CULTURA
Meritocrazia: il privilegio è solo di classe
Saggi. Torna fra gli scaffali, con le edizioni di Comunità, «L'avvento della meritocrazia» di Michael Young. Il libro, che uscì nel 1958, già smontava l'idea della scalata sociale, paventando uno stato totalitario post-orwelliano
Per Michael Young, autore de L’avvento della meritocrazia, ripubblicato recentemente dalle Edizioni di Comunità (pp. 232, euro 15), la meritocrazia è un regime totalitario dove la posizione di un individuo viene determinata in base ai test di intelligenza somministrati dalla scuola elementare in poi e dove la ricchezza e il potere vengono distribuiti da una casta di «meritocrati» ancora più opprimente e arrogante delle oligarchie che oggi sfruttano privilegi nepotistici o espropriano la ricchezza comune con la corruzione e criminalità.
Questo saggio satirico, o distopia, fu scritto nel 1958, e immagina il futuro disperante delle società capitalistiche nel 2033, anno in cui il popolo si ribellerà sanguinosamente contro i meritocrati al potere. Ripubblicarlo oggi significa restituire l’onore perduto a un grande laburista, impegnato attivamente con il governo Atlee sin dal secondo Dopoguerra, poi diventato Lord di Dartington. Ispirandosi al suo libro, ma modificandone profondamente il significato, il «New Labour» di Tony Blair portò a compimento un’operazione culturale di cui ormai abbiamo compreso il significato.
L’ancora oggi celebrato (dal Pd di Renzi) corifeo della «terza via» trasformò infatti la meritocrazia in un’attitudine dell’individuo e non dello Stato. Fino ad allora la meritocrazia era stata concepita da Friedrich Von Hayek come una società burocratizzata antitetica al potere dei capitalisti di valutare il merito e il potenziale produttivo dei loro dipendenti. Blair cercò di imporre tre nuovi significati: la meritocrazia non richiede un intervento amministrativo; la competizione nella meritocrazia va incoraggiata; non viene richiesta una perfetta distribuzione delle competenze perché il mercato ha il potere di vita o di morte sull’individuo. Così facendo, l’incubo post-orwelliano di uno Stato totalitario immaginato da Young diventò l’etica del cittadino contemporaneo: un piccolo «imprenditore di se stesso» disponibile a tutto pur di «meritare» una posizione di primo piano sul mercato.
In quest’accezione, la meritocrazia è stata importata in Italia. I buoni uffici dell’ex manager McKinsey Roger Abravanel, raccolti nel best-seller Meritocrazia, rappresentarono la cassa di risonanza per la disastrosa riforma Gelmini della scuola e dell’università. A quattro anni dalla sua imposizione, il suo sistema mostra tare irreversibili. Nell’università ha imposto invenzioni meritometriche quali le mediane, la classificazione delle riviste o la Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr). Esempi di prassi scientificamente inaffidabili, disfunzionali e incapaci di garantire ogni criterio di efficienza sul piano dell’attuazione. Nella scuola, il progetto di Renzi di stravolgere la carriera degli insegnanti imponendo gli scatti meritocratici al posto di quelli di anzianità è stata respinta dalla consultazione online sulla «Buona scuola». Un boomerang che ha costretto il governo a fare marcia indietro.
Per Young la meritocrazia è sinonimo di un potere arbitrario in un sistema che tende ad autodistruggersi. Lo Stato moderno è incapace, almeno quanto lo è il mercato, di determinare un’equa redistribuzione delle competenze e dei meriti. Più che un sistema efficiente, la meritocrazia indica l’attitudine di una classe dominante che rende i suoi esponenti impermeabili ad ogni critica o a slanci verso una redistribuzione sociale che non sia quella imposta dall’interesse di classe. Una tesi sostenuta da Young in un articolo pubblicato sul Guardian nel 2001, intitolato «Abbasso la meritocrazia». Facendo i conti con Blair, Young sostenne che la meritocrazia non serve a migliorare le prestazioni di un sistema, ma semmai a peggiorarle in una burocrazia kafkiana. Essa afferma il senso di superiorità basato sul privilegio della proprietà, sulle rendite di posizione e sulla centralità acritica e indiscutibile dell’impresa. La meritocrazia serve «ad alimentare un business che va di moda — scrive Young — Se i meritocrati credono che il loro avanzamento dipende da ciò che gli spetta, si convinceranno che meritano qualsiasi cosa possono avere». «I nuovi arrivati oggi possono davvero credere di avere la moralità dalla propria parte».
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