IL LATO OSCURO DELLA POLITICA (Luca Raimondo).
31/03/2014 di triskel182
Il 9 aprile arriva in Italia la serie che ha spopolato negli Usa sugli intrighi della politica: dal Congresso alla Casa Bianca. Un ritratto del potere, tra spregiudicatezza, denaro e sesso. E un cast di primissimo livello. Perché non si fa niente di simile da noi?.
Ci sono personaggi che il pubblico ama odiare. E odia amare. Uno di questi è Frank Underwood, il cinico politico protagonista di House of Cards, la serie che finalmente giunge in Italia, inaugurando il nuovo canale Sky Atlantic il prossimo 9 aprile, a oltre un anno di distanza dalla sua uscita in streaming su Netflix. Sono ormai mesi che siti e riviste specializzate non fanno che parlare dei 13 meravigliosi episodi che raccontano le trame del personaggio interpretato da Kevin Spacey, che architetta con freddezza e cinismo ogni passo della sua scalata al potere. E lo scorso 14 febbraio sono state rese disponibili online le puntate della seconda stagione, nei paesi dove Netflix è attivo.
Underwood è il majority whip, una specie di capogruppo del Partito Democratico, il cui compito principale è fare in modo che i deputati votino secondo le direttive del partito e siano presenti in aula quando serve. All’inizio della storia scopriamo che il neoletto presidente degli Stati Uniti non mantiene la promessa di nominarlo Segretario di Stato, un affronto che Underwood decide di non tollerare. “Ci sono due tipi di dolore: quello che ti rende più forte e il dolore inutile, quello che provoca solo sofferenza. E io non sopporto le cose inutili”, sentenzia nella scena iniziale parlando direttamente agli spettatori nella prima, e contundente, scena del film. Il direct address di shakespeariana memoria, scopriremo presto, sarà il filo rosso che ci accompagnerà per tutte le puntate e che consentirà al protagonista di spiegare al pubblico, passo dopo passo, i suoi schemi, le sue certezze, ma anche le paure che lo attanagliano mentre cerca di raggiungere il suo scopo. Allo stesso tempo però, costringe quasi inconsciamente lo spettatore ad immedesimarsi con il protagonista, ad accettarne il lato oscuro, magari scoprendo il proprio. Non a caso il grande drammaturgo elisabettiano lo utilizzava con alcuni dei suoi personaggi più odiosi: Riccardo III e Iago.
Il fascino di Riccardo III
Ispirata all’omonima mini-serie inglese del 1990, a sua volta tratta dal libro dell’ex collaboratore di Margaret Thatcher, Michael Dobbs, House of Cards (appena pubblicato in Italia da Fazi, 446 pag, 14,9 euro) è una straordinaria storia sul fascino del potere, su come il desiderio di dominio sia il motore di ogni relazione: “Tutto è sesso – dice ancora Frank – eccetto il sesso. Il sesso è potere”. L’eccitazione è data dal controllo, l’amore è un patto rinnovato dalla sete di conquista e Frank e sua moglie Claire (la splendida Robin Wright) sono una perfetta coppia shakespeariana.
Che Shakespeare sia stato la principale fonte di ispirazione anche del libro di Dobbs, non c’è dubbio, a cominciare da Riccardo III. E sembra un curioso scherzo del destino che proprio mentre si cominciava a pensare alla versione americana, Spacey fosse impegnato nella rappresentazione teatrale di quella tragedia all’Old Vic, lo storico teatro londinese di cui da anni è direttore artistico. “La coscienza è soltanto una parola che sogliono usare i vigliacchi, ed è stata inventata per tenere in soggezione i forti”, dice Riccardo, ma sembra di sentire Frank Underwood, che come lo storpio Duca di York è privo di un codice morale e come Macbeth ha bisogno di una Lady accanto a sé che lo spinga a compiere qualunque nefandezza per arrivare in cima. L’algida Claire condivide ogni scelta del marito in quella che sembra una relazione glaciale, ma è forse l’unico modo di amare possibile per chi punta alla vetta della catena alimentare e sa che può solo cacciare o essere cacciato: “Amo quella donna come uno squalo ama il sangue”, dice Frank in una dichiarazione d’amore che appare come un atto di guerra contro il resto del mondo.
D’altra parte, Spacey e Wright non sono stati scelti a caso: sono sempre stati, nella mente degli autori, le sole opzioni possibili: “Se loro non avessero accettato è probabile che House of Cards non avrebbe visto la luce”, ha spiegato il creatore Beau Willimon. Coinvolto fin dal primo stadio della preparazione, l’attore due volte vincitore dell’Oscar ricorda: “Con la prima stesura della sceneggiatura andammo a bussare a tutti i network e alla fine Netflix fece la migliore offerta”. Gia, Netflix. Perché la grande novità di House of Cards è anche quella di essere la prima serie ad alto budget a essere prodotta dalla internet tv che nei paesi nei quali è operativa ha cambiato il modo di vedere la televisione. Il pubblico americano e britannico infatti, ha avuto a disposizione i 13 episodi contemporaneamente, decidendo come, quando e con che frequenza vederli. E magari rivederli. Un sistema che sta per essere copiato dai colossi del web, a cominciare da Apple.
