CULTURA
Il soul dissacrante della tigre celtica
Roddy Doyle. L’epopea della working class è segnata dal rapporto ambivalente con l’identità dominante. In Irlanda questo significa analizzare il ruolo della chiesa cattolica e il mito della lotta per l’indipendenza. E fare i conti con gli effetti di una crisi economica che ha fatto ritornare al centro della scena pubblica una diffusa povertà. Un’intervista con lo scrittore, ospite a Roma del Festival delle Letterature
''Ogni volta che lascio il mio paese divento subito irlandese.
Ho bisogno del passaporto. Eppure non so bene cosa significhi, anzi, se
addirittura significhi qualcosa. Sono piuttosto soddisfatto di essere
irlandese, ma detesto essere “irlandese”. L’adoro e lo combatto. Ecco
dove penso si possa trovare l’identità, nella lotta all’identità. O nella
lotta all’identità imposta. Stavo scrivendo il mio nono romanzo quando mi
sono reso conto che era proprio quello che stavo facendo: lottavo contro la
mia identità, o contro quella che altri avevano cercato di impormi,
lottavo contro l’ideale. Lottavo contro quello che altri si aspettavano
che fossi e scrivevo con gioia quello che altri consideravano non
irlandese, o meno irlandese o più dublinese che irlandese. Alle
pagine dei miei romanzi ho imposto la mia personale definizione di ciò che
significa essere irlandesi. E l’ho fatto anche perché ne avevo
bisogno».
Un irlandese riluttante, è così che Roddy Doyle
si è presentato al Festival Letterature che si è aperto martedi
a Roma. Eppure, nessuno come questo ex insegnante di liceo che dal 1993
a oggi ha sfornato una decina di romanzi straordinari, fino
a diventare uno dei protagonisti della narrativa contemporanea,
ha saputo cogliere e raccontare miti e inquietudini della terra
d’Irlanda. Cresciuto nel quartiere popolare di Kilbarrack, nel nord di
Dublino, a parte un breve periodo di studio a Londra, Doyle va
fiero di non aver mai vissuto a più di 3 km da dove è nato.
La memoria della Dublino operaia, i miti
infranti della working
class, ma anche lo slang bizzarro di chi vi
abita e il modo scanzonato di affrontare le avversità della vita, proprio
di chi ha conosciuto più ombre che luci, tornano più volte nei libri di Doyle
che, allo stesso tempo, affronta senza alcun timore reverenziale,
e soprattutto con un’ironia irresistibile, anche gli elementi fondativi
dell’identità irlandese: la fede cattolica e il ruolo della Chiesa, la
lotta per l’indipendenza nazionale prima e la lotta armata dell’Ira poi,
la povertà endemica e il pallido orizzonte di un boom economico rapidamente
tramontato.
Da «I Commitmens», portato sul grande schermo da
Alan Parker, a «Paddy Clarke ah ah ah!», da «The Snapper», di cui Stephen
Frears ha diretto la versione cinematografica, a «The Van», passando per
la trilogia che attraversa gli anni dell’insurrezione del 1916 e della
grande depressione e che ha come protagonista Henry Smart, per non
citare che alcuni dei suoi titoli più fortunati, lo scrittore irlandese si
erge a testimone, ma senza prendersi mai troppo sul serio, dei tanti cambiamenti
vissuti da un paese che si vorrebbe, al contrario, immutabile e nel
solco della tradizione.
Fedele a questa sua indole dissacrante ma sempre
profondamente empatica quanto le sorti degli «ultimi», l’ultimo romanzo di
Roddy Doyle, La
musica è cambiata (Guanda,
pp. 395, euro 18,50), torna a proporci la figura di Jimmy Rabbitte che
nei Commitments era il manager della soul band formata da un gruppo di ragazzi squattrinati che
cercavano così di far fronte come potevano alla crisi economica. Invecchiato
e gravemente ammalato, con una numerosa famiglia sulle spalle, stavolta
Jimmy si imbarca in un’impresa altrettanto ardua: ritrovare — o inventare?
— le canzoni che si suonavano in Irlanda nel 1932, quando si svolse il primo
Congresso eucaristico del paese, di cui, nel 2012, anno in cui è ambientato
il romanzo, si celebra una nuova edizione. Questo, mentre tutto intorno
a lui, l’economia della «tigre celtica» sta andando in pezzi sotto
i colpi della crisi internazionale.
Jimmy Rabbitte è tornato:
l’Irlanda è messa così male che bisogna ricominciare a inventarsi
qualunque cosa, pur di restare a galla?
Non abbandono mai i miei personaggi. Ho
scritto dieci romanzi e sono sempre tornato a trovarli, anche
a distanza di molti anni, per vedere che cosa era cambiato nelle loro
vite. Però, è vero, ho pensato al ritorno di Jimmy perché ho associato
la sua figura alla parola «recessione». A distanza di più di vent’anni,
volevo capire come Jimmy, e ora anche la sua famiglia, avrebbero affrontato
la situazione di una nuova crisi economica dopo quella con cui avevano
dovuto fare i conti ai tempi deI Commitments.
Volevo studiare le loro reazioni, le dinamiche che si sarebbero messe in
moto. Volevo, insomma, capire cosa Jimmy avrebbe potuto inventarsi stavolta.
Nel libro, il riferimento agli avvenimenti
del 1932 sembra rimandare anche ai segni che la povertà e la crisi
lasciano, oggi come allora, sulle persone. Cosa la colpisce o la spaventa
di più di quanto sta accadendo nel suo paese?
La cosa più dura da accettare, è il ritorno
stesso della crisi economica che da noi non è una novità, anche se pensavamo
di essercela lasciata alle spalle. Nel 1932 l’Irlanda era un paese poverissimo,
con tanta gente che non aveva da mangiare e molti altri che erano
costretti ad emigrare. Dieci anni dopo le cose non andavano meglio, e lo
stesso si può dire anche per i decenni successivi. Solo nel 1962 la
situazione è cominciata a cambiare, anche se per parlare davvero
di diffusione del benessere dobbiamo aspettare almeno fino alla fine degli
anni Ottanta. Poi, sono arrivate altre batoste, fino a quando, negli
ultimi dieci anni è iniziato il cosiddetto miracolo economico della
«tigre celtica». All’inizio, in molti non si aspettavano quasi quello sviluppo,
ne erano stupiti, ci si sono abituati pