La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

mercoledì 25 febbraio 2015

Al via il bando della quinta edizione di Time Out, il concorso per gruppi e progetti musicali collegato al festival Time in Jazz di Berchidda

Al via il bando della quinta edizione di Time Out, 
il concorso per gruppi e progetti musicali
collegato al festival Time in Jazz di Berchidda.
Entro il 15 maggio vanno presentati i demo audio
per partecipare alla selezione.
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Visualizzazione di TJ 2015 - locandina Timeout (m).jpg
Anche la prossima estate, al jazz club del festival internazionale Time in Jazz di Berchidda (provincia Olbia-Tempio), in programma come sempre a metà agosto, ci sarà spazio per tre proposte musicali scelte attraverso il concorso Time Out. La selezione, come recita il regolamento che si può consultare nel sito www.timeinjazz.it, è aperta a dj e gruppimusicali (comprese cover band e tribute band), preferibilmente fino a tre componenti, che suonino generi come jazz, blues, folk, bossa nova, lounge, elettronica, rock o comunque in sintonia con il contesto e l'atmosfera del jazz club del festival ideato e diretto da Paolo Fresu, quest'anno alla sua ventottesima edizione.
Per partecipare, occorre inviare un demo audio in formato digitale che contenga almeno quattro brani per una durata totale minima di venti minuti. La registrazione, insieme alle informazioni essenziali sul gruppo o progetto (curriculum, nomi dei musicisti, programma che si intende proporre a Berchidda, recapito telefonico e di posta elettronica), dovrà pervenire all'associazione culturale Time in Jazz (via Milano, 18 - 07022 Berchidda, OT) entro il 15 maggio.
Spetterà quindi alla commissione artistica del concorso il compito di valutare tutti i materiali proposti e selezionare i tre vincitori di questa edizione (la quinta) di Time Out, che dovranno poi esibirsi dal vivo a Berchidda, uno per serata, tra il 13 e il 15 agosto, nello spazio jazz club allestito al Centro Laber, dopo i concerti del festival in programma sul palco centrale in Piazza del Popolo.

Per maggiori informazioni, la segreteria di Time in Jazz risponde al numero 079704731 e all'indirizzo di posta elettronicainfo@timeinjazz.it.
* * *

Associazione culturale TIME IN JAZZ
via Milano, 18 - 07022 Berchidda (OT)
tel. 079 70 47 31 - fax 079 70 30 07
e-mail: info@timeinjazz.it
www.timeinjazz.it

Ufficio stampa:
RICCARDO SGUALDINI
tel. 070 34 95 415 - cell. 347 83 29 583
e-mail: tagomago.1@gmail.com


FRANCESCA BALIA
cell. 347 97 54 558
e-mail: francesca.balia@gmail.com





Time Out

concorso per musicisti e dj
quinta edizione


Regolamento di partecipazione

In vista della ventottesima edizione del Festival Time in Jazz, in programma il prossimo agosto 2015 a Berchidda (OT) e in altri centri limitrofi, l'Associazione culturale Time in Jazz bandisce la quinta edizione del concorso "Time Out" per selezionare tre progetti musicali (solisti e/o band) che si esibiranno durante il festival nel jazz club allestito al Centro Laber.

L'ammissione al concorso "Time Out" è subordinata al rispetto del regolamento di partecipazione:

1. Saranno ammessi dj e formazioni musicali preferibilmente fino a tre componenti. Il concorso è aperto a jazz, blues, folk, bossa nova, lounge, elettronica, rock e a tutti quei generi in sintonia con il contesto e l'atmosfera del club. Verranno presi in considerazione anche gli ensemble che eseguono cover e/o tributi.
Ogni formazione può presentare fino a un massimo di due progetti, ed è consentito a ogni singolo musicista o dj di partecipare all'interno di diverse formazioni.
2. Ogni progetto dovrà basarsi su un repertorio della durata di almeno 50 minuti.

3. I demo dei progetti, in formato digitale insieme all'indicazione di un contatto telefonico e ad una mail di riferimento, dovranno pervenire per posta, in busta chiusa, entro il 15 maggio 2015, al seguente indirizzo:

Associazione culturale Time in Jazz
Concorso Time Out
via Milano, 18
07022 Berchidda (OT)

Per la scadenza farà fede il timbro postale.

Ai demo dovrà essere allegata una scheda contenente le informazioni essenziali sul progetto, il suo curriculum, i nomi degli esecutori e il programma che si intende eseguire nel corso dell'esibizione al Centro Laber.