Nell’era di internet
Lasciatevi dunque trasportare nei luoghi più oscuri della politica, dove ogni vita è sacrificabile, un voto si vende per un pugno di dollari e tutti hanno un segreto nascosto che può renderli ricattabili. Dove i giornalisti scendono a patti con il potere e capiscono troppo tardi che è impossibile uscirne indenni. Fantapolitica? Forse, ma non troppo, come spiega lo stesso Kevin Spacey: “Mentre giravamo eravamo in piena campagna elettorale. Tornavo a casa, sentivo le ultime notizie alla tv e mi dicevo: be’ le nostre storie non sono poi così folli!”. Il fascino di House of Cards, infatti, non risiede solo nel suo essere un grande racconto classico sulla follia del potere, ma anche una modernissima descrizione della politica nell’era di internet, dei nuovi media e della globalizzazione. C’è il vecchio modo di gestire la macchina del consenso attraverso intrighi e prebende, utili idioti e vittime predestinate. E c’è anche il mondo del giornalismo rampante rappresentato dalla giovane reporter Zoe Barnes (Kate Mara), sempre in bilico tra la ricerca ad ogni costo della notizia e il patto col diavolo per ottenerla.
Per raccontare questo complesso universo, c’è voluto il concorso di talenti straordinari. A cominciare dal cast stellare, ovviamente, ma anche dagli autori, guidati dal giovane e talentuoso Beau Willimon, la cui esperienza di volontario nell’organizzazione delle campagne elettorali di politici di prima grandezza, come Hillary Clinton e Howard Dean, ha ispirato la sua pièce teatrale Farragut North, diventata al cinema Le Idi di Marzo di George Clooney. Willimon non ha fatto mistero di essersi ispirato a Lyndon Johnson per il personaggio di Underwood: il vice di John Kennedy diventato presidente dopo la morte di JFK, era anch’egli un democratico del sud e, secondo lo sceneggiatore, “capace di qualunque cosa per raggiungere i suoi scopi”. E poi c’è l’aspetto visivo: la Washington livida e solitaria che David Fincher (Seven, Fight Club, The Social Network) ha forgiato nei primi due episodi per poi lasciare il timone a consolidati professionisti come James Foley e Joel Schumacher, per arrivare, in puntate della seconda stagione, a sorprese come Jodie Foster e la stessa Robin Wright. Non c’è quasi mai il Sole nella capitale americana e se appare, è più freddo della luce della Luna; dopo giornate passate dietro porte chiuse ci si ritrova di notte, nel buio delle proprio case, perché solo il buio rende liberi. Ma è solo un breve conforto, presto bisogna tornare sul campo di battaglia, perché come dice Frank: “Odio essere lasciato all’oscuro, ad aspettare… fare congetture… impotente…”
Underwood è il majority whip, una specie di capogruppo del Partito Democratico, il cui compito principale è fare in modo che i deputati votino secondo le direttive del partito e siano presenti in aula quando serve. All’inizio della storia scopriamo che il neoletto presidente degli Stati Uniti non mantiene la promessa di nominarlo Segretario di Stato, un affronto che Underwood decide di non tollerare. “Ci sono due tipi di dolore: quello che ti rende più forte e il dolore inutile, quello che provoca solo sofferenza. E io non sopporto le cose inutili”, sentenzia nella scena iniziale parlando direttamente agli spettatori nella prima, e contundente, scena del film. Il direct address di shakespeariana memoria, scopriremo presto, sarà il filo rosso che ci accompagnerà per tutte le puntate e che consentirà al protagonista di spiegare al pubblico, passo dopo passo, i suoi schemi, le sue certezze, ma anche le paure che lo attanagliano mentre cerca di raggiungere il suo scopo. Allo stesso tempo però, costringe quasi inconsciamente lo spettatore ad immedesimarsi con il protagonista, ad accettarne il lato oscuro, magari scoprendo il proprio. Non a caso il grande drammaturgo elisabettiano lo utilizzava con alcuni dei suoi personaggi più odiosi: Riccardo III e Iago.
Il fascino di Riccardo III
Ispirata all’omonima mini-serie inglese del 1990, a sua volta tratta dal libro dell’ex collaboratore di Margaret Thatcher, Michael Dobbs, House of Cards (appena pubblicato in Italia da Fazi, 446 pag, 14,9 euro) è una straordinaria storia sul fascino del potere, su come il desiderio di dominio sia il motore di ogni relazione: “Tutto è sesso – dice ancora Frank – eccetto il sesso. Il sesso è potere”. L’eccitazione è data dal controllo, l’amore è un patto rinnovato dalla sete di conquista e Frank e sua moglie Claire (la splendida Robin Wright) sono una perfetta coppia shakespeariana.
