1912-2012. I cento anni
del Gruppo cronisti
lombardi raccontati in
un volume.
I cento anni dalla costituzione del Gruppo Cronisti Lombardi sono stati solennemente ricordati nella Sala Alessi di Palazzo Marino, alla presenza del Sindaco Giuliano Pisapia, e delle maggiori autorità civili e militari della città. Dopo il saluto del presidente del Gruppo Cronisti Rosi Brandi e del direttore del Corriere della sera, nonchè presidente della giuria del Premio Guido Vergani Cronista dell’anno, Ferruccio de Bortoli, l’attore Gianni Quillico ha letto alcuni articoli tratti dal Corriere della Sera del 12 e 13 febbraio 1912. E’ stata quindi la volta del Sindaco Giuliano Pisapia (che ha potuto raggiungere la Sala Alessi solo al termine di una annunciata riunione in Prefettura con il ministro Cancellieri) il cui saluto, con una elegante tirata di orecchie ai Cronisti con l’invito a verificare sempre le proprie fonti e ad essere corretti testimoni della realtà (citando anche esempi di notizie sulle quali sono nate polemiche, a suo giudizio, non supportate nella realtà) ha suscitato qualche ulteriore e forse esagerata polemica (vedi comunque la notizia Ansa in Segnalazioni).
Il professor Franco Contorbia, dell’Università di Genova, ha poi svolto una interesante, articolata e coltissima Lectio Magistralis su “Il cronista: fenomenologia e storia di un mestiere difficile”, ricordando fatti e nomi (in particolare l’attentato di Piazza Fontana come uno spartiacque del modo di fare cronaca e del ruolo del cronista e i colleghi Marco Nozza, Egisto Corradi, Giorgio Bocca, Walter Tobagi, Guido Vergani, Orio Vergani, Dino Buzzati…) e suscitando non pochi motivi di riflessione sulla professione oggi dopo l’avvento delle nuove tecnologie e dei social network
Dopo il saluto e alcune riflessioni conclusive di Guido Columba, presidente dell’Unci, la Banda Civica di Milano, nel cortile d’onore di Palazzo Marino ha reso un omaggio musicale con l’esecuzione di tre brani del compositore americano King e del brano più caro ai milanesi “O’ mia bela Madunina” di D’Anzi.
da PiazzettaVergani.org
..
Parla
il presidente
emerito dell’Ordine
della Lombardia
FRANCO ABRUZZO.
L’ambizione di
ricostruire le storie:
“Noi cronisti sempre
di corsa e con
le foto in bocca”
testo raccolto da Paola d’Amico
“Non
si guardava l’orologio, non eravamo impiegati del catasto. Mi
piacerebbe ricominciare. Certo, non ho più lo scatto di allora, quando
facevo le scale del tribunale a due gradini alla volta...”.
Franco Abruzzo si racconta. “Sono arrivato a Milano il 3
febbraio 1962, avevo 22 anni, 150 mila lire in tasca e la mia Seicento
che mi portò, sbagliando le strade, in piazza Duomo. Alle spalle tre
anni di corrispondenze da Cosenza per Il
Tempo e Il Giornale d’Italia di Roma, la Tribuna di Mezzogiorno di
Messina, Tuttosport, Le vie del mondo la vecchia rivista del Touring. Ma
avevo capito che me ne dovevo andare su al Nord. Vivevo nel mito di
Milano. Mi ero innamorato del capoluogo lombardo in seconda liceo,
studiando l’Illuminismo lombardo. La storia d’Italia l’ha sempre fatta
Milano”.
Vuole
fare il cronista il giovane Abruzzo. Per questo s’adatta a scrivere
comunicati stampa (“Mi pagavano 60 mila lire al mese”) collaborando con
la Deutch Grammofon: “Ascoltavo Orietta Berti e scrivevo un comunicato
stampa. Non capivo nulla di musica leggera, ma i testi piacevano”. Abita
presso una signora piemontese in via Fatebenefratelli 30. Frequenta il
Gatto Nero il ristorante “covo” delle ragazze di un noto night di via
Manzoni.
Segue lo Sport per L’Italia, collabora con Sport Informazione, lavora tre mesi nella redazione del vecchio Sole di via Ciovasso (sostituisce un collega chiamato alle armi). Ha un obiettivo chiaro in testa il giovane cronista: arrivare al Giorno. L’occasione
si presenta quando conosce Paolo Murialdi: “ In quegli anni nascevano
le edizioni della provincia, comincio a collaborare girando per il
milanese, da Monza a Cassano d’Adda, da Sesto San Giovanni a Lodi fino a
Codogno. Racconta così di quando a Lodi bussa alla porta del
procuratore capo, don Ciccio Novello: “Mi dice: Franco vai
a Codogno, gira attorno al carcere. Io vado, è tutto chiuso, mi vede un
vigile urbano e sghignazza, poi vado dai carabinieri e anche quelli
scoppiano a ridere. La storia? Le guardie avevano trasformato il carcere
in una casa chiusa, aprendo le porte alle donnine della via Emilia”.
Sono gli anni della grande emigrazione dal Sud. “Se non avevi notizie di cronaca
di giornata prendevi su, andavi dal simpatico portiere dei palazzoni
popolari a Cologno Monzese, in via Lombardia o in via Maroncelli a Sesto
San Giovanni, da dove è passata tutta Italia, e raccoglievi storie a
piene mani. Devo tutto alla cronaca”. Abruzzo gira con un registratore
superprofessionale che ha pagato (scontatissimo) 300mila
lire, una fortuna, e una Pentax. “La fotografia era ed è una notizia e
al Giorno se non portavi la foto giusta uccidevi la notizia”.
Un giorno mi dicono: Franco siamo deboli a Monza, devi andare a Monza. E io ci vado. Il Giorno è in lotta feroce con Il Corriere
e la sola cosa che conta è portare notizie, vere, credibili, e non
sbagliarne una. L’arma vincente è rendersi indispensabile”. E sono
storie che non si possono dimenticare. “Ricordo il muratore calabrese
che in un cantiere ammazzò tre bergamaschi con un fucile caricato a
pallettoni. Per capire questa vicenda tragica vado a casa del muratore,
alla Barona, e ci trovo una donna con una bimba poliomielitica. Tra le
lacrime mi racconta che sono saliti fino a Milano per far curare la
bimba. Ma i colleghi di lavoro con
scherzi pesantissimi tormentano il marito finché un giorno gli fanno
caricare una carriola che avevano attaccato alla corrente e lui per poco
non muore. Racconto il retroscena, la storia commuove e
la Procura incrimina il datore di lavoro. L’omicida finisce in
seminfermità a Castiglione delle Stiviere”. E poi la storia del
ferroviere di Lodi che ruba a mille lire per volta 10 milioni. Ha la
figlia gravemente malata e aspetta che arrivi a Milano un famoso
neurochirurgo svedese per farla operare. Quand’è il momento, il luminare
la visita e dice niente da fare. Lui restituisce tutti i soldi, quei
soldi, alle ferrovie ma viene incriminato. La storia da libro Cuore è
così toccante che interviene il Vescovo. E lui, condannato a Lodi, è
assolto in appello a Milano perché ha agito in stato di bisogno. Gli aveva dedicato una pagina la mattina del processo di secondo grado.
Ed
è Monza a segnare una svolta nella sua storia di cronista. “Qui c’era
il quinto tribunale d’Italia”. Diventa cronista giudiziario, viene
iscritto d’ufficio al Registro dei praticanti e supera l’esame di stato.
E di Palazzo in Palazzo eccolo arrivare al Palazzo di Giustizia di
Milano.
Sono gli anni del terrorismo, della mafia a Milano. Il 16 maggio 1974 la Guardia di Finanza arresta Liggio. “Il giorno successivo noi
usciamo con due pagine sui grandi latitanti, mi chiamano in Procura.
Che hai fatto?, mi dice il procuratore capo. Micale, mostrando le foto
di tutti i latitanti pubblicate sul giornale. Hai rovinato l’inchiesta.
