da il manifesto
ALIAS
Luzi, sperimentalismo per via toscana
Aragno . Raccolta di «prose» del poeta ermetico fiorentino. Dopo una fase vertiginosa e lirica il Luzi prosatore insegue sempre più la chiarezza esatta del «suo» paesaggio senza tempo: anzi gotico e antico
Quando un poeta scrive in prosa ha due possibilità: emanciparsi
dai modi (e più raramente dai temi) già praticati in versi, oppure confermarli
in altra veste. Montale, per citare il massimo esempio novecentesco,
è andato più vicino alla prima opzione, dotandosi per la scrittura narrativa
e giornalistica di uno stile lontano da quello sublime di Occasioni e Bufera. Sereni invece
è rimasto in prossimità dell’altra opzione, quasi rovesciando il rapporto
tra i due generi: nel senso che, in certi casi, la forma secondaria sembra
quella poetica, che affiora idealmente o materialmente (testimoni le
carte e gli scritti dell’autore) da una prosa mentale lungamente rimuginata.
Il caso di Mario Luzi è diverso: per lui entrambe le opzioni sono state disponibili, avvicendandosi nel tempo senza annullarsi reciprocamente. Questa caratteristica si apprezza ora con migliore evidenza leggendo l’ampia raccolta di scritti narrativi e di viaggio, pubblicati insieme agli elzeviri e ai ricordi di amici: Mario Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino (Nino Aragno Editore, pp. 383, euro 20,00).
Il caso di Mario Luzi è diverso: per lui entrambe le opzioni sono state disponibili, avvicendandosi nel tempo senza annullarsi reciprocamente. Questa caratteristica si apprezza ora con migliore evidenza leggendo l’ampia raccolta di scritti narrativi e di viaggio, pubblicati insieme agli elzeviri e ai ricordi di amici: Mario Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino (Nino Aragno Editore, pp. 383, euro 20,00).
Nel
volume, che esce opportunamente nel centenario della nascita del poeta,
confluiscono testi diversi: l’edizione di Trame (1982), di cui fa parte anche la Biografia a Ebe (1942), da Luzi stesso definita
nella nota conclusiva un«parallelo e controcanto» in prosa del suo
libro di poesia Avvento
notturno (1940); una
serie di prose scelte dall’autore nel 2004, che avrebbero dovuto far parte di
una nuova edizione, poi non realizzata (De quibus e altro, in
cui rientra anche un vivido ricordo di Tommaso Landolfi); altre prose
disperse in pubblicazioni di non facile reperibilità o addirittura
recuperate in forma di file e trascritte dai collaboratori
di Luzi. (Esempio, quest’ultimo, di filologia digitale che avrà sempre maggior
rilievo nell’ambito degli studi su autori contemporanei, per cui alcuni centri,
come Pavia, stanno mettendo a punto strutture e protocolli
appositi).
Il «bisogno
di impiegare la prosa» scriveva ancora Luzi nella nota finale diTrame,
era dettato dal desiderio di «stare, anche analiticamente, più addosso
alle cose, per studiare da vicino certi tratti […], per ricondurre il linguaggio
della poesia a una nuova partenza o per dargli una più duttile
e naturale articolazione». Un’esigenza avvertita dapprima intorno al
biennio 1943-’44 e poi dieci anni dopo; comunque dopo la prosa lirica,
stilisticamente vertiginosa e irripetibile (anche perché improponibile
fuori dalla temperie ermetica) di Biografia
a Ebe. Quel ‘romanzo’ (ma giustamente Verdino parla piuttosto
di récit) si presenta, come
scrive il curatore, «ricco di germi […]poi esplosi nella successiva poesia»
e di situazioni, come il colloquio con le figure femminili, calate
«in un clima di confidenza che non c’è nelle coeve poesie dell’Avvento,
più algide». La nascita alla prosa di Luzi è dunque all’insegna di uno
sperimentalismo, forse anche involontario, che almeno in parte alimenterà
la successiva produzione in versi.
