Scoperta misteriosa Distillare l' essenza della vita Scegliere il tuo sguardo ogni mattina Nei tuoi occhi si legge magia Le tue parole come musica Meraviglia Farti sentire il mio cuore Frenesie a cielo aperto Vivere il mio doppio Emozioni forti Complicita' a senso unico Sei tu il mio doppio La vita La sorte La gioia, L' amore, I profumi, La terra, il mare Il cielo, Il pensiero L' anima Orizzonti estasiati
In memoria di Gabriele Onori scomparso l' altro ieri pubblico due sue poesie dalla raccolta ''Una disadorna verità'', AndreaOppureEditore, 2005. Gabriele Onori (1950) era nato a Magliano Romano (Roma). Nei primi anni '70 aveva frequentato il teatro d' avanguardia romano nelle cosiddette ''cantine''. Dal 1983 si era dedicato esclusivamente alla pittura.
BREVE INFINITO
Amo la notte dove alla mia finestra si affacciano i fuochi degli anni luce e dei pochi chilometri.
FORSE SONO UN INGUARIBILE PESSIMISTA
Forse sono un inguaribile pessimista continuo ad amare i tramonti mi annoiano le albe.
Che io ricordi, all' alba, ho sempre fatto cose fastidiose, la notte tutti dormono nessun padre rimprovera i figli.
Quel che c' e' dopo i tramonti e' solo mio agli inizi bisogna condividere e tutto e' ancora d' avvenire.
E' quella ottusa voglia di vivere che e' poco interessante perche' non forma bacche ne' semi, non da' frutti, e' vogliosa solo di se stessa.
Nei tramonti dove le storie sembrano finire, proprio li'! Tra quelle macerie, germoglia il ricordo che deve essere ricordato e vive.
Il figlio dei nostri molti anni ride per le stanze apre le finestre alla brezza scompigliando cumuli di pagine ingiallite. Spalanca gli occhi di meraviglia per i baffi del gatto per un filo d’ erba del prato per la pratolina dai petali semichiusi arrossati dal gelo. Ha mani gentili parole delicate pensieri teneri. Il figlio dei nostri molti anni si accovaccia sul letto in silenzio vegliando sui nostri abbracci.
dalla raccolta di poesie ''Vivere richiede attenzione'' di Ludovica De nava
Congedo al Novecento
Ogni magia spenta, scorrere su e giù nel secolo breve senza poter riscrivere una pagina sola. Tutto il succo degli anni -rosso rubino rosso sangue- strage su strage approvate con indignazione e via giù nell’imbuto di distratte assoluzioni. Storie mai capite vere, virtuali, virtualmente confuse. Chiudere gli occhi sul sipario. Applausi?
Quando il sole settembrino ritagliò profili netti andai in cerca della mia ombra. La trovai in riva al lago mi aspettava silenziosa tra l’onda breve, la ghiaia e due foglie d’autunno. L’avevo, era mia: non ero ombra.
Si avvia, l’ora degli sguardi Quando al crepuscolo Dopo il suo lungo e incessante viaggio Si adagiano i suoi raggi E prostrato e solo Col volto che muta colore attende il ridestar della bianca luna. (A.O.8 Gennaio 2010)
PS. Foto by Marty 'Tramonto sul mare'- Calamosca, Cagliari
Menzione d'onore al concorso di poesia sarda di Bortigali
Teranyines dins la nit/ Ragnatele nella notte
TERANYINES DINS LA NIT
Esquerdes sobre els murs dins el fosc silenci. Paraules callades, respirs ofegats… L’afany dins el pit d’una tremolor cansada. El lliri selvàtic estripat a la sorra, reclina el cap derrotat. El mussol ara riu dins la nit inquieta. Teranyines de llàgrimes dins els ulls. Es bressa l’aranya sobre un raig de lluna. L’incertesa del demà és la mossegada que destrossa la carn. Els pensaments són esquerdes sobre els murs dins el silenci més amarg.
RAGNATELE NELLA NOTTE
Crepe sui muri del nero silenzio. Parole taciute, respiri soffocati… l’affanno nel petto di un brivido stanco. Il giglio selvatico strappato alla sabbia, reclina il capo sconfitto. Il gufo ora ride nella notte inquièta. Ragnatele di lacrime negli occhi. Dondola il ragno su un raggio di luna. L’incertezza del domani è il morso che dilania la carne. I pensieri son crepe sui muri nel silenzio più amaro.
Michela Murgia con ''Accabadora'', Einaudi, Supercoralli, ha vinto il Premio Campiello 2010
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un'assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l'ultima madre.
Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l'aspettano, come imparare l'umiltà di accogliere sia la vita sia la morte. D'altra parte, «non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada».
Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come «l'ultima». Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. «Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia». Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre. La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico sull'orlo del precipizio, ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle. Sa come unire due solitudini, sa quali vincoli non si possono violare, sa dare una fine a chi la cerca. Michela Murgia, con una lingua scabra e poetica insieme, usa tutta la forza della letteratura per affrontare un tema così complesso senza semplificarlo. E trova le parole per interrogare il nostro mondo mentre racconta di quell'universo lontano e del suo equilibrio segreto e sostanziale, dove le domande avevano risposte chiare come le tessere di un abbecedario, l'alfabeto elementare di «quando gli oggetti e il loro nome erano misteri non ancora separati dalla violenza sottile dell'analisi logica».
Tempo fa avevo pubblicato un post legato alla Femina Agabbadora parlando di luoghi misteriosi. Lo ripropongo per far conoscere ai non sardi questo rituale antico della Sardegna, vero o leggenda che sia.
Il museo Galluras è un museo privato, nato dagli sforzi e dalla passione di due galluresi che sono riusciti a conservare non solo l’abitazione in sè, ma anche tutti gli antichi oggetti che accompagnavano la vita quotidiana degli abitanti di questo paese. Attraversarne le stanze e scoprire che ogni oggetto aveva una sua vita e una sua utilità fa capire la seria, intelligente e umile organizzazione della vita di un tempo che, consapevole dell’importanza di ogni singolo utensile, sapeva rispettarlo, utilizzarlo e riciclarlo dando così profonda importanza a tutto ed evitando la società dello spreco in cui viviamo oggi. Percorrendo questo museo ci accorgiamo che tutto ciò che serviva alla famiglia e al suo sostentamento veniva prodotto in casa, dal pane quotidiano, agli oggetti più complessi come le scarpe. Camminando per queste stanze non possiamo non percepire una muta accusa nei confronti della nostra moderna società che al contrario ci fa acquistare e gettare via senza dar peso a nulla se non al denaro, che paradossalmente ci serve per comperare ciò che poi buttiamo nella spazzatura. Il museo non è solo un’occasione per guardare al nostro passato ma per imparare dai nostri avi a ridare un senso al nostro futuro.
Il museo contiene ben 5000 reperti pazientemente raccolti e conservati dalla fine del 1400 alla prima metà del 1900 da PIER GIACOMO PALA che ne cura l’impostazione, la direzione e la promozione. Qui tutto è stato utilizzato e tramandato di padre in figlio. Un’interessantissima visita guidata con minuziosa narrazione fa rivivere al visitatore ogni ambiente, ci si sente realmente proiettati indietro nel tempo. Varcata la porta d’ingresso si torna all’antica vita gallurese e se ne respira la quotidianità. Nascita, infanzia, amore, lavoro, morte, rinascita... questo luogo contiene tutto questo.
Piano terra - il lavoro
Molto spazio è dedicato al lavoro che costituiva la principale forma di sostentamento, sia dal punto di vista del guadagno, che del nutrimento vero e proprio, in quanto era necessario “auto prodursi” tutto il necessario per sé e la propria famiglia, dal tappo di sughero per chiudere la bottiglia di vino al vino stesso.
Il Piano terra è dedicato all’agricoltura, alla pastorizia e al vino. Si toccano da vicino i più svariati attrezzi per la lavorazione dei campi, e per la produzione dei derivati del latte e del vino. E’ presente una particolare collezione di cavatappi tra cui uno da taschino. Vi è anche un carro.
Primo piano - la famiglia
Il primo piano riguarda la casa vera e propria con cucina, sala da pranzo e camera da letto. Nella sala da pranzo vi è una credenza, una cassapanca per conservare il pane, una piattaia, un tavolo estensibile. Era il luogo dell’incontro e della festa, spesso capitava che ci si riuniva attorno al camino ad ascoltare le novelle di narratori che si recavano di casa in casa (una sorta di cantastorie medievali, mestiere passato di moda non troppo tempo fa).
La cucina è un’esplosione di ogni tipo di utensile, qui si faceva tutto in casa dal pane ai biscotti. Nella credenza sono conservati alcuni esempi di “pane degli sposi”, il pane elaborato che veniva donato il giorno del matrimonio in segno di prosperità. Gli esempi che qui si possono ancora osservare risalgono al 1945, una rarità se si pensa che il pane non dura più di 7/8 anni.
il pane degli sposi
Nella camera da letto spicca all’occhio l’angolo della riparazione delle calzature, fatto quantomeno curioso dato che la casa era abitata da una famiglia benestante. Ebbene la capacità di autoriparazione delle scarpe era un privilegio anche per i più ricchi essendo un oggetto indispensabile e molto costoso.
l'angolo della riparazione delle scarpe
Fortunato era chi sapeva rammendarle perché portava in casa un risparmio davvero elevato. Inoltre gli strumenti di riparazione venivano conservati nella camera da letto dei genitori in quanto l’accesso qui era severamente vietato ai bambini, evitando così che si ferissero con la complicata strumentazione del calzolaio.
