mercoledì 16 giugno 2010
BOB DYLAN a PARMA: PAROLE, MUSICA E ARTE PER IL “MENESTRELLO ELETTRICO”
La mostra si inaugura venerdì 11 giugno ore 18:00;
replica il 15 giugno ore 18,30
e proseguirà fino al 26 giugno 2010
con la partecipazione di:
Bernardo Lanzetti Raffaele Rinaldi – Guest Star il rapper Max Mbassado.
Dipinti, disegni, allestimenti, performances e video ispirati alle canzoni di Bob Dylan.
Bernardo Lanzetti presente con le sue opere, riunisce un manipolo di artisti come:
Amneris Bonvicini
Susan Dutton
Angelo Liberati
Mario Pavesi
Eddie Vicentini
per celebrare Bob Dylan.
Video arte con: Rossana Cagnolati e Fabio Maria Turrini.
Poesia del Premio Pulitzer: Bob Dylan con Raffaele Rinaldi.
MAISON OLIVIER
Via Bodoni 1/d PARMA
tel. 0521/504407 / cell. 00393386076886
www.maisonolivieR.com
laura@maisonolivier.com
orari mostra: dal lunedì al sabato 08.30-13.00 / 16.00-19.30
chiuso domenica e lunedì e il giovedì pomeriggio
La figura di Bob Dylan pone alcuni problemi che potremmo dire linguistici. Per esempio, nella grande grammatica della modernità non è sicuro che lo si possa considerare un soggetto o piuttosto un predicato verbale. Certo, nel secondo caso c’è qualcosa di in progress, che nel primo sarebbe limitato a ciò che emana ma non muta; e Dylan è anzi inafferrabile e molteplice. Più probabile che Dylan possa suonare come un avverbio, dove si nascondono le imperniature dei concetti, gli snodi delle frasi; se non addirittura preposizione, o pronome, insomma qualcosa che trasforma il sostantivo, piega il verbo, accerchia in una spirale il complemento (“Oh, where have you been?”, “Oh, what did you see?”; “And what did you
hear?”, “Who did you meet?” “Oh, what’ll you do now?”). La verità è che in mezzo secolo Dylan si è disciolto nel linguaggio della cultura, è stato nodo fra poesia alta e cultura popolare, ha messo insieme le anime sgangherate di un Paese che si apprestava a contagiare il mondo, ha condizionato atteggiamenti e convinzioni, poi è come sparito dietro i suoi millanta nipotini, da quelli che ieri lo copiavano a quelli che ora lo citano. E se nei corsi d’Università un cantautore vale oggi quanto un poeta del Duecento (come quello di Tangled Up In Blue!), ci si è dimenticati forse che lo si deve per primo a lui.
Sarà per questo che nelle opere qui esposte Dylan torna spesso come una presenza lontana ma inaggirabile, un’immagine lontana e sprofondata nella storia, macchia visiva come nella pittura di Bernardo Lanzetti; più ci guarda, più c’illudiamo possa dirci qualcosa, ma in realtà stiamo solo facendo a pugni con la memoria, con qualcosa che eravamo e non sappiamo se se siamo riusciti a diventarlo. Prendi i dipinti di Angelo Liberati: ci trovi un dialogo d’immagini
vaporose che ti scappano dall’occhio come dalla ragione, Masaccio e Rembrandt passano in un sorso, versi di canzoni fluttuano come un bevuta che ti ruscella in bocca, e infine ovunque la faccia di Bob Dylan, e donne, donne che a frotte le sue canzoni si lasciano dietro. Nel turbine della modernità, dove tutto è stato detto, è solo la memoria che sceglie e scarta.
Oppure reagisce come una sostanza chimica: l’icona dylaniana di Pasquale Rapicano, che non rinuncia a citare come in un vecchio papier-collé braquiano, è arroventata come un silicio che sta diventando magma, come metallo in fucìna. Laddove non arriva la memoria, sembra dire, ci pensa la realtà stessa, persino la materia, a mostrare i mutamenti sotterranei delle coscienze.
O infine memoria e materia si deformano, come nelle foto rielaborate di Franco Saccò: ma il medium di massa, il ritaglio di giornale, resta pietrificato, fossile ambiguo, mero calco di vita.
E le donne tornano con la californiana Susan Dutton, macchie di colori acquosi, tratti mozzi di penna: così eravamo, ma la memoria ha occhiali viola, e trasforma i ricordi in mistero. Il passato, anche recente, è in fondo già mistero: nell’abbraccio budinoso di Mario Pavesi l’avvoltolarsi della carne alla ricerca di un agio primitivo, è nostalgia di qualcosa di ancestrale ma preferibile al nostro presente. Meglio quindi sprofondare a riassaporare qualche madeleine. Il ready-made di Elisabetta Casazza ci riporta alle copertine dei vinili di quei tempi memorabili, e allo stesso tempo la chitarra si impregna del colore di cielo del fondo, si sublima alchemicamente. La realtà è fatta della stessa materia dei sogni, certo: ma la sostanza è un puro sapore visivo, perché l’illusione a volte conta più della realtà?
Nel sensorial style (molto più che fashion) dei vestiti di Amnerys Bonvicini i colori invece camaleonteggiano, la luce tintinna e velluteggia su bottoni, si sottrae alla vista, entra nelle regioni della mente come una sinestesia dell’intelletto. Ecco, può essere che Bob Dylan sia una figura retorica: tipo una sineddoche, o una catacresi. Certamente è metafora in Eddie Vicentini – lo spirito e la carne, il peccato e il libero arbitrio – e forse poliptoto nei video di Fabio Maria Turrini e Rossana Cagnolati – ma il body-tape video, invenzione anni ’60, diventa qui ossessione di un’umanità deumanizzata, che ricorda segni, deforma immagini. A foreign sound to your ear come nella canzone riletta da Max Mbassadò. Il grido di Bob contro
la guerra: esistono ancora buone orecchie per capire il suo linguaggio?
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