È proprio
quella maniera arabescata a risultare più datata (e del resto, come si
è detto, è lo stesso autore a collocare negli anni successivi
alla Biografia la vera necessità di una scrittura
in prosa). Un esempio: «Ritenterò così la dolcezza ora che è noto il
nome e l’impero del deserto nell’epilogo di queste donne, per la strada
dell’esatta pianura. Poiché talvolta conviene meravigliarsi che la tristezza
abbia trovato i suoi giusti confini, come fu inerte e compiuto
l’incontro con questa àncora bianca di marmo appena profonda da intrattenere
la celerità del bassopiano». È un io, quello che qui prende la parola,
sprofondato nei minimi trasalimenti dell’«uomo ermetico» stigmatizzato
da Calvino nel Midollo
del leone. Ma sarà lo stesso Luzi, e non da solo, a fare
i conti con quell’eredità e a prenderne le distanze. Emblematico,
in tal senso, il passo di una prosa che si legge proprio in quest’edizione, il Taccuino di viaggio in Cina (1980), resoconto di una missione
per il Sindacato nazionale degli scrittori italiani, intrapresa in compagnia
di Arbasino, Malerba e Vittorio Sereni: «Nel percorso in taxi
dall’aeroporto siamo stati identificati come poeti ermetici… “Non c’è
scampo” abbiamo detto con Sereni».
Se in Biografia a Ebe l’osmosi tra lirica e prosa
è totale, la successiva ricerca di duttilità e articolazione
produce una scrittura più esatta, a tratti fin troppo compìta per tensione
alla chiarezza. Anche questa seconda maniera si svolge in parte come esperimento
e preparazione a una poesia rinnovata o da rinnovare; ma
con una coscienza più piena dell’autonomia di un genere rispetto all’altro.
L’autore in prosa più vicino a questo Luzi sembra il Bilenchi dei racconti,
sia per lo stile sia in parte per i temi: penso ad esempio a Il
vocabolario, nel libro luziano delle Trame, da accostare al bilenchiano Un errore geografico, analogo
per il soggetto e l’ambientazione scolastica. Come Bilenchi, il prosatore
Luzi è uno scrittore senza tempo. Non inattuale, o forse sì, ma per
effetto di una scrittura assoluta, remota dagli spazi e dai temi della
contemporaneità; si potrebbe in fondo dire di lui quello che Luzi stesso
scriveva del quartiere fiorentino dove sorge la chiesa del Carmine, cui
intitola una delle prose qui raccolte: «Aveva qualcosa di appartato, una
specie di domesticità d’altri tempi in confronto con altre zone magari adiacenti.
C’erano spazi tranquilli, piazze, piazzette, vicoli poco frequentati eppure
vivi».
Vale anche
per la poesia di Luzi? In parte sì, prima ma anche dopo l’exploit diNel magma (1963), che proietta l’autore fuori
da quella «specie di domesticità» in cui rischia di rinchiudersi tuttora
la memoria delle sue opere. Rischio da cui sembrano immuni altre ‘corone’
della cosiddetta terza generazione: certamente Sereni, ma – stando alla
fortuna critico-accademica – anche Caproni e forse Bertolucci.
Certo
conta anche la geografia esistenziale e letteraria del fiorentino
Luzi, diversa da quella lombarda di Sereni. «Quello che Firenze trasmette ai
suoi» si legge qui nei Paragrafi
fiorentini «è
paragonabile a una struttura fondamentale, a una grammatica
della mente e del senso». La raccolta delle prose illustra in modo
ideale come l’immaginario luziano aderisca rigorosamente a quella
grammatica, declinata nel paesaggio di una Toscana gotica, antica: San
Miniato, Siena, l’Amiata. Questa è la forza ma anche il confine di Luzi,
come può mostrare una nota di viaggio più ‘esotica’ (Skyline), scritta di ritorno
dagli Stati Uniti: se perfino a New York è possibile «guardare il
presente con la lente del passato» vuol dire che niente potrà mai spezzare
quella «struttura fondamentale».
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.