Trovo ufficiali della finanza, dei carabinieri, della Ps. Rispondo:
andare in Galleria, c’è una bella libreria, è il Poligrafico dello
Stato, tutti possono acquistare 3 volumi sulla prima Commissione
antimafia. Lì c’è tutto. Che avevo fatto? Mi ero semplicemente
documentato”. È bulimico e appassionato. Legge e divora e non
s’accontenta mai della notizia in sé. Ed ecco il caso Fioroni. “La banda
politico criminale di Fioroni fa sequestra e ammazza Carlo Saronio,
giovane ingegnere milanese ricercatore presso il Mario Negri”.
Saronio era discendente di una famiglia di industriali farmaceutici, ex
proprietari delle Industri farmaceutiche Carlo Erba. “Uno della banda
confessa dove l’hanno seppellito. Andiamo, si scava, esce uno scheletro
con un tampone in bocca, nelle campagne tra Segrate e Vimodrone. Avevo
studiato un po’ di medicina legale, prendo libro del professor
Franchini, ricostruisco le dieci domande, le dieci possibili domande
che la Corte d’Assise ha posto ai periti. Il giorno dopo di nuovo mi
chiama la Procura. Ma cos’hai fatto? Quelle erano le domande del
presidente Antonino Cusumano ai periti. E io rispondo: forse abbiamo studiato sugli stessi libri”.
E scoppia il crac Sindona, settembre
1974. Abruzzo, che aveva trascorso l’estate studiando legge
fallimentare e legge bancaria (del 1936), diventa il “sindonologo”. Dopo
una campagna sistematica di stampa, i suoi articoli convincono la
Procura generale a costituirsi nel giudizio d’appello dell’insolvenza
‘nell’interesse della Nazione’. “Seguono gli anni terribili del
terrorismo. Ma al terrorismo ero arrivato preparato sul piano
storico-politico. Il 29 gennaio 1979, il giorno in cui fu ucciso il Pm Emilio Alessandrini, mi ritrovai nella lista di ‘quelli da uccidere” con Tobagi e Valiani, più 32 persone tra avvocati e magistrati. il mio nome era stato segnato anche da Corrado Alunni, catturato dalla polizia nel settembre del
’ 78. Poi il successivo primo ottobre ci fu l’operazione del generale
Dalla Chiesa che distrusse la colonna Alasia. La lista era stata
lasciata da un confidente dei carabinieri sotto una 500 in
viale Lombardia. Quel 29 gennaio 1979 fui chiamato di sera in Procura.
Mi dissero di rintracciare Tobagi e di avvertirlo. L’indomani il
Procuratore capo Mauro Gresti ci comunicò che eravamo soggetti a
rischio. Cambiò la mia vita e il mio lavoro. Rientrai in redazione come
caposervizio al Politico e poi ai Fatti della vita (la cronaca
nazionale).
“L’uomo del Giorno lascia Il Giorno” titolerà Prima Comunicazione quando Abruzzo passerà al Sole 24 Ore, direzione Locatelli,
il 5 dicembre 1983. Otto anni prima, quando Scalfari gli aveva offerto
un posto a Repubblica, che doveva nascere nel gennaio 1976, aveva
firmato il contratto e poi rinunciato. “Non me l’ero sentita di
lasciare un giornale con il quale mi identificavo”. Che l’aveva fatto
crescere. Cosa deve essere un cronista? ”Passionale, Innamorato del
lavoro, sempre in campana. La cronaca emoziona”. Cosa
non deve dimenticare?. “Il cronista è uno storico del presente, deve
consultare le fonti, scavare nella consapevolezza che ha poco tempo. Il
nemico è il tempo. Deve parlare con le fonti, con la gente, con i testimoni”.
“Intercettai
Tom Ponzi, sentito per spionaggio, perché ero lì, al piano terreno del
Palazzo di giustizia davanti agli uffici della polizia giudiziaria
(carabinieri). E stavo fino alle 2 di notte davanti al carcere per
aspettare gli avvocati. Sempre con l’ambizione di ricostruire le
storie”.
