l’intento di prendere in considerazione tutti i libri, non solo quelli scritti in inglese. Nella lista annunciata nei giorni scorsi non c’è nemmeno un romanzo tradotto: ma ci sono due lodatissime autrici straniere, la messicana Valeria Luiselli e la nigeriana Helen Oyeyemi .
Gli Stati Uniti sono però particolarmente accoglienti con gli scrittori che arrivano dall’estero: i giovani stranieri promettenti ricevono borse di studio che nessuna istituzione italiana dedica ai loro omologhi. Si spiega così che cinque anni fa nella lista dei venti migliori giovani autori americani scelti dal “New Yorker” quasi metà fossero nati e cresciuti in un altro paese: Perù, Lettonia, Cina, Etiopia, Russia. Serbia...
STORIE METICCE
In alcuni casi la lingua è una scelta perché la cultura di origine è poliglotta. È sempre stato il caso degli scrittori ebrei: per fare un solo esempio, i fratelli Singer, Israel Joshua e Isaac Bashevis, polacchi fuggiti a New York sotto il nazismo, non hanno mai abbandonato l’yiddish.
Oggi è la regola soprattutto per gli autori del mondo arabo. Prendiamo l’ultimo romanzo di Rabih Alameddine appena tradotto da Bompiani, “Io, la divina” : inizia con una ragazzina libanese che, spostata dai genitori dalla scuola francese a quella inglese («Mio padre decise che, anziché il francese, doveva essere l’inglese la mia prima lingua»), reagisce con una serie di insulti in dialetto libanese alle provocazioni di un compagno di classe.
Se Alameddine, nato in Giordania da genitori libanesi e cresciuto tra Irak, Libano e Gran Bretagna, ha scelto di scrivere in inglese, è comprensibile che si mantenga fedele all’arabo un personaggio come Mohammed Al Achaari , che in Marocco è stato anche ministro della Cultura (“ L’arco e la farfalla ”, Fazi). Mentre sarebbe una doppia provocazione se Amina Sboui , blogger che ha scandalizzato la Tunisia postando una foto in topless, avesse scritto in arabo e non in francese il suo “Il mio corpo mi appartiene” (Giunti).
Del resto la narrativa francese è molto arricchita dagli autori provenienti dalla “Françafrique”. L’uso della lingua degli ex colonizzatori europei però è un problema scottante, al centro di un acceso dibattito che va dal Congo all’estremo oriente (vediintervista ad Alain Mabanckou ).
E in Italia? Non c’è solo Jhumpa Lahiri, con il suo rifiuto viscerale dell’inglese e soprattutto del circo mediatico mondiale che usare questa lingua comporta. Ma gli scrittori che scelgono l’italiano lo fanno per ragioni pratiche, non ideologiche: il comparatista Armando Gnisci li studia dagli anni Novanta, e sono fotografati nel recente rapporto sui “ Nuovi scenari socio-linguistici in Italia ” (Centro Studi e Ricerche Idos e Synergasìa Onlus).
Arrivano qui per lavoro, come Hu Lanbo , giornalista e imprenditrice, autrice di un romanzo autobiografico (“Petali d’orchidea”, Barbera), e spesso il nostro paese è solo una tappa del loro viaggio in cerca di fortuna. È successo all’albanese Ron Kubati , unico romanziere non “italiano doc” preso in considerazione dal premio Strega (“ Il buio del mare ”, Giunti), oggi italianista all’università di Chicago.
E alla sua conterranea Ornela Vorpsi , che dopo aver scritto libri molto lodati dalla critica e tradotti in sedici lingue (“Fuorimondo”, “Il paese dove non si muore mai”, Einaudi) si è trasferita a Parigi dove ha esordito l’anno scorso in francese per Gallimard (“ Tu convoiteras ”).
Le storie “meticce” di questi scrittori italiani per scelta attirano l’attenzione anche fuori dal nostro paese: non a caso l’unico film tricolore in concorso al festival di Berlino, “ Vergine giurata ”, era tratto dal romanzo di un’albanese “scoperta” da Feltrinelli, Elvira Dones .