L'organizzazione non si impegna alla restituzione dei plichi contenenti i lavori.
4. I demo dovranno contenere almeno 4 brani per una durata minima di 20 minuti, necessari alla commissione designata dalla direzione artistica di Time in Jazz per comprendere il progetto nella sua interezza. La formazione presente nel demo dovrà corrispondere completamente a quella che verrà ospitata sul palco del Centro Laber.
5. I progetti verranno valutati dalla commissione del concorso e selezionati in base alla qualità di ciascun lavoro, ma anche con la finalità di produrre un calendario coerente per tutte le serate.

6. Saranno scelti i migliori 3 progetti, ognuno dei quali avrà a disposizione una serata del jazz club, compresa tra il 13 e il 15 agosto 2015. L'abbinamento tra i progetti e le tre serate sarà a totale discrezione della direzione artistica del festival. Ai musicisti vincitori del concorso verrà assicurata la copertura delle spese di vitto e alloggio per la giornata del concerto. L'associazione culturale Time in Jazz provvederà alla copertura delle spese di SIAE e di tutti gli oneri contributivi per i musicisti impegnati nel progetto.

7. Non è obbligatorio che i lavori presentati siano inediti o prime. Verranno valutati anche lavori già presentati in altri festival, manifestazioni e concerti.

Per maggiori informazioni gli interessati possono rivolgersi alla segreteria di Time in Jazz telefonando al numero +39 079 704731 o inviando un'email a info@timeinjazz.it.



I sardi primi coltivatori di meloni nel Mediterraneo

ARCHEOLOGIA

I sardi primi coltivatori di meloni nel Mediterraneo


Cabras. Dopo la vite, il melone. Non finiscono di sorprendere i pozzi nuragici scoperti dalla Soprintendenza a Cabras. Il gruppo di archeobotanica dell'Università di Cagliari ha ritrovato 47 semi riferibili all’Età del Bronzo (tra 1300 e il 1100 Avanti Cristo) che sono la prima testimonianza della coltivazione nel Mediterraneo.
ARCHEOLOGIA

I nuragici del Sinis primi a coltivare i meloni nel Mediterraneo

Nuova importante scoperta del Centro conservazione biodiversità dell'Università di Cagliari, trovati nei pozzi di Sa Osa a Cabras - a breve distanza dal sito dei Giganti di Mont'e Prama - semi datati tra il 1310 e il 1120 a.C
Anche gli abitanti nuragici della Sardegna apprezzavano i meloni. Tanto che per il particolare sapore di quella succosa polpa era coltivato in Sardegna già nel secondo millennio avanti Cristo. Lo documenta il ritrovamento nei pozzi del sito nuragico di Sa Osa, a Cabras, nell'Oristanese, di 47 semi di meloni riferibili all'età del Bronzo. Datati tra il 1310-1120 a.C., costituiscono attualmente la prima testimonianza certa della coltivazione di questo frutto nel bacino del Mediterraneo.
Al centro della eccezionale scoperta c'è l'equipe archeobotanica del Centro conservazione biodiversità dell'Università di Cagliari, guidata da Gianluigi Bacchetta.
Un campo di meloni nel Sinis
Un campo di meloni nel Sinis
In questi pozzi non distanti dal luogo dove furono rinvenuti i Giganti di Mont'e Prama, sono stati trovati i semi di melone più antichi del Mediterraneo e molti altri interessanti materiali biologici di specie coltivate in epoca nuragica. «I padri dei moderni sardi _ spiega Bacchetta _ conoscevano questo frutto con molta probabilità grazie ai continui scambi commerciali intrattenuti con le popolazioni di navigatori del vicino e Medio Oriente».
Il risultato della ricerca è stato pubblicato sulla rivista scientifica Plant biosystems.
Gli antichi reperti del frutto sono stati trovati all'interno dei pozzi che avevano la funzione di tenere freschi gli alimenti, i primordiali frigoriferi. «Questa scoperta _ sottolinea ancora il coordinatore dell'equipe _ riscrive in parte la storia delle coltivazioni nell'isola. Fino a oggi si pensava che la coltivazione del melone fosse arrivata grazie ai romani e i greci che dall' Asia l'hanno fatta arrivare nello stivale e quindi nel continente europeo».
Questo ritrovamento fa coppia con un altro recentissimo a opera della stessa équipe e che interessa lo stesso sito archeologico dove sono stati rinvenuti semi di vite, scoperta che ha fornito importanti indizi sull'origine della viticultura in Sardegna e in Europa. «Questo ritrovamento è ancora più eccezionale _ aggiunge Bacchetta _ già si sapeva o supponeva che la viticultura fosse già nota ai nostri antenati. Ma mai si poteva supporre che anche il melone fosse coltivato in Sardegna».
Il lavoro è stato portato avanti grazie ad un lavoro di equipe che ha coinvolto la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, il gruppo di ricerca in archeobiologia dell'Instituto de Historia (CCHS-CSIC) di Madrid, l'Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree (IVALSA-CNR) di Sesto Fiorentino, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e il laboratorio di Palinologia e Paleobotanica dell'Università di Roma La Sapienza.
Il lavoro di ricerca ha anche permesso di identificare migliaia di semi, frutti, granuli pollinici e frammenti di legno e carbone di piante coltivate e selvatiche, come olivo, mirto, mora, frumento, orzo, prugnolo selvatico, cicerchia, ginepro, lentisco e molte altre ancora. «Il quadro generale che è emerso _ conclude Bacchetta _ evidenzia che il popolo nuragico aveva un'economia di sussistenza altamente sviluppata e una profonda conoscenza della flora e vegetazione della Sardegna, su cui eseguivano un'attenta selezione delle materie prime».


"Meglio se taci", contraddizioni e censura della libertà di parola sul web in Italia


"Meglio se taci", contraddizioni e censura della libertà di parola sul web in Italia. Nel libro di Alessandro Gilioli (L'Espresso) e Guido Scorza (avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it) il caos normativo in un Paese in cui chi fa informazione online è ancora soggetto alla legge sulla stampa del 1948. E dove il digital divide è aggravato per parte politica da una "radicata subcultura nemica della libertà della rete"

di Eleonora Bianchini
23 febbraio 2015 ilfattoquotidiano.it




Ordine e contrordine, uguale disordine. Eccolo l'iter normativo che regola l'informazione sul web in Italia , dove i blog rischiano ancora di essere condannati per il reato di stampa clandestina e chi pubblica notizie può incorrere nell'esercizio abusivo della professione. Perché "non è possibile fare il giornalista senza tessera dell'Ordine, ma per averla bisogna fare il giornalista". Sono solo la punta dell'iceberg delle contraddizioni riordinate in "Meglio che taci"(Baldini&Castoldi), il libro di Alessandro Gilioli (L'Espresso) e dell'avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it Guido Scorza. Un'inchiesta che attraverso esempi di cronaca mostra come spesso l'interpretazione delle norme si traduca in censura, obiettivo condiviso da disegni di legge presentati in Parlamento che puntano a imbavagliare il web , ignorando che i provvedimenti validi nel mondo reale sono già estesi anche in ambito digitale. Molto lontano dal "far west" immaginato da deputati e senatori, tra i quali prevale "spesso una radicata subcultura nemica della libertà della rete ". Un caso in cui la difesa del diritto d'autore è diventato pretesto per censurare l'informazione è la vicenda del forfait di Gabry Ponte raccontata dall'emittente locale "Vera Tv Abruzzo", che si è vista rimuovere i video su YouTube dove aveva ricostruito la vicenda. E poi c'è la vicenda di Carlo Ruta, blogger siciliano condannato per il reato di stampa clandestina in primo grado e in appello prima che la Cassazione precisasse che a un blog non è applicabile la legge sulla stampa del 1948. Non ultima la storia di PnBox, web tv di Pordenone che dava semplicemente voce ai cittadini, segnalata all'ordine dei giornalisti per esercizio abusivo della professione. Un'accusa poi smontata davanti ai giudici: l'attività della web tv, hanno detto, "non è paragonabile a quella di un giornalista perché non prevede alcuna rielaborazione critica dei contenuti". Stessa accusa anche per Pino Maniaci, direttore di TeleJato, tv antimafia di Palermo che dopo due rinvii a giudizio e altrettante assoluzioni, ha preso il tesserino dell'Ordine. Come se la "patente" da giornalista fosse la condizione indispensabile per denunciare fatti criminosi e infiltrazioni mafiose. E questo in cosa si traduce? Nel pagamento nel bollettino annuale all'Odg, che per Gilioli e Scorza è fatto di "burocrati e gabelle" e che "non ha più alcuna funzione se non quella di garantire stipendi, segretarie, uffici e brandelli di potere ai suoi incravattati vertici". Lasciando da parte i casi giornalistici, in Italia il 34 per cento della popolazione non ha "mai aperto un browser" in vita sua. In più, siamo penultimi in Unione Europea per velocità della connessione misurata. Il digital divide italiano però si spinge oltre i confini della banda larga e "della scarsa penetrazione della rete nelle abitudini sociali". Come? Ad esempio con il compenso per la copia privata promosso dal Mibac di Franceschini, che disincentiva l'acquisto di device digitali. Ed