La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

domenica 11 gennaio 2015

La città che ha divorato l’Italia

da il manifesto

La città che ha divorato l’Italia

Francesco Rosi. In occasione della morte di Francesco Rosi ripubblichiamo questo articolo di Alberto Ziparo, uscito sul manifesto del 25 agosto 2013 come anteprima dell'omaggio del Festival di Venezia al regista napoletano. (aggiornamento del 10 gennaio 2015)
In  occa­sione della morte di Fran­ce­sco Rosi ripub­bli­chiamo que­sto arti­colo di Alberto Ziparo, uscito sul mani­fe­sto del 25 ago­sto 2013 come ante­prima dell’omaggio del Festi­val di Vene­zia al regi­sta napo­le­tano. (aggior­na­mento del 10 gen­naio 2015)

Una scena da "Le mani sulla città" (1963)

Mar­tedì pros­simo, a Vene­zia, verrà pro­iet­tato «Le mani sulla città» di Fran­ce­sco Rosi, nella ver­sione restau­rata dalla Cine­teca Nazio­nale. Si cele­bra così il cin­quan­ten­nio del con­fe­ri­mento del Leone d’oro al capo­la­voro neo­rea­li­sta del regi­sta (sem­pre quel giorno Rai Movie ne offrirà visione in tv).
Com’è noto, Rosi denun­ciava lo sfa­scio urba­ni­stico e poli­tico di Napoli, in grande espan­sione in que­gli anni. Non poteva sapere – ma forse lo intuiva — che la sua opera avrebbe costi­tuito una magi­strale, anche se assai inquie­tante, pre­vi­sione circa i disa­stri delle poli­ti­che, non solo urba­ni­sti­che, che avreb­bero segnato l’Italia intera nel cin­quan­ten­nio suc­ces­sivo. Sfre­gian­done irri­me­dia­bil­mente quel volto «illu­mi­nato e gen­tile» colto dai viag­gia­tori del Gran Tour e che le era valso il sopran­nome di «Belpaese».
Nel film Rod Stei­ger (nei panni del costrut­tore e poli­tico Not­tola) che spiega come un ter­reno agri­colo «che vale 500 lire» se diventa edi­fi­ca­bile «ne vale 50.000» costi­tui­sce una sin­tesi mira­bile del ruolo della ren­dita spe­cu­la­tiva nella cre­scita urbana, più effi­cace di molte lezioni di ana­lisi urba­ni­stica. Il film spiega appunto il disfa­ci­mento della poli­tica rispetto agli inte­ressi della ren­dita spe­cu­la­tiva (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come «uti­liz­za­tore finale» di pic­colo cabotaggio).