Premi e festival nostrani invece li trascurano. Per fare un solo nome, non si trova nei palmarès di Strega o Campiello neanche un’autrice affermata come la ex-tedesca Helga Schneider : da cinquant’anni a Bologna, quattordici libri tra i quali “Il rogo di Berlino” e “Lasciami andare, madre” (usciti da Adelphi , mentre Pendragon ha appena ristampato una nuova versione del suo esordio, il noir “ La bambola decapitata ”).
Ma spesso ci pensano le classifiche a premiarli. È il caso diAmara Lakhous , algerino, che ha firmato diversi bestseller a partire da “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” (edizioni e/o). O di Nicolai Lilin (“Educazione siberiana”, Einaudi), che le nostre cronache si ostinano a definire “scrittore russo” anche se nella lingua natìa non ha mai pubblicato nulla neanche in traduzione.
Per arrivare al recentissimo Antonio Dikele Distefano , il “nuovo Moccia” che dopo aver lanciato sui social il suo “Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?” è stato pubblicato daMondadori : la copertina lo definisce «angolano di 22 anni nato a Busto Arsizio e cresciuto a Ravenna».
PARIGI VAL BENE UN ACCENTO
È una novità, però, che anche gli italiani sempre più spesso cambino lingua. Quelli che scelgono di tentare la fortuna puntando direttamente ai mercati esteri aumentano. ComeSimonetta Greggio , ormai affermata in Francia, o Gilda Piersanti , giallista di Tivoli trapiantata a Parigi e da poco tradotta in italiano (“Estate assassina”, Bompiani) o Daniela Sacerdoti , pronipote di Carlo Levi che ha sposato uno scozzese, scrive in inglese e con un suo romanzo è stata per 18 mesi tra i primi cento libri più venduti da Amazon (Newton Compton ha appena tradotto “ Se stiamo insieme ci sarà un perché ”).
E allora viene in mente un consiglio da dare ai nostri aspiranti scrittori: più che studiare scrittura creativa, forse vale la pena di studiare bene l’inglese, o magari il norvegese, approfittando dei corsi organizzati dalle edizioni Iperborea. Perché laNorvegia agli autori che si esprimono in quella lingua assediata dall’inglese e dallo svedese promette l’acquisto di una copia per ognuna delle mille biblioteche circolanti, e per qualche anno persino uno stipendio.
mercoledì 25 marzo 2015
Creuza de Mà: la musica di Paolo Fresu e il cinema
Creuza de Mà: la musica di Paolo Fresu e il cinema
venerdì a Carloforte, sabato e domenica mattina a Cagliari
con la prima italiana del documentario "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…" di Fabrizio Ferraro,
il film di Ferdinando Vicentini Orgnani "Vinodentro"
e "Torneranno i prati" di Ermanno Olmi.
A seguire le proiezioni a Cagliari l'incontro con i registi Ferraro e Vicentini Orgnani,
e con i musicisti Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura.
*
venerdì a Carloforte, sabato e domenica mattina a Cagliari
con la prima italiana del documentario "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…" di Fabrizio Ferraro,
il film di Ferdinando Vicentini Orgnani "Vinodentro"
e "Torneranno i prati" di Ermanno Olmi.
A seguire le proiezioni a Cagliari l'incontro con i registi Ferraro e Vicentini Orgnani,
e con i musicisti Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura.
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Fine settimana con Creuza de Mà, il festival all'insegna della musica per film ideato e diretto dal regista Gianfranco Cabiddu: venerdì (27 marzo) a Carloforte e sabato e domenica mattina a Cagliari va in scena un weekend di proiezioni e ragionamenti intorno alla musica applicata al cinema con un focus su Paolo Fresu e i più recenti impegni del jazzista sardo per il grande schermo. Creuza de Mà suggella così, con questa appendice dal sapore primaverile, la sua programmazione per il 2014: un anno complicato per la manifestazione organizzata dall'associazione Backstage, alle prese con difficoltà di bilancio legate a ritardi della burocrazia.