è anche il Paese dell'ostacolo al wifi, dove gli esercenti possono rischiare multe da migliaia di euro se mettono a disposizione della clientela alcuni tablet. Perché in base all'articolo 110 del testo unico che disciplina la messa a disposizione del pubblico di apparecchi da gioco" il cui impianto originario risale a un regio decreto del 1931 sono equiparabili alle slotmachine. E se sul fronte trasparenza andasse meglio? Magari. Perché in Italia manca un Free of Information Act (Foia), legge che esiste dalla Svezia al Ruanda, per garantire ai cittadini una pubblica amministrazione trasparente. A dire il vero, ad annunciare un Foia nazionale era stato il governo Monti. Ma il testo non aveva nulla a che vedere con il modello Usa a cui avrebbe dovuto ispirarsi e ribadiva solo quello che le norme già prevedevano. Se esistesse, potremmo, ad esempio, conoscere nel dettaglio il contenuto del famigerato dossier Cottarelli sulla spending review. Proprio quello che né Palazzo Chigi né il Ministero dell'Economia allo stato attuale riescono a trovare. Oltre i confini nazionali, poi, rimangono aperte le domande sulle policy arbitrarie di Facebook e Google, big player che godono di potere incontrastato sul mercato virtuale e che decidono anche quali notizie possono pubblicare gli utenti. In occasione della diffusione del video della decapitazione di James Foley , ad esempio, Dick Costolo di Twitter ha avvisato che la pubblicazione degli immagini avrebbe potuto causare la sospensione dell'account. Questioni in cerca di sintesi e risposte, che coinvolgono Europa e Stati Uniti. Senza spingersi tanto oltre, però, possiamo limitarci al recinto italiano. Per vedere che anche dentro i nostri confini c'è già e ancora molto da fare. E' online FQ Magazine ,il rotocalco a modo nostro.

lunedì 23 febbraio 2015

"Vizio di forma" di Paul T. Anderson

da MicroMega

Cinema

"Vizio di forma" di Paul T. Anderson


di Giona A. Nazzaro
Se c’è una cosa che nemmeno il più smaliziato dei critici cinematografici può fingere, è di essere – non dico un esperto – ma un lettore di Thomas Pynchon. I libri, infatti, bontà loro, sono ancora degli oggetti abbastanza irriducibili all’inconsistenza intellettuale dilagante. I libri, a differenza dei film e dei dischi (ahinoi…, purtroppo…), bisogna averli letti per potere ambire anche solo lontanamente a dire qualcosa in merito. E a volte, per fortuna, non basta averli letti per dire qualcosa di sensato.

Così, di Thomas Pynchon, autore che definire cruciale della letteratura del ventesimo secolo è un eufemismo, è più facile trovare persone che dichiarano fieramente “avevo iniziato a leggerlo, ma a metà ho smesso perché mi annoiava” (cosa che equivale a dire che NON lo si è letto) piuttosto che persone disposte ad ammettere che per leggerlo bisogna avere ben allenati i muscoli cerebrali. E molta umiltà.

Intendiamoci: è più facile dichiarare ai quattro venti che American Sniper è un film fascista (senza capire niente di cinema) che ammettere di non avere letto nemmenoL’incanto del lotto 49 o che, pur avendolo letto, non ci si è capito nulla.
Thomas Pynchon, invece, come sostiene a ragione Umberto Rossi – uno dei nostri massimi americanisti nonché ottimo traduttore e dotto conoscitore dell’opera dell’elusivo (aggettivo d’obbligo) autore statunitense (e di Philip K. Dick: ineludibile il suo libro The Twisted Worlds Of Philip K. Dick: A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels) – è non solo uno dei più complessi scrittori in circolazione, ma anche dei più divertenti ed arguti (ovvio: ad ognuno il suo di divertimento).

