La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

martedì 1 luglio 2014

Il mondo perduto dei follower secondo Bauman

Il mondo perduto dei follower secondo Bauman

Intervista . Un incontro con Zygmunt Bauman, in Italia per ricevere il premio Hemingway. «All'inizio ci furono i walkman, adesso i social network. Le nuove tecnologie cancellano l'impegno del dialogo»
L’ ultimo «ter­ri­to­rio» che Zyg­munt Bau­man ha comin­ciato ad esplo­rare è quello della Rete. Uno spa­zio dove tutte le com­po­nenti di quell’affresco sulla moder­nità liquida sono evi­denti, ma sono assem­blate in modo tale da assu­mere una «natu­ra­lità» che mal si accom­pa­gna con la rifles­sione dello stu­dioso che con­si­dera, invece, la moder­nità liquida come una «pro­du­zione» dell’umano stare in società. La dis­so­lu­zione dei legami sociali (le isti­tu­zioni della socia­lità, scri­ve­rebbe Georg Sim­mel), la crisi dei con­fini nazio­nali non sono quindi un dato di natura, bensì l’esito delle rela­zioni sociali. Per Bau­man, que­sti ele­menti hanno nella Rete una esem­pli­fi­ca­zione evi­dente, che getta tut­ta­via luce sulle ambi­va­lenze dei sen­ti­menti, i modi d’essere, gli stili di vita pre­senti nelle società con­tem­po­ra­nee. In Ita­lia, per rice­vere il pre­mio Heming­way, Bau­man ha fatto il punto sulla sua esplo­ra­zione del cyber­spa­zio. Ed è da qui che prende l’avvio l’intervista.
Due sono i temi affron­tati nella «lec­tio magi­stra­lis» che ha tenuto in occa­sione del Pre­mio Heming­way che le è stato con­fe­rito a Lignano Sab­bia­doro: il primo riguarda le impli­ca­zioni vischiose della nuova «casetta» online che la mag­gior parte di uomini e donne, oltre­ché la quasi tota­lità dei nativi digi­tali, ormai abita. Par­ti­rei da qui, e dai rischi evi­den­ziati dallo scrit­tore sta­tu­ni­tense da Don DeLillo fin dagli anni Set­tanta di una tec­no­lo­gia capace di sgu­sciare fra le dita di chi si illude di usarla. Sem­pre più quelle tec­no­lo­gie si pre­sen­tano come una forza cieca e invin­ci­bile che sta asser­vendo l’umanità, det­tando l’agenda sociale, costrin­gendo uomini e donne a cor­rere per com­prare l’ultima irri­nun­cia­bile novità.
Le riper­cus­sioni della pre­va­lenza dell’online sull’offline sono ben lungi dall’essere state colte dalla mag­gior parte della gente. Oggi vivere online è qual­cosa che tende ad essere dato per scon­tato e apprez­zato. Le nuove tec­no­lo­gie sono utili, si sostiene, ci sem­pli­fi­cano la vita, ci con­net­tono con mondi che fino a poco tempo fa si pote­vano sol­tanto imma­gi­nare men­tre oggi sono final­mente dispo­ni­bili, a por­tata di click. Ampliano le nostre cono­scenze, ci arric­chi­scono di infor­ma­zioni e di espe­rienze, ci «aumen­tano» e miglio­rano indi­scu­ti­bil­mente la nostra vita. Chi vor­rebbe un lento calesse invece di una potente auto­mo­bile che può sfrec­ciare a due­cento all’ora? Chi sarebbe dispo­sto nelle rela­zioni a distanza ad atten­dere l’arrivo di una let­tera di rispo­sta quando l’interscambio gra­zie alla posta elet­tro­nica può essere istan­ta­neo?
Se ci si ferma a que­sti aspetti super­fi­ciali, non vale la pena discu­terne, i van­taggi dell’online sono autoe­vi­denti. Se però ci si sof­ferma a riflet­tere sulle sette ore al giorno che i gio­vani pas­sano in media a usare le nuove tec­no­lo­gie, sulla radi­cale tra­sfor­ma­zione delle rela­zioni che hanno total­mente ban­dito l’impegno – con gli oneri che com­porta ma anche con lo spes­sore e la pro­fon­dità che con­sente – e che hanno sosti­tuito al dia­logo un’infinità di casse di riso­nanza indi­vi­duali che rie­cheg­giano nei social net­work dove non ci sono più inter­lo­cu­tori ma fol­lo­wer, qual­che domanda sorge inevitabilmente.
Jona­than Fran­zen ne ha par­lato nel suo penul­timo libro «Più lon­tano ancora» di que­ste casse di riso­nanza: «Diven­tare amico di una per­sona su Face­book signi­fica sem­pli­ce­mente inclu­derla nella nostra per­so­nale sala degli spec­chi adu­la­tori». Nei suoi libri lei ha descritto la genesi di que­sta muta­zione antro­po­lo­gica che ha incluso, nei suoi pas­saggi, anche il walk­man di cui aveva scritto nelle «44 let­tere dal mondo liquido»…
È abba­stanza tipico svi­lup­pare una dipen­denza dalle inno­va­zioni tec­no­lo­gi­che. Le mie figlie, da pic­cole, erano rima­ste ipno­tiz­zate dalla tele­vi­sione allo stesso modo in cui oggi si subi­sce la fasci­na­zione degli smart­phone e degli iPhone. Ma la tele­vi­sione una volta si guar­dava in com­pa­gnia. L’avvento del walk­man, invece, ha già con­tras­se­gnato una ster­zata verso il mondo indi­vi­dua­liz­zato in cui viviamo, dove viene richie­sto a cia­scuno di tro­vare solu­zioni indi­vi­duali per i pro­blemi glo­bali di quest’era e dove, di con­se­guenza, si accen­tua la ten­denza a rin­chiu­dersi nel pro­prio boz­zolo. Lo slo­gan con cui si pro­muo­ve­vano i walk­man era: «Mai più soli!». I ragazzi, e via via sem­pre più adulti, da quel momento pote­vano andar­sene in giro con le cuf­fie ad ascol­tare la musica o un pro­gramma che facesse loro com­pa­gnia in modo per­ma­nente. Mail mes­sag­gio era dop­pia­mente ingan­ne­vole per­ché già il fatto di affer­mare «Mai più soli!» pre­sup­po­neva che fino ad allora fos­sero stati, appunto, soli, e soprat­tutto l’ascolto indi­vi­duale diven­tava una sorta di guscio pro­tet­tivo che li allon­ta­nava dalla pos­si­bi­lità di incon­tri con altre per­sone.
In sostanza, non è che non si fosse più soli: ci si sen­tiva non più soli. L’arrivo trion­fale degli iPhone e dei social net­work ha rista­bi­lito i con­tatti con gli altri, cen­tu­pli­can­doli, sol­tanto in appa­renza, giac­ché que­sta moda­lità di rela­zione esalta il pro­prio nar­ci­si­smo e non con­sente affatto di imba­stire veri dia­lo­ghi. In fondo che cos’è un dia­logo se non un con­fronto con qual­cuno che la pensa diver­sa­mente da noi? Un esem­pio auten­tico di dia­logo è quello tenuto da papa Fran­ce­sco con Euge­nio Scal­fari. Diven­tato papa, Fran­ce­sco è andato a par­lare, nella sede di un gior­nale laico come Repub­blica, con un gior­na­li­sta dichia­ra­ta­mente ateo. Ne sono usciti entrambi arric­chiti, come avviene quando si discute con qual­cuno che la pensa diver­sa­mente da noi. Su Face­book si col­tiva solo il pro­prio narcisismo.
Il secondo argo­mento su cui si è foca­liz­zato è la pre­gnanza della let­te­ra­tura per la con­sa­pe­vo­lezza delle per­sone e i suoi rap­porti, piut­to­sto stretti, con la socio­lo­gia. Nel suo ultimo libro, «La scienza della libertà», vi è men­zio­nato un socio­logo, Char­les Wright Mills, di cui è appena stata ristam­pata dal Sag­gia­tore la sua opera più impor­tante, «L’immaginazione socio­lo­gica», che porta benis­simo i suoi 55 anni di età, e poi tro­viamo due roman­zieri: Milan Kun­dera, che una decina di anni fa, ne «Il sipa­rio», aveva invo­cato la neces­sità di strap­pare il sipa­rio delle pre­in­ter­pre­ta­zioni, e Michel Houel­le­becq, che ne «La pos­si­bi­lità di un’isola» ha scritto una disto­pia poten­tis­sima para­go­na­bile a quelle di George Orwell, «1984», e Aldous Hux­ley, «Il mondo nuovo». Può spie­gare per­ché la let­te­ra­tura e il cinema d’autore come quello di Michael Haneke sono appa­ren­ta­bili alla sociologia?
Mills aveva com­preso i peri­coli che cor­reva la socio­lo­gia nel suo ten­ta­tivo di costruirsi un’immagine di scienza «a tutto tondo», quella per inten­derci pre­co­niz­zata da Max Weber, dimen­ti­cando la sua voca­zione di scienza della con­ver­sa­zione con gli esseri umani al ser­vi­zio degli esseri umani. Senza l’immaginazione, senza sof­fer­marsi a guar­dare quel che suc­cede là fuori, è impos­si­bile com­pren­dere come le pro­ble­ma­ti­che per­so­nali siano legate a dop­pio filo a que­stioni pub­bli­che. L’immaginazione socio­lo­gica rende ciò che è per­so­nale poli­tico. Il rischio a cui ancora oggi è espo­sta la socio­lo­gia è quello di limi­tarsi all’autoreferenzialità, a trin­ce­rarsi nel gergo ini­zia­tico degli addetti ai lavori che si par­lano, pre­va­len­te­mente di que­stioni astratte e quan­ti­ta­tive, dimen­ti­cando che i loro veri inter­lo­cu­tori sono le per­sone e che il dia­logo va imba­stito e col­ti­vato con loro, non nell’acquario dei socio­logi.
Un socio­logo degno di que­sto nome parla con la «gente», legge romanzi, guarda la tele­vi­sione e non si limita a teo­riz­zare insieme ai suoi col­le­ghi. Mostra come la vita per­so­nale e la bio­gra­fia indi­vi­duale siano inti­ma­mente con­nesse agli eventi sto­rici e ai pro­cessi strut­tu­rali e induce le donne e gli uomini a inter­ro­garsi sul que­sito fon­da­men­tale for­mu­lato da John Max­well Coe­tzee nel suo Dia­rio di un anno dif­fi­cile: «di certo il mer­cato non l’ha fatto Dio – Dio o lo Spi­rito della Sto­ria. E se lo abbiamo fatto noi, esseri umani, non dovrebbe essere pos­si­bile disfarlo e rifarlo in forma più accet­ta­bile?». È per que­sto che è neces­sa­rio strap­pare il «sipa­rio magico» di Kun­dera, come aveva fatto Cer­van­tes con il Don Chi­sciotte, per sgom­brare il campo dai pre-giudizi, dalle pre­sunte verità che ci ven­gono amman­nite quo­ti­dia­na­mente dagli imbo­ni­tori che ci ren­dono sem­pre più cie­chi e più schiavi, per recu­pe­rare nuove poten­zia­lità umane dall’oscurità in cui erano spro­fon­date e allar­gare in que­sto modo il regno della libertà umana.
fonte il manifesto


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