Per la prima volta il festival ha dovuto rinunciare alla sua abituale collocazione estiva a Carloforte, dove per sette edizioni (la prima è datata settembre 2007) ha dato appuntamento a musicisti, gente del cinema e studiosi per riflettere e confrontarsi sul tema della musica nel e per il cinema attraverso concerti, proiezioni, incontri, conferenze. Al posto della consueta quattro giorni nel paese sull'isola di San Pietro (davanti alla costa sudoccidentale sarda), l'ottava volta di Creuza de Mà passerà dunque agli annali come un'edizione in tre parti, prevalentemente con base a Cagliari, aperta dodici mesi fa dall'incontro e il concerto per pianoforte solo del grande Michael Nyman, proseguita a fine novembre con la serie di appuntamenti ospitati e prodotti all'interno della rassegna Pazza Idea, e giunta ora ai suoi titoli di coda con gli appuntamenti di questo fine settimana nel segno di Paolo Fresu.
Si comincia venerdì pomeriggio (27 marzo) a Carloforte con due film in visione a partire dalle 18, al Cinema Mutua.Introdotta dal direttore artistico Gianfranco Cabiddu, e da una clip che condensa la storia di Creuza de Mà in pochi minuti di immagini, sulle note dell'omonima canzone di Fabrizio De André, l'apertura è un'autentica chicca: si tratta infatti della prima italiana di "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…", recentissimo documentario di Fabrizio Ferraro che racconta il rendez-vous artistico del jazzista di Berchidda e del bandoneonista Daniele di Bonaventura conManfred Eicher, il creatore della prestigiosa etichetta discografica ECM, per la realizzazione dell'album "In Maggiore". Un progetto che si è sviluppato nell'arco di tre anni durante i quali Ferraro ha filmato i musicisti nei loro luoghi di origine, nell'intimità delle loro case, nei loro viaggi e concerti, quando le idee musicali cominciano a prendere forma, e infine nell'Auditorium della RSI a Lugano, dove si sono svolte le registrazioni.
Recente (è uscito nelle sale lo scorso settembre) è anche il secondo film della serata (alle 20, sempre al Cinema Mutua), "Vinodentro", di cui Paolo Fresu firma le musiche. Diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani e liberamente ispirato al romanzo "Vino dentro" di Fabio Marcotto, racconta la storia, tra noir e commedia, di Giovanni Cuttin, timido impiegato di banca e marito fedele che nel giro di pochi anni, dopo aver degustato un "Marzemino", un vino tipico del Trentino, diventa direttore, tombeur de femmes e il più riverito e stimato esperto di vini in Italia. Nel cast Vincenzo Amato, Giovanna Mezzogiorno, Pietro Sermonti, Lambert Wilson e Daniela Virgilio.
I due film sono proposti anche nell'appuntamento in programma l'indomani (sabato 28) a Cagliari, al MiniMax, il ridotto del Teatro Massimo (ingresso gratuito). Con un'importante differenza, però: le proiezioni di "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…" (ore 17) e "Vinodentro" (ore 19,30) saranno infatti seguite dagli incontri con i rispettivi registi, Fabrizio Ferraro e Ferdinando Vicentini Orgnani, e con Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura. A coordinare i dibattiti il musicologo e musicista Riccardo Giagni, conduttore "storico" (insieme allo studioso di musica per il cinema Luca Bandirali) degli incontri con gli ospiti e dei momenti di approfondimento di Creuza de Mà. Per "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…" in programma anche una replica serale, con inizio alle 21,30, sempre al MiniMax e con ingresso gratuito.