Pynchon, come un beat fuori tempo massimo, ma dotato di una sana disciplina scritturale, che gli permette di gettare ponti fra Kerouac, Melville e Burroughs, è il visionario e ironico costruttore di universi letterari nei quali ci si può muovere liberamente come nelle galassie sonore di Frank Zappa, consapevoli che è il piacere della discontinuità l’unica carta in grado di garantire una possibilità di permanenza e piacere.

Vizio di forma, il libro, ci ricorda che Pynchon non è solo il sublime architetto diL’arcobaleno della gravità ma anche un attentissimo lettore di Chandler e Hammett. E, soprattutto, di aderire alle regole della narrazione esattamente come qualsiasi scrittore commerciale.

Pubblicato a soli tre anni di distanza dal monumentale Contro il giorno, Vizio di forma è probabilmente il più lineare dei romanzi di Pynchon. Un noir in piena regola che Anderson ha seguito quasi alla lettera, iniziando dal magnifico incipit recitato da Joanna Newsom: "She came along the alley and up the back steps...."

Paul T. Anderson, cineasta amato da una parte della cinefilia per i motivi sbagliati (adorazione feticista e incondizionata del virtuosismo tecnico), regista che da Il petroliere in avanti ha affrontato una straordinaria trasformazione formale, giunge conVizio di forma a una sorta di rarefazione del proprio gesto che è, a nostro avviso, conseguenza diretta della lettura pynchoniana.

Anderson, infatti, non solo ha letto Pynchon, ma lo ha compreso a fondo. Ossia ha intuito le potenzialità filmiche del libro operandone un adattamento che pur lasciando fuori snodi cruciali nell’economia del romanzo (Las Vegas, Kismet, Ronald Reagan…) rivela invece i collegamenti con gli altri titoli della bibliografia pynchoniana, in particolare Vineland, una sorta di predecessore non noir di Vizio di forma, e L’incanto del lotto 49.

Anderson ha ricontestualizzato il principio di dispersione – o disseminazione – pynchoniana, ossia il moltiplicarsi di situazioni e personaggi, reinventandola come il classico smarrimento del “private eye” chiamato a rendere conto, attraverso l’indagine, dell’incomprensibilità del mondo, del suo sfuggire alla logica. Il detective come testimone oculare che “qualcosa è cambiato”. Se nel noir classico le ombre espressioniste erano il segno inequivocabile di un mondo incomprensibile, impenetrabile, in Vizio di forma il sole abbacinante losangelino diventa segno di una paradossale (il)legibilità warholiana (o liechtensteiniana) del reale.

Se l’indagine è già presente nel romanzo come una traccia assurdista dell’esplodere delle contraddizioni della Summer of Lovenel corso degli anni Settanta (cosa che inVineland assume i segni di una quest popolata da decine di personaggi), Anderson, avendo compreso la strategia pynchoniana, semplifica il proprio tratto (niente dolly vertiginosi o numeri attoriali virtuosistici) e reinventa il mondo di Doc Sportello attraverso un’allucinata fissità che fa del piano sequenza e di uno zoom quasi impercettibile la sua cifra primaria (senza dimenticare le dissolvenze incrociate che si offrono come vere e proprie intersecazioni spaziotemporali).

Sportello, il protagonista, è un nome-indizio di Pynchon che con l’italiano nei suoi romanzi gioca sempre molto volentieri. Se infatti Huxley sosteneva che bisognava aprire le porte della percezione per comprendere, Pynchon, molto più umilmente, apre uno… sportello per sbirciare in quello che sarà il regno dei Repubblicani e di Reagan.

Anderson coglie perfettamente la dimensione malinconica del romanzo che è sì omaggio ai maestri del noir, ma anche lamento funebre per la fine del mondo stesso. Pynchon, da ormai anziano e disilluso scrittore anti-sistema, non si fa illusioni e Anderson, fermando il tempo del racconto, dilatandolo con l’attesa dei piani-sequenza, offre il sentire esatto di una resistenza che è ormai soprattutto una questione morale, etica.

Lo stupore psicotropo nel quale galleggia Doc diventa così il segno evidente di una percezione altra del reale. Perché, parafrasando Burroughs, scrittore con il quale Pynchon ci sembra condividere dei tratti strategici, “la paranoia è solo una forma più acuta della percezione della realtà”. E Doc si muove da un piano paranoico all’altro, intrecciando possibilità, lasciandosi guidare, come uno schlehmil eterodiretto, dalla possibilità del caso. Per dirla con Brian Eno, le strategie oblique del caso diventano una possibilità di lettura e di ricomposizione, addirittura, del reale.