Secondo piano - lavorazione del sughero e della lana
L’ultimo piano è dedicato alla lavorazione della lana e del sughero. E’ presente un telaio orizzontale che la donna utilizzava sdraiata.
la lavorazione del sughero e il telaio per quella della lana
Il martello della Femina Agabbadora
Nella camera da letto al primo piano si trova un oggetto incredibile, l'ultimo ad oggi rimasto in tutta la regione, fatto che rende il museo unico in Sardegna. Sul letto della fine dell’800, impreziosito da testate di ferro battuto, è presente un sacchetto nero di velluto che contiene il martello della "Femina Agabbadora". Occorre sciogliere il nodo lentamente e con cura, perchè ciò che viene estratto non solo porta in sè un importante peso fisico, ma anche morale. Il martello molto pesante è di legno stagionato d’olivastro lungo 42 centimetri e largo 24 con manico corto che permette di impugnarlo con sicurezza per facilitarne la mira affinchè si potesse dare un colpo forte e sicuro.
A prima vista potrebbe sembrare un normalissimo utensile, ma così non è perché veniva usato dalle “Femine Agabbadore”, donne che avevano il compito di “finire” un malato terminale, attivando così una sorta di antica eutanasia. La donna veniva chiamata dalla stessa famiglia dello sventuarato, ma solo quando risultava inguaribile e in preda a sofferenze atroci. Era un'oscura donna, a volte residente nello stesso paese, che si occupava di questa macabra pratica, mestiere considerato “positivo” perché sapeva portare il “sollievo”, laddove medico e preghiere fallivano miseramente. Erano vestite di nero e indossavano un mantello, una macabra coincidenza le fa "somigliare" alla Morte, e quando ne vedevi una, in effetti qualcuno doveva morire.
Gli ultimi episodi sono più recenti di quanto si pensi, uno risale al 1952 a Orgosolo e uno proprio a Luras nel 1929. Curioso il verbale stilato dai carabinieri sull'ultima "eutanasia" in cui si giustifica la morte del malato con il fatto che “i familiari ne hanno dato il consenso”.
Il rituale della Femina Agabbadora
Vi era un preciso rituale da seguire quando una famiglia con un malato grave prendeva la terribile decisione di chiamare la Femina Agabbadora. In primo luogo veniva posto sotto il cuscino un piccolo giogo per tre giorni e tre notti. Era il primo passo del rituale ”magico” con il quale si spingeva il moribondo a “tornare alla vita”, visto che l'esistenza di ogni essere umano era incentrato sul lavoro dei campi.
il giogo sotto il cuscino
Se il malato continuava a soffrire allora si procedeva con una confessione in famiglia, l’AMMENTU, gli si rammentavano all'orecchio i propri peccati (anche quelli dimenticati!) per pentirsene prima dell’ultimo respiro. Capitava che o il malcapitato moriva sotto il peso psicologico di questi ricordi negativi, ma capitava a volte che si riprendeva per il timore di finire all’inferno e per la voglia di rivalsa. Si ritornava in sè per una sorta di desiderio di espiazione e per rincorrere una seconda possibilità. E a volte funzionava!
Se non si osservavano miglioramenti, allora si tentava di innescare una forte reazione fisica, si avvolgeva il moribondo in un panno di acqua gelata tenendolo dentro ad una botte, tentando così in extremis di calmare il bollore della febbre, ma ciò facendo capitava spesso che veniva ucciso da una broncopolmonite fulminante!
Insomma laddove magia, psicologia e attacco fisico non funzionavano si doveva ricorrere all’atto finale e, dopo un'importante riunione di famiglia, si decideva di convocare a malincuore l’Agabbadora. In effetti era come chiamare la Morte in persona, arrivava di notte, avvolta in un mantello nero, solo che in mano aveva il martello al posto della falce. Appoggiava lo strumento sul davanzale del malato, ma entrava dalla porta principale annunciandosi con la frase “che Dio sia qui”. Veniva accompagnata nella camera del malato, per indicare che era un volere di tutti, faceva il segno della croce e li congedava chiudendosi all'interno. Dopo aver compiuto il “suo dovere” avrebbe richiamato i parenti e avrebbe pianto il trapassato insieme a loro. Un' eutanasia di tutto rispetto, con tutte le sue regole e il suo galateo.
La figura della Femina Agabbadora è avvolta nell'oscurità in Sardegna, pochi ne parlano nonostante siano stati scritti dei libri. Era un mestiere duro ma necessario per una famiglia spesso povera, che lavorava intensamente per il proprio sostegno, una persona in fin di vita poteva solo portare grossi disagi e sofferenze.
Una selezione naturale "aiutata" da un'organizzazione sociale che permetteva di salutare la propria persona cara, per rivederla nell'altro mondo guarita e in piena salute. Un rapporto con la morte strano, forse macabro e spaventoso, ma sicuramente più rassicurante e migliore del nostro, perchè per loro la Signora Morte era quasi "una di famiglia"...