Il film venne pre­miato con il Leone d’oro nel set­tem­bre 1963: un mese dopo si sarebbe regi­strato il disa­stro del Vajont, seguito dalla frana di Agri­gento e dall’alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimo­stra­vano già come la cre­scita urbana, pure ancora rela­tiva –e cir­co­scritta alle città grandi e medio grandi — avve­niva a sca­pito della sicu­rezza ter­ri­to­riale e della qua­lità ecopaesaggistica.
Nono­stante i disa­stri, i ten­ta­tivi di riforma urba­ni­stica e di «nuovo regime dei suoli» por­tati avanti dal demo­cri­stiano Fio­ren­tino Sullo con l’appoggio della sini­stra socia­li­sta e del Pci ven­nero bloc­cati, segnando addi­rit­tura la fine poli­tica dell’ex mini­stro. Le emer­genze ambien­tali della cre­scita ter­ri­to­riale por­ta­rono a una serie di prov­ve­di­menti nor­ma­tivi par­ziali, che nell’arco di un decen­nio, dal 1967 alla fine dei Set­tanta, avvia­rono un pro­cesso pure timi­da­mente rifor­mi­sta: la legge Ponte-Mancini sulla scis­sione tra diritto di pro­prietà e di super­fi­cie (1967); i decreti su zoning e stan­dard (’68); la legge sulla casa e gli espro­pri (1971); l’onerosità della con­ces­sione a costruire e degli oneri di urba­niz­za­zione (1977); l’avvio dei piani di recu­pero (1978).
Que­sta inten­zione – e i mode­sti ten­ta­tivi di pia­ni­fi­ca­zione pro­gres­si­sta che ave­vano com­por­tato– veni­vano fru­strati nel decen­nio suc­ces­sivo da una serie di sen­tenze della Corte Costi­tu­zio­nale che met­te­vano in discus­sione vin­coli urba­ni­stici e cri­teri di espro­prio. Annun­cia­vano gli anni Ottanta, con la crisi del wel­fare state e l’avvio di un ven­ten­nio abbon­dante di iper­con­su­mi­smo e una sorta di con­tro­ri­forma urba­ni­stica, intro­dotta dalle sen­tenze citate e con­ti­nuata con i ten­ta­tivi di svuo­tare le capa­cità pre­scrit­tive dei piani con la cosid­detta «pro­gram­ma­zione con­cer­tata», in nome di un «Nuovo», che invi­tava a «Fare», ma in realtà a con­su­mare senza senso né limiti, anche il ter­ri­to­rio. E meno male che di lì a poco esplo­deva anche in Ita­lia la «que­stione ambientale».
In realtà, le cri­ti­cità urbane e le «mani sul ter­ri­to­rio» non si erano mai fer­mate; la ren­dita spe­cu­la­tiva, agra­ria ed edi­li­zia, diven­tava prima indu­striale, poi com­mer­ciale e infra­strut­tu­rale, infine finan­zia­ria: la sem­plice ope­ra­zione di tra­sfor­ma­zione diven­tava un affare, con i rela­tivi lavori più o meno grossi; migliore, se la nuova, anche ipo­te­tica desti­na­zione d’uso, tro­vava dei poten­ziali inve­sti­tori. Neu­tra­liz­zata la pia­ni­fi­ca­zione effi­cace, razio­nal­mente basata sulla domanda sociale, la «città dif­fusa» per­va­deva sem­pre più i vari ambiti del ter­ri­to­rio nazio­nale: una blob­biz­za­zione cemen­ti­zia indu­striale che can­cel­lava il pae­sag­gio, sep­pel­liva i beni cul­tu­rali, degra­dava l’ambiente, deterritorializzava.
L’ex Bel­paese è diven­tato così il Ben­godi delle costru­zioni e del con­sumo di suolo: lad­dove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quin­tu­pli­cati i volumi urba­niz­zati, e in Europa si è regi­strata una cre­scita di quasi otto volte, in Ita­lia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni del Sud ad alta den­sità mafiosa l’incremento è di oltre 13 volte!
Così, men­tre si inten­si­fi­ca­vano i disa­stri sismici ed idro­geo­lo­gici di un ter­ri­to­rio for­te­mente inde­bo­lito dalla cemen­ti­fi­ca­zione, la quota di suolo nazio­nale con­su­mato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di super­fi­cie (rad­dop­pio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si pro­du­cono costru­zioni per una domanda ine­si­stente (oltre 25 milioni di stanze vuote), men­tre il biso­gno sociale di abi­ta­zioni per­mane inevaso.
Certo, que­sto è dovuto anche al fal­li­mento della poli­tica: il film di Rosi rap­pre­sen­tava per­fet­ta­mente il dis­sol­vi­mento dell’etica e della razio­na­lità sociale che dovrebbe carat­te­riz­zare la gestione della cosa pub­blica: il sistema deci­sio­nale viene prima cir­cuito, poi incor­po­rato dall’offerta di tra­sfor­ma­zione urbana e ter­ri­to­riale, det­tata da inte­ressi spe­cu­la­tivi. Fin­ché –a par­tire dagli anni Novanta– una gover­nance «ubria­cata di pseu­do­li­be­ri­smo» se ne fa stru­mento dichiarato.
Oggi le poli­ti­che urbane e ter­ri­to­riali ai diversi livelli sono spesso extrai­sti­tu­zio­nali, det­tate dalle imprese e soprat­tutto dagli isti­tuti finan­ziari. Carlo Fer­ma­riello, che nel film rap­pre­senta se stesso, è un’icona della buona poli­tica legata alla reale domanda sociale: figura sem­pre più rara, poi quasi spa­rita, dalle nostre assem­blee elettive.
Per tutto que­sto – ha ragione Roberto Saviano– il film resta un capo­la­voro, «una grande rap­pre­sen­ta­zione non solo di Napoli, ma dell’Italia, anche di oggi». Anche se oggi forse Rosi gire­rebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra par­la­mento e ministeri.
(Arti­colo ori­gi­nale pub­bli­cato sul mani­fe­sto digi­tale il 24 ago­sto 2013 alle 18.11, sul mani­fe­sto in edi­cola il 25 ago­sto 2013)






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