Anderson riesce così a reinventare filmicamente l’immenso materiale pynchoniano, senza alcun timore reverenziale, rispettandone la complessità e la ricchezza e, soprattutto, senza chiudere i punti di contatto verso il resto dell’opera dello scrittore.

Sportello, divorato da un amore impossibile, cavaliere errante che donchisciottescamente reinventa la realtà perché rifiuta di farsi riscrivere da essa, si trova invischiato in una trama che potrebbe benissimo essere una nota apocrifa della tetralogia losangelina ellroyana.

In questo modo il film si rivela non solo un adattamento che ripaga sia i timori della vigilia (e possibile portare Pynchon al cinema?) che le speranze più audaci, ma anche un tentativo – legittimo – di dare corpo all’opera e alla poetica pynchoniana, riconducendola nell’alveo della dimensione anti-establishment post-beat.

Come Un lungo addio intrecciato con Moses Wine detectiveVizio di forma è una lunga allucinazione nella quale i Can si rispecchiano nella voce di Joanna Newsom (che gli spettatori italiani si perdono a causa del doppiaggio) e dove il tempo perduto è solo perduto.
Pynchon lo sa. Lo ha sempre saputo. E Anderson ha dato a questo sentire una forma cinematografica. Realizzando così il suo film più libero.


Undici e mezzo di Francesco Puccio

Verrà presentato il libro

Undici e mezzo

di Francesco Puccio · Scheda del libro →
Martedì 24 febbraio 2015, ore 18.00
Libreria Feltrinelli, Largo Giulio Cesare 4, Rimini
Presenterà Fabrizio Loffredo
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sabato 21 febbraio 2015

Cara Ferrante ti candido al premio Strega

Cara Ferrante ti candido al premio Strega (Roberto Saviano).