Domenica mattina, per il suo ultimo impegno in agenda, la rassegna si trasferisce al Cinema Odissea. Qui, alle 10,30, saranno ancora Riccardo Giagni e Paolo Fresu insieme a Gianfranco Cabiddu a introdurre la proiezione del terzo titolo in cartellone, "Torneranno i prati". Ambientato nelle trincee sull'altopiano di Asiago verso la fine della prima guerra mondiale, il film diretto da Ermanno Olmi, nelle sale dallo scorso novembre, rievoca la paura, il freddo, la stanchezza e gli ordini insensati con cui i soldati dovettero confrontarsi nel conflitto che sconvolse l'Europa cento anni fa, e che le note del "Silenzio" nel tema finale composto e suonato alla tromba da Paolo Fresu, contribuiscono a commemorare.
"Siamo orgogliosi di chiudere con questa appendice primaverile 2015 l'anno 2014 di Creuza de Mà, cioè l'ottava edizione del nostro appuntamento con la Musica applicata al Cinema", dichiara il direttore artistico Gianfranco Cabiddu. " È stato un lungo e non facile anno il 2014, che ci ha visto 'resistere' comunque, profondamente fiduciosi nelle nostre uniche armi che sono la serietà e la qualità della proposta. Navighiamo quindi con convinta energia, nonostante le grandi difficoltà di bilancio legate alla burocrazia, perché siamo fiduciosi nell'attenzione alla qualità da parte delle istituzioni regionali, e motivati dal proporre e realizzare un progetto culturale che trova in questi luoghi grande fermento e importanti spazi di riflessione. Progetto su quale abbiamo investito grandi energie e che, a partire dalla meravigliosa isola di Carloforte, alla quale rimane sempre legato, ci ha portati a esplorare e percorrere in tutti questi anni un aspetto del cinema molto particolare, portando nell'isola grandi esperti e compositori di musica per cinema italiani e internazionali".
Creuza de Mà si avvale del contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dell'Assessorato della PubblicaIstruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport e dell'Assessorato del Turismo della Regione Autonomadella Sardegna, del Comune di Cagliari e della Fondazione Banco di Sardegna.
Per approfondimenti e aggiornamenti:
Per la prima volta il festival ha dovuto rinunciare alla sua abituale collocazione estiva a Carloforte, dove per sette edizioni (la prima è datata settembre 2007) ha dato appuntamento a musicisti, gente del cinema e studiosi per riflettere e confrontarsi sul tema della musica nel e per il cinema attraverso concerti, proiezioni, incontri, conferenze. Al posto della consueta quattro giorni nel paese sull'isola di San Pietro (davanti alla costa sudoccidentale sarda), l'ottava volta di Creuza de Mà passerà dunque agli annali come un'edizione in tre parti, prevalentemente con base a Cagliari, aperta dodici mesi fa dall'incontro e il concerto per pianoforte solo del grande Michael Nyman, proseguita a fine novembre con la serie di appuntamenti ospitati e prodotti all'interno della rassegna Pazza Idea, e giunta ora ai suoi titoli di coda con gli appuntamenti di questo fine settimana nel segno di Paolo Fresu.
Si comincia venerdì pomeriggio (27 marzo) a Carloforte con due film in visione a partire dalle 18, al Cinema Mutua.Introdotta dal direttore artistico Gianfranco Cabiddu, e da una clip che condensa la storia di Creuza de Mà in pochi minuti di immagini, sulle note dell'omonima canzone di Fabrizio De André, l'apertura è un'autentica chicca: si tratta infatti della prima italiana di "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…", recentissimo documentario di Fabrizio Ferraro che racconta il rendez-vous artistico del jazzista di Berchidda e del bandoneonista Daniele di Bonaventura conManfred Eicher, il creatore della prestigiosa etichetta discografica ECM, per la realizzazione dell'album "In Maggiore". Un progetto che si è sviluppato nell'arco di tre anni durante i quali Ferraro ha filmato i musicisti nei loro luoghi di origine, nell'intimità delle loro case, nei loro viaggi e concerti, quando le idee musicali cominciano a prendere forma, e infine nell'Auditorium della RSI a Lugano, dove si sono svolte le registrazioni.