Che Shakespeare sia stato la principale fonte di ispirazione anche del libro di Dobbs, non c’è dubbio, a cominciare da Riccardo III. E sembra un curioso scherzo del destino che proprio mentre si cominciava a pensare alla versione americana, Spacey fosse impegnato nella rappresentazione teatrale di quella tragedia all’Old Vic, lo storico teatro londinese di cui da anni è direttore artistico. “La coscienza è soltanto una parola che sogliono usare i vigliacchi, ed è stata inventata per tenere in soggezione i forti”, dice Riccardo, ma sembra di sentire Frank Underwood, che come lo storpio Duca di York è privo di un codice morale e come Macbeth ha bisogno di una Lady accanto a sé che lo spinga a compiere qualunque nefandezza per arrivare in cima. L’algida Claire condivide ogni scelta del marito in quella che sembra una relazione glaciale, ma è forse l’unico modo di amare possibile per chi punta alla vetta della catena alimentare e sa che può solo cacciare o essere cacciato: “Amo quella donna come uno squalo ama il sangue”, dice Frank in una dichiarazione d’amore che appare come un atto di guerra contro il resto del mondo.
D’altra parte, Spacey e Wright non sono stati scelti a caso: sono sempre stati, nella mente degli autori, le sole opzioni possibili: “Se loro non avessero accettato è probabile che House of Cards non avrebbe visto la luce”, ha spiegato il creatore Beau Willimon. Coinvolto fin dal primo stadio della preparazione, l’attore due volte vincitore dell’Oscar ricorda: “Con la prima stesura della sceneggiatura andammo a bussare a tutti i network e alla fine Netflix fece la migliore offerta”. Gia, Netflix. Perché la grande novità di House of Cards è anche quella di essere la prima serie ad alto budget a essere prodotta dalla internet tv che nei paesi nei quali è operativa ha cambiato il modo di vedere la televisione. Il pubblico americano e britannico infatti, ha avuto a disposizione i 13 episodi contemporaneamente, decidendo come, quando e con che frequenza vederli. E magari rivederli. Un sistema che sta per essere copiato dai colossi del web, a cominciare da Apple.
Nell’era di internet
Lasciatevi dunque trasportare nei luoghi più oscuri della politica, dove ogni vita è sacrificabile, un voto si vende per un pugno di dollari e tutti hanno un segreto nascosto che può renderli ricattabili. Dove i giornalisti scendono a patti con il potere e capiscono troppo tardi che è impossibile uscirne indenni. Fantapolitica? Forse, ma non troppo, come spiega lo stesso Kevin Spacey: “Mentre giravamo eravamo in piena campagna elettorale. Tornavo a casa, sentivo le ultime notizie alla tv e mi dicevo: be’ le nostre storie non sono poi così folli!”. Il fascino di House of Cards, infatti, non risiede solo nel suo essere un grande racconto classico sulla follia del potere, ma anche una modernissima descrizione della politica nell’era di internet, dei nuovi media e della globalizzazione. C’è il vecchio modo di gestire la macchina del consenso attraverso intrighi e prebende, utili idioti e vittime predestinate. E c’è anche il mondo del giornalismo rampante rappresentato dalla giovane reporter Zoe Barnes (Kate Mara), sempre in bilico tra la ricerca ad ogni costo della notizia e il patto col diavolo per ottenerla.
Per raccontare questo complesso universo, c’è voluto il concorso di talenti straordinari. A cominciare dal cast stellare, ovviamente, ma anche dagli autori, guidati dal giovane e talentuoso Beau Willimon, la cui esperienza di volontario nell’organizzazione delle campagne elettorali di politici di prima grandezza, come Hillary Clinton e Howard Dean, ha ispirato la sua pièce teatrale Farragut North, diventata al cinema Le Idi di Marzo di George Clooney. Willimon non ha fatto mistero di essersi ispirato a Lyndon Johnson per il personaggio di Underwood: il vice di John Kennedy diventato presidente dopo la morte di JFK, era anch’egli un democratico del sud e, secondo lo sceneggiatore, “capace di qualunque cosa per raggiungere i suoi scopi”. E poi c’è l’aspetto visivo: la Washington livida e solitaria che David Fincher (Seven, Fight Club, The Social Network) ha forgiato nei primi due episodi per poi lasciare il timone a consolidati professionisti come James Foley e Joel Schumacher, per arrivare, in puntate della seconda stagione, a sorprese come Jodie Foster e la stessa Robin Wright. Non c’è quasi mai il Sole nella capitale americana e se appare, è più freddo della luce della Luna; dopo giornate passate dietro porte chiuse ci si ritrova di notte, nel buio delle proprio case, perché solo il buio rende liberi. Ma è solo un breve conforto, presto bisogna tornare sul campo di battaglia, perché come dice Frank: “Odio essere lasciato all’oscuro, ad aspettare… fare congetture… impotente…”
Da Il Fatto Quotidiano del 31/03/2014.
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