Libri
Lettera aperta di Roberto Saviano all’autrice dell’“Amica geniale” “La tua partecipazione romperebbe gli equilibri di un gioco scontato”.
CARA Elena Ferrante, ti scrivo non conoscendoti di persona, ma come lettore, e credo sia il tipo di conoscenza che prediligi. Non mi ha mai incuriosito scovare chi si celasse dietro il tuo nome, perché sin da ragazzo ho sempre avuto le tue pagine a disposizione, e quello mi bastava e mi basta ancora per credere di conoscerti, di sapere chi sei. Una persona vicina e famigliare.
USO il tu non perché esser venuti fuori entrambi da terra napoletana mi faccia sentire in confidenza immediata con te, ma perché queste parole vogliono esser dirette, come se fossero pronunciate nel mezzo di un pranzo. Insomma, per non farla troppo lunga, ti scrivo perché vorrei invitarti a partecipare al premio Strega ben sapendo che non ci sarai, che non presenzierai, che non farai nulla per accompagnare il tuo L’amica geniale. Come autore mi sento fortunato e condivido la tua indifferenza alle logiche dei premi letterari, ma come lettore credo che la tua presenza allo Strega sarebbe un modo per fare finalmente quanto tanti auspicano da anni: mettere fine alle logiche di spartizione, fare in modo che anche altri editori possano aspirare al podio.
Allo Strega siamo affezionati perché fa parte della nostra storia, ma negli anni ha perso fascino, perché ormai è diventato un gioco sfacciatamente combinato.
Io propongo te perché ti leggo e propongo te perché hai avuto l’attenzione della critica internazionale, cosa tutt’altro che scontata. Propongo te perché credo che la tua presenza possa aiutare questo premio a essere di nuovo qualcosa di vitale e genuino, non solo uno scambio di voti e favori. Finora si è imposta la regola “quest’anno vince il mio, l’anno prossimo vince il tuo” che sta mortificando i migliori talenti letterari italiani. Io stesso sono stato sostenitore convinto di molti dei libri che hanno vinto lo Strega negli ultimi anni e spesso mi sono chiesto come si sentissero questi amici a essere parte di un gioco che era palesemente controllato. Credo si sentissero male, sviliti, perché il loro talento era innegabile e non necessitava di alcuna macchinazione, ma solo di una reale competizione. Ma non esiste più reale competizione, nel nostro paese anche il talento è costretto a trovare protezione e difesa. Due sono le grandi sventure per chi vuol vivere in Italia: il talento e l’onestà. In mancanza di questi la vita è dolce in questo paese. Un’editoria in crisi non comprende che non è la vittoria di un premio benché prestigioso a dare nuovo lustro all’intero settore, ma la partecipazione che bisogna creare attorno ai libri. E se penso alla modernità, al web e ai social network e alle opportunità che offrono, penso alla modernità del tuo progetto. Un progetto senza volto che non usa l’anonimato per fare del male, ma per offrire qualità. Un progetto letterario moderno nato ventitré anni fa.
Questa è Elena Ferrante, e questo è più o meno quanto scrisse al suo editore nel 1991, al tempo dell’ Amore molesto. Che aveva già scritto il libro e questo bastava. Il libro doveva dimostrare quanto valeva e doveva farlo da solo, senza la sua autrice a fargli da tutore.
Con il tempo ho scoperto che metterci la faccia e il corpo – accanto alla scrittura – vuol dire anche offrire carne e sangue ai nemici perché possano farne brandelli. Ho scoperto che esistono verità difficili da scrivere senza l’anonimato, ho scoperto che esistono verità che prediligono che il volto si smaterializzi, che resti nell’ombra, perché le cose dette sono talmente personali che aggiungere carne e sangue vorrebbe dire due cose: rinunciare all’autenticità del racconto o morirne. Sono scelte. Scelte personali. Scelte umane e per questo fallibili e criticabili. Ciò che a me più preme è che le mie parole arrivino a un numero altissimo di persone, ecco perché andrei porta a porta a presentare i miei scritti, a parlarne. Ma c’è chi ritiene, non a torto, che avendo scritto, abbia già fatto tutto quello che uno scrittore ha necessità di fare. Tutto il resto non è compito suo ma del libro: trovare le strade giuste per arrivare ai lettori o cadere nell’oblio, essere amato, dimenticato, riscoperto.
Non fraintendermi, detesto i puri, non penso che tutto possa avvenire senza pressioni, senza sforzi o senza promozione. Ma il premio Strega oggi è soprattutto scambio, scambio senza gioco, senza sorpresa: è un gran peccato. Non mi illudo che la tua partecipazione cambi le regole di punto in bianco, ma potrebbe iniziare a rompere degli equilibri, anche per il dibattito che attorno a te nascerebbe. La tua presenza farebbe entrare acqua fresca in un pozzo a lungo stagnante. Non importa che tu non possa essere presente fisicamente, non abbiamo bisogno di vederti per apprezzare ciò che scrivi, del resto Tomasi di Lampedusa vinse con il Gattopardo il premio e anche lui per ragioni naturali non fu presente. Non abbiamo bisogno di avere un nome reale al posto di uno pseudonimo: è letteratura, non elezioni politiche, l’immaginazione fa parte del gioco, è anzi la sua componente migliore.
Insomma, torniamo a far appassionare i lettori; torniamo a dare loro storie e non tattiche. Mi è capitato di parlare con uno studente del liceo classico Giannone di Benevento, la sua classe leggeva, valutava e votava i libri per lo Strega. Con il puntiglio ostentato che solo l’adolescenza sa regalare alle parole mi ha detto che gli dispiaceva che il lavoro della sua classe fosse inutile perché già si sapeva quale libro avrebbe vinto. È la fine dello spirito di competizione. È la fine dell’essenza di ogni premio, anche il più ambito.
La crisi dell’editoria ha reso sempre meno vero l’assioma che alla vittoria del premio corrisponda la vendita di più copie del libro. I dati possono dimostrare quanto non sia più vero. E perché accade? Perché il dibattito sulla cultura che porta interesse e quindi lettori e quindi acquirenti è fiaccato all’origine dalla logica delle spartizioni. È ora di creare attenzione e dibattito sui libri, che si provi a dare centralità a qualcosa che può vincere solo se torna a nutrire entusiasmi. È il momento, Elena. Possiamo provare a sparigliare, a mettere la macchia (come si diceva giù da me, giù da noi) sulle schedine del totocalcio, e rendere il risultato imprevedibile.
Da “Amico della domenica”, ossia da votante del premio Strega, ti presenterò volentieri, ma posso farlo solo a due condizioni: il tuo consenso e un altro “Amico della domenica” disposto a presentarti con me, perché per regolamento dobbiamo essere in due.
Io ci sono e attendo.
Da La Repubblica del 21/02/2015.