Le
ferite dei senza patria
Anticipazione. Genealogie
critiche del «Lo straniero». Un’anticipazione dal nuovo libro dello studioso
americano da oggi in libreria per Feltrinelli
La questione da cui sembra dipendere tutto il racconto
del mito di Edipo di per sé appare di scarso interesse artistico, anzi non
è che una rotellina nel meccanismo dell’intreccio. Sulle caviglie del
re una ferita ricevuta nell’infanzia ha lasciato un segno nella carne. In
greco il nome «Edipo» significa appunto «colui che ha le caviglie trafitte».
Il re ha vagabondato, ha perso il contatto con le proprie origini, ma
quando nella storia si arriva al punto in cui i personaggi devono
sapere quale sia la sua vera identità, riescono a ritrovare questa
verità esaminando il suo corpo. Il processo di identificazione ha inizio
quando un messo dichiara: «Possono testimoniarlo le giunture dei tuoi piedi».
Se le prove che il re Edipo sta cercando non fossero
quelle relative all’incesto, forse presteremmo più attenzione a questa
cicatrice. Nonostante il lungo migrare del re nel corso della sua vita, il
suo corpo conserva ancora la prova indelebile di chi egli sia «veramente».
I viaggi che ha compiuto invece non hanno lasciato sul suo corpo un analogo
marchio distintivo: la sua esperienza di migrante conta poco, ovvero conta
poco in rapporto alla sua origine.
IL MARCHIO DELL’APPARTENENZA
Nella cultura occidentale questa cicatrice di
Edipo sembra rappresentare la fonte da cui discendono i segni indelebili
che il diciannovesimo secolo avrebbe letto nel corpo collettivo della
nazione. L’origine diventa il destino. In verità, se si guarda indietro agli
inizi della nostra civiltà, si ha l’impressione che l’esilio, lo spossessamento,
l’emigrazione abbiano avuto un’importanza di gran lunga minore rispetto ai marchi
dell’origine e dell’appartenenza. Viene da pensare al rifiuto dell’esilio
da parte di Socrate come prova della credenza che perfino la morte da cittadino
fosse più onorevole. O a quell’osservazione di Tucidide sul fatto che
gli stranieri non hanno parola, con la quale non si vuol dire letteralmente
che non sappiano esprimersi bene, ma che la loro parola nella polis conta ben poco: la loro è la chiacchiera di
quelli che non hanno la facoltà di votare.
Tuttavia i segni sulle caviglie di Edipo non
sono gli unici a marchiare il suo corpo. Egli risponde cavandosi gli
occhi alle ferite che all’inizio altri gli hanno inflitto. Se mettiamo da
parte la valenza sessuale di questo mito e lo esaminiamo semplicemente
come un racconto, la seconda ferita compensa la prima: la prima è una
ferita che indica le origini, la seconda la storia successiva. Doppiamente
ferito, Edipo è diventato un uomo la cui esistenza si può letteralmente
leggere sul corpo, ed è a partire da questa condizione che egli erra
di nuovo per il mondo come un vagabondo. Quando parte da Tebe, Edipo pensa che
forse potrebbe ritornare alle proprie origini, sulla montagna, «sul mio Citerone, che mio padre e mia madre, quand’erano
vivi, mi assegnarono come tomba degnissima», ma questo ritorno non
è destinato a realizzarsi. Infatti, quando si apre Edipo a Colono, anziché nei luoghi delle sue origini, Edipo
è arrivato al deme (sobborgo) di Colono, a un chilometro
e mezzo di distanza a nord-ovest di Atene, dove invece è destinato
a morire secondo quanto gli ha predetto l’oracolo di Delfi, anche se la
profezia si avvererà in modo diverso da come aveva immaginato all’inizio
della tragedia.
Le due ferite sul corpo di Edipo sono dunque la cicatrice
delle origini, che non si può nascondere, e la cicatrice dell’uomo
errante, che non pare riuscire a sanarsi. Questa seconda insanabile
cicatrice nella civiltà occidentale ha un significato come lo ha la cicatrice
dell’origine che marca il valore attribuito all’appartenenza a un luogo
specifico. I greci coglievano nell’interminabile viaggio di Edipo una
risonanza con le leggende omeriche, specialmente con quella di Ulisse.
L’ESSERE IN CAMMINO
Nella procedura greca, che più tardi sarebbe stata
codificata nel diritto romano, in alcune circostanze l’esilio era considerato
di fatto onorevole, più della scelta di Socrate: l’exsilium concedeva alla persona condannata alla pena capitale
il diritto di scegliere l’espulsione al posto della morte, una scelta che
risparmiava agli amici e alla famiglia la vergogna e il dolore di
assistere all’esecuzione di uno di loro. Ma Sofocle nel suo Edipo a Colono inserisce una dimensione morale nell’atto di emigrare,
rappresentando Edipo come una figura nobilitata dal suo stesso sradicamento.
La tragedia trasforma Edipo in meteco,
in straniero, in un personaggio di tragica grandezza più che in un estraneo
la cui levatura è minore di quella di un cittadino.
Diventare uno straniero significa essere strappati
dalle proprie radici. La condizione di sradicamento assume nella tradizione
giudaico-cristiana un valore morale positivo, anzi potremmo dire che diventa
di fondamentale importanza. Gli uomini dell’Antico Testamento si consideravano
nomadi senza radici. Lo Jahvè dell’Antico Testamento, con la sua Arca
dell’Alleanza trasportabile, era lui stesso un dio nomade come sottolinea
il teologo Harvey Cox: «Quando l’Arca, infine, fu catturata dai filistei,
gli ebrei cominciarono a rendersi conto che Jahvè non si trovava nemmeno
in essa (…). Egli viaggiava con il suo popolo e altrove».
Jahvè era un dio del tempo più che dio di un luogo,
era un dio che aveva promesso ai suoi seguaci un senso divino per le loro tristi
peregrinazioni. Anche tra i cristiani dei primi secoli, come tra gli
ebrei dell’Antico Testamento, il nomadismo e l’essere esposti erano
profondamente percepiti come conseguenze della fede. All’apice della gloria
dell’Impero romano, l’autore della Lettera a Diogneto affermava: «I cristiani non si distinguono dal
resto dell’umanità, né per sede, né per lingua, né per usanze. Essi infatti
non abitano in città particolari, (…)non praticano un modo di vivere
straordinario. (…)Essi dimorano nei loro paesi, ma solo come ospiti temporanei
(…). Per loro ogni paese straniero è patria, e ogni patria
è paese straniero». Quest’immagine di non stanzialità sarebbe diventata
uno dei modi in cui Sant’Agostino avrebbe definito le due città nella Città di Dio: «Si legge nella Scrittura che Caino edificò una
città mentre Abele, in quanto esule non la edificò. La città degli eletti
è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con
i quali è in cammino finché giunge il tempo del suo regno». L’essere
«in cammino, finché giunge il tempo», piuttosto che la stanzialità in un
luogo, attinge la propria autorità dal rifiuto di Gesù di consentire che
i suoi discepoli edificassero monumenti per lui, e dalla sua promessa
di distruggere il Tempio di Gerusalemme.
Quella giudaico-cristiana è quindi una cultura
che, proprio alle sue fonti, riguarda direttamente l’esperienza dello sradicamento.
La nostra è una cultura religiosa della seconda cicatrice. La ragione
per cui viene conferito tutto questo valore allo sradicamento deriva da
un profondo discredito dell’antropologia della vita quotidiana: il nomos non è verità. Le cose quotidiane sono di per sé
illusorie – illusorie come lo erano per gli orfici e per Platone
e nella misura in cui lo sarebbero state per sant’Agostino.
UNO STIGMA MORALE
Una svalutazione del comportamento quotidiano
di questo tipo fa la sua apparizione in un momento indimenticabile dell’Edipo a Colono, proprio nel discorso che Edipo rivolge al giovane
Teseo: «Figlio di Egeo a me carissimo, soltanto gli dei non conoscono
vecchiaia e morte; tutto il resto viene travolto dal tempo onnipossente.
Illanguidisce la forza della terra, illanguidisce la forza del corpo;
muore la lealtà, germoglia la perfidia, né mai perdura lo stesso sentimento
fra gli amici o fra città e città. Agli uni subito, agli altri in
seguito quel ch’è dolce si tramuta in amaro e poi di nuovo in dolce. Così
anche se ora Tebe è in pace perfetta con te, il tempo infinito genera
nel suo corso notti e giorni infiniti, durante i quali essi, sotto
lieve pretesto, manderanno al vento con la forza delle armi ogni patto
d’amicizia».
Dunque questa seconda cicatrice, che
è il segno distintivo dello straniero, è uno stigma morale,
proprio perché non si sana mai del tutto. Sia nel pensiero classico sia in
quello giudaico-cristiano, coloro che si sono liberati dalle circostanze,
coloro che conducono vite da sradicati, possono diventare esseri umani di
un certo rilievo. Girando per il mondo, si trasformavano. Si liberavano
dalla partecipazione cieca e, di conseguenza, diventavano capaci di
indagare le cose approfonditamente in prima persona, potevano operare
scelte per se stessi o sentirsi infine, come il cieco re greco e il
martire cristiano, al cospetto di un potere più alto. Le due cicatrici sul
corpo del re Edipo rappresentano un conflitto fondamentale all’interno
della nostra civiltà, in cui le pretese di verità del luogo e degli inizi
si oppongono alle verità da scoprire quando si diventa stranieri.
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