Racconta
di “Vallanzasca, quando fu rapita la figlia di un noto industriale del
mondo della bellezza. Il pm era un magistrato amico, che parlava uno
stretto dialetto meridionale. Non lo capivano. Ero io l’interprete. Un
giorno vedo il dossier. Ma come, gli dico, hai sul tavolo il diario
della rapita e non me lo fai leggere. Ho pubblicato per sette giorni
estratti del dossier, a puntate, Il Giorno toccò a Milano punte di
55mila copie. Altri tempi.
“Mi
hanno querelato i mafiosi della banda Liggio e io li denunciavo subito
per calunnia, sulla presunzione megalomane che avevo scritto la verità.
Tutti archiviati. Quando uno si sente al centro del mondo, ha un alto
sentire di se stesso. Era vita di grande ritmo. Era una vita bella.
Ricomincerei daccapo. Anche ora. Durante il processo Liggio, -
presidente del tribunale era Salvini con Colombo e Passerini giudici a
latere, Pm Giovanni Caizzi-, il vecchio capoclan mi attaccò
pubblicamente. Salvini pose una domanda. Io ero in piedi accanto allo
scranno del Pm. Liggio mi guardò e puntò il dito: “Queste
cose le ha scritte il segretario del pm”. Successe il finimondo, Finii
in tv. Durante quel processo mi rubarono anche l’Alfa Giulia. La mattina
in aula, don Coppola, cappellano della mafia, esclamò:
“Ma un cronista può girare la città a piedi?”. Gli altri sgignazzavano.
Sapevano tutto. Ho seguito la mia Giulia fino al porto di Catania, da
dove fu imbarcato per Beirut. Così mi assicurò l’avvocato di uno degli imputati. Era nuovissima e scattosa come tutte le Alfa.
Due episodi, però, illuminano il volto del vecchio cronista. Nei primi mesi del 70 è il salvataggio di 5mila alberi della curva di Lesmo dell’autodromo di Monza. “Andò così, dice Abruzzo, in piazza Trento e Trieste a Monza incontro un assessore socialdemocratico, Penati, che mi parla degli
alberi da tagliare per modificare la curva, E’ preoccupato. lo
tranquillizzo e gli dico: dammi la delibera, me la cavo con 10 righe.
All’indomani, Il Giorno pubblica di spalla in prima pagina un pezzone di
90 righe con un titolo su tre colonne. Succede il finimondo. Tifosi ed ecologisti vengono quasi alle mani. Penati mi rincorre e mi tocca giustificarmi dicendo che in redazione, a Milano, non capiscono nulla e che mi hanno costretto a scrivere quell’articolo lunghissimo. Penati la beve. La foresta di Lesmo è simile a quella del Gargano, ed è il resto di quella famosa foresta umbra (il nome "umbra" deriva dal latino e significa cupa, ombrosa) che 30mila anni
fa copriva tutta l’Italia. In redazione Mario Fossati, grande inviato
di ciclismo, monzese, mi fa festa. Avevo salvato i suoi alberi”.
Franco
Abruzzo è il cronista che rivelò il passaggio delle Brigate rosse ai
sequestri di persona. Era il maggio del ‘75 con un titolo in prima
pagina su quattro colonne. Tutti increduli. Abruzzo ha buone fonti nel
“collettivo” del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Verrà il 4 giugno la battaglia di Cascina Spiotta nell’alessandrino,
i carabinieri uccidono Mara Cagol, moglie di Curcio, e liberano
l’industriale vinicolo Vallerino Gancia. Muore l’appuntato D’Alfonso,
ferito gravemente il tenente Rocca (oggi generale dell’Arma). Fu una
battaglia violenta. Le br persero una base storica e il “comandante
Mara”. “Quel colpo giornalistico –osservo oggi Abruzzo – mi mise in luce
presso le br, che evidentemente presero nota del mio nome”.
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Franco Abruzzo/50 anni di giornalismo a Milano
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