Gianluca Paciucci, Storie al femminile. Terni
Fare
storia avendo come protagoniste una città operaia e le sue donne. Un
modo di fare storia che speriamo si diffonda e superi quella visione di
genere (anche quando scritta da donne) della narrazione storica che di
fatto ha cancellato (o al massimo relegato in ruolo complementare)
l'apporto femminile alla lotta di Liberazione.
Gianluca Paciucci
Il
volume di Bruna Antonelli, Terni. Donne dallo squadrismo fascista alla
Liberazione (1921-'45). Appunti per una storia (CRACE, Città di
Castello, 2011, pp. 434), è un buon volume di storia politica e sociale
che ha per protagoniste tante donne, e una città operaia. Studiata già
in modo pregevolissimo da Alessandro Portelli, Terni viene ulteriormente
illustrata da questo testo della studiosa umbra, docente di filosofia e
consigliera comunale tra il 1970 e il 1985. Si tratta di una ricerca in
corso, di “appunti” per una storia, corredati da buoni testi
introduttivi, da documenti fotografici e biografie, che forniscono
materiali di rilievo per capire una realtà ricca e articolata.
Nella
premessa dell'autrice, vengono sottolineate innanzitutto le difficoltà
di “scavare nella storia femminile” per “carenza di fonti archivistiche”
e “mancanza di una memorialistica e diaristica femminile” (p. XXIX). Se
le classi subalterne, per secoli, sono state immerse nell'oblio e nel
silenzio di una vicenda raccontata da altri e, se rappresentate, sono
state oggetto di pesante dileggio (satira anti-villana), disprezzo o
soggetto di paura (classi lavoratrici e/o teppa, come classi pericolose
per natura), alle donne è toccata una sorte ancora peggiore: la
cancellazione, oppure la riduzione a ruoli creati dal discorso egemone,
anche da quello egemone all'interno di quei mondi che avrebbero
potuto/dovuto elaborare un'altra narrazione, e cioè all'interno delle
varie sinistre. I muscoli di Spartaco che spezzano le catene del
servaggio, l'iconografia del Maschio anarchico, e poi socialcomunista,
dentro una virilità prepotente, fino ai vari uomini di marmo e di ferro
dei regimi dell'Est europeo, hanno spesso rappresentato l'unico
protagonista della possibile liberazione: il Maschio poi avrebbe
liberato anche la Donna, l'avrebbe emancipata, con atto magnanimo e
sentimentale. Vene di protagonismo femminile, invece, sono esistite da
sempre, e da sempre occultate a forza dai cani da guardia della storia e
della politica.
Ma
anche questo nostro lamento potrebbe far parte della strategia di
occultamento, dato che tende a sottolineare le assenze dalla storia,
invece che evidenziare le numerose e splendide presenze, volitive, a
testa alta e franca, di donne capaci di vivere, far vivere e insorgere:
come hanno sempre fatto, prima che fascismi d'ogni scuola le relegassero
al ruolo di “angeli del focolare”. Questo è il punto forte dell'opera
di Bruna Antonelli: fin dalla già citata premessa, l'attenzione si
appunta su alcune fabbriche ternane, come ad esempio la Gruber
(lanificio) e la Centurini (jutificio) con manodopera prevalentemente
femminile (con il culmine dell'85% nel 1940), che vengono seguite nella
loro evoluzione dalla Prima alla Seconda guerra mondiale. Belle le
citazioni dal periodico anarcosindacalista “La Sommossa” (anni
1914-'16), in cui le “operaie anarchiche della Centurini, le quali al
massimo avevano frequentato la IV elementare” esprimevano una forte
coscienza di classe e di genere denunciando l'oppressione di classe,
l'oppressione di sesso nei luoghi di lavoro, l'oppressione sociale,
l'oppressione di sesso nella famiglia e infine promuovevano la
solidarietà tra donne (pp. XXX-XXXIII).
Il
fascismo arriva anche a Terni, con violenza lucida ed efficace:
conquistare un bastione operaio, con un forte movimento anarchico e
socialcomunista, era una delle sfide che padroni-teppisti sapevano di
dover vincere per impossessarsi del potere. Vinta la sfida e instaurato
il regime, Mussolini e i suoi si diedero a organizzare l'ordine nero.