Recente (è uscito nelle sale lo scorso settembre) è anche il secondo film della serata (alle 20, sempre al Cinema Mutua), "Vinodentro", di cui Paolo Fresu firma le musiche. Diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani e liberamente ispirato al romanzo "Vino dentro" di Fabio Marcotto, racconta la storia, tra noir e commedia, di Giovanni Cuttin, timido impiegato di banca e marito fedele che nel giro di pochi anni, dopo aver degustato un "Marzemino", un vino tipico del Trentino, diventa direttore, tombeur de femmes e il più riverito e stimato esperto di vini in Italia. Nel cast Vincenzo Amato, Giovanna Mezzogiorno, Pietro Sermonti, Lambert Wilson e Daniela Virgilio.
I due film sono proposti anche nell'appuntamento in programma l'indomani (sabato 28) a Cagliari, al MiniMax, il ridotto del Teatro Massimo (ingresso gratuito). Con un'importante differenza, però: le proiezioni di "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…" (ore 17) e "Vinodentro" (ore 19,30) saranno infatti seguite dagli incontri con i rispettivi registi, Fabrizio Ferraro e Ferdinando Vicentini Orgnani, e con Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura. A coordinare i dibattiti il musicologo e musicista Riccardo Giagni, conduttore "storico" (insieme allo studioso di musica per il cinema Luca Bandirali) degli incontri con gli ospiti e dei momenti di approfondimento di Creuza de Mà. Per "Wenn aus dem himmel... Quando dal cielo…" in programma anche una replica serale, con inizio alle 21,30, sempre al MiniMax e con ingresso gratuito.
Domenica mattina, per il suo ultimo impegno in agenda, la rassegna si trasferisce al Cinema Odissea. Qui, alle 10,30, saranno ancora Riccardo Giagni e Paolo Fresu insieme a Gianfranco Cabiddu a introdurre la proiezione del terzo titolo in cartellone, "Torneranno i prati". Ambientato nelle trincee sull'altopiano di Asiago verso la fine della prima guerra mondiale, il film diretto da Ermanno Olmi, nelle sale dallo scorso novembre, rievoca la paura, il freddo, la stanchezza e gli ordini insensati con cui i soldati dovettero confrontarsi nel conflitto che sconvolse l'Europa cento anni fa, e che le note del "Silenzio" nel tema finale composto e suonato alla tromba da Paolo Fresu, contribuiscono a commemorare.
"Siamo orgogliosi di chiudere con questa appendice primaverile 2015 l'anno 2014 di Creuza de Mà, cioè l'ottava edizione del nostro appuntamento con la Musica applicata al Cinema", dichiara il direttore artistico Gianfranco Cabiddu. " È stato un lungo e non facile anno il 2014, che ci ha visto 'resistere' comunque, profondamente fiduciosi nelle nostre uniche armi che sono la serietà e la qualità della proposta. Navighiamo quindi con convinta energia, nonostante le grandi difficoltà di bilancio legate alla burocrazia, perché siamo fiduciosi nell'attenzione alla qualità da parte delle istituzioni regionali, e motivati dal proporre e realizzare un progetto culturale che trova in questi luoghi grande fermento e importanti spazi di riflessione. Progetto su quale abbiamo investito grandi energie e che, a partire dalla meravigliosa isola di Carloforte, alla quale rimane sempre legato, ci ha portati a esplorare e percorrere in tutti questi anni un aspetto del cinema molto particolare, portando nell'isola grandi esperti e compositori di musica per cinema italiani e internazionali".
Creuza de Mà si avvale del contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dell'Assessorato della PubblicaIstruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport e dell'Assessorato del Turismo della Regione Autonomadella Sardegna, del Comune di Cagliari e della Fondazione Banco di Sardegna.
Per approfondimenti e aggiornamenti:
- www.festivalcarloforte.org
- www.facebook.com/
festivalcarloforte - Twitter: @CreuzadeMa1
- Instagram: creuzadema1
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