Quello che l'autrice definisce “antifemminismo fascista” (p.35) si
concretizza in una serie di leggi di cui viene fornito un dettagliato
elenco: dall'esclusione delle donne da alcune professioni (presidi -se
non in Istituti femminili, 1934-, docenti di latino, italiano, greco,
storia ed economia politica in tutti gli Istituti superiori) e da
funzioni pubbliche (segretario comunale, podestà, amministratore di
consorzio), alla creazione di percorsi separati (riservati alle donne i
concorsi per l'insegnamento nella scuola primaria) e alla invenzione di
“quote rosa” al contrario (assunzione delle donne limitate al 10% nelle
pubbliche amministrazioni, ad esempio). Quanta strada dal pur ambiguo
programma di Sansepolcro del 1919, in cui si prevedeva “voto ed
eleggibilità per le donne” (p. 3), all'articolo apparso sul quindicinale
dei Fasci di combattimento di Terni “Acciaio” del 18 maggio 1935 in cui
si legge di Paesi che “hanno la disgrazia del suffragio femminile” e si
riportano frasi del duce come “La donna deve obbedire”, per concludere
che “essere regina della casa e della famiglia: questo è il vero e
legittimo regno e diritto della donna. Il resto sono scempiaggini
immorali, un carnevale con donne mascherate da uomini, con donne in
calzoni” (p. 39). Per riassumere: subalternità e sfruttamento sanciti
per legge, angelizzazione/demonizzazione e figli alla patria. Ma le
donne non ci stanno, antifasciste e antifascisti, soprattutto nelle
organizzazioni comuniste che, clandestinamente, riescono a tenere in
vita speranze e reti anche durante gli anni più duri della dittatura.
Molto
robusta e documentatissima è la sezione che Bruna Antonelli dedica alla
Resistenza nell'Appennino Umbro-laziale-marchigiano, e all'attività
della brigata garibaldina “Antonio Gramsci”. Sul ruolo delle donne in
questa fase, l'autrice non condivide la lettura di Maria Rosa
Cutrufelli, nel suo L'invenzione della donna (1974), secondo cui le
donne non hanno compiuto “una scelta politica realmente autonoma (...).
La ragazza si trova nella lotta perché il fratello, il padre e l'amico
sono partigiani e chiedono il suo aiuto, la moglie e la madre seguono il
marito o il figlio in montagna...”. Commenta Bruna Antonelli: “Mi pare
che con queste valutazioni si limiti in modo sbrigativo il fenomeno
della partecipazione delle donne a quell'importante fatto storico che è
stato la Resistenza in Italia. Pertanto è subito doveroso sottolineare
alcuni aspetti degni di nota: il carattere diffuso, di massa della
partecipazione femminile, la varietà e la ricchezza delle sue
manifestazioni, il fatto che essa è stata sia 'indotta' dai propri cari,
sia 'un fatto spontaneo', sia 'azione organizzata'. Ma questi tre modi
di essere dell'azione resistenziale delle donne spesso si integrano
saldamente nelle scelte dei soggetti femminili della Resistenza”
(pp.348-9), come si evince da una delle principali fonti per ricostruire
la vicenda della lotta di Liberazione nel ternano che è il Diario di
Alfredo Filipponi, comandante della brigata “Gramsci”.
E
continua: “...Le donne sentirono quello 'stimolo all'azione' e si
misero 'a disposizione' in prima persona per tutto ciò che sapevano
fare, che avevano sempre fatto, e in ciò che non avevano mai fatto:
imbracciare un fucile e combattere il nazifascismo...”. E assunsero
ruoli determinanti, anche nella contestazione nei fatti dell'impronta
virile (il Maschio rivoluzionario diventato Maschio combattente) che la
Resistenza si era data, e che si darà la nuova Repubblica italiana (i
Padri costituenti), nonostante il suffragio veramente universale che
essa si diede dal 2 giugno 1946. In questo senso abbiamo un'ulteriore
smentita delle sprezzanti parole dei fascisti: la Resistenza delle donne
non fu un carnevale, non una mascherata di donne in calzoni a imitare
una mascolinità evidentemente concepita come completamento e scopo; fu
piuttosto un radicale tentativo di rovesciamento dell'esistente (in
casa, in fabbrica, nei campi, nelle istituzioni) che, sia pure
osteggiato e combattuto dal dopoguerra a oggi, ancora dà frutti, per chi
sappia coglierli.
Numerose
testimonianze orali vengono riportate nel volume, e utilissime, oltre
che toccanti, sono le biografie/autobiografie riportate in appendice. Il
fascismo smentisce persino la sua ipocrisia: durante la guerra “le
donne entravano massicciamente, contro la mistica fascista della donna
'angelo del focolare', in tutte le fabbriche ternane”, e quella famiglia
a parole cullata dal regime, subisce un “attacco distruttivo” (pp.
235-6), sotto forma di richiamo alle
armi/rastrellamenti/sfollamento/assenza di notizie dai congiunti, etc.
La Resistenza invece costruisce nuovi nuclei familiari, allargati a
uomini e donne di diversa provenienza, e nuove solidarietà, che
resisteranno anche al dopoguerra, alle paure, alle scissioni, alla furia
della restaurazione democristiana come alle lotte interne al movimento
operaio.
Una
donna si erge a simbolo di questa fase: si tratta della goriziana Marta
Pahor, arrivata a Norcia dopo varie peripezie e che, come centinaia di
jugoslave/i internati dal fascismo in Italia, partecipò alla lotta di
Liberazione nel nostro Paese1. Le belle foto riprodotte nel libro
parlano da sole (pp. 273-287): in una Marta Pahor è una sorridente
paesana con grembiale e brocca sulla spalla, e con eleganti collane
sulla camicetta estiva; in un'altra ha un pesante maglione, pantaloni
(si intuisce, anche se la foto non la mostra per intero), fondina per la
pistola e cartucciere, e il sorriso è lo stesso. La 'paesana' è
diventata 'partigiana', e ha assunto un ruolo di primo piano nella
Brigata “Gramsci”. La paesana-partigiana, notiamolo non tanto per
inciso, è “a conoscenza di 5 lingue, compreso l'italiano” (dal Diario di
Filipponi), è partigiana combattente, ma anche interprete, traduttrice e
stenodattilografa. Finirà la sua vita a New York, dopo il matrimonio
con uno statunitense conosciuto a Trieste o a Vicenza. Marta Pahor
chiude e riapre la vicenda del libro che stiamo recensendo: dalle
operaie anarchiche della Centurini intorno al 1914, forse incolte
secondo i canoni dominanti, ma lucide nell'analisi e ferme nella
ribellione, a questa donna forte e intelligente, colta e poliglotta, per
stringersi la mano nella lotta ai fascismi e al patriarcato, in nulla
omologandosi al maschile, ma lanciando una sfida ai padri-padroni di
tutto, anche della memoria operaia e resistenziale.
Un'altra
donna emerge, ma come donna-nera, con i connotati tipici della dark
lady, della donna perduta nel tritacarni della famiglia,
dell'ingiustizia e della storia: è Rosa Cesaretti, nata in un borgo
vicino Rieti, Cumulata di Leonessa, e poi andata a 'far la serva' a
Roma, amante di boss, prostituta e infine, rientrata nel suo paese che
ormai -ricambiata- odiava, collaboratrice dei nazifascisti fino a
diventare delatrice e protagonista di un tragico episodio che portò alla
strage del 4 aprile 1944, in cui vennero uccise 11 persone. Rosa
Cesaretti finì la vita il 9 febbraio 1945 suicidandosi a Breslavia, dove
era arrivata al seguito del tenente nazista Wolf, da cui aveva appena
avuto un figlio. Non una “disperata vicenda di emancipazione”, come
sostiene Ernesto Galli Della Loggia, ma una spaventosa conferma di tutte
le vessazioni e crudeltà possibili, non fuga dal patriarcato, ma
consolidamento -fino al crimine commesso e subito- di tutti i ruoli
dell'oppressione maschilista.
Altre
storie danno altre vie d'uscita: quelle di Ines Zenoni di Papigno
(borgo operaio vicino Terni) e della reatina Elettra Pollastrini,
riportate in fine volume, antifasciste e comuniste. Ma un'ultima vicenda
ci fa ragionare sul disastro del dopoguerra: “Nonostante i sacrifici
delle donne ternane durante il fascismo e la guerra, quei partiti 'di
classe', che avrebbero dovuto dare loro pieno riconoscimento di
cittadinanza” candidarono solo due donne, una il PCI e una il PSI.
“Nessuna delle due fu eletta nel 1946 al Consiglio Comunale” (p. 400),
chiude seccamente Bruna Antonelli. Questo ci dimostra che il sentiero
delle lotte di liberazione venne interrotto pressoché da subito, e che
c'è il dovere di riprenderle oggi, dopo la chiusura dell'importante
ciclo degli anni Settanta.
Bruna Antonelli
Terni. Donne dallo squadrismo fascista alla Liberazione (1921-'45). Appunti per una storia
CRACE, Città di Castello, 2011
20 euro
Gianluca
Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante
nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha
lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è
stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal
2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi
extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e
presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile
dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli
Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre
raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka,
2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’
“Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico
“Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e
con la "Casa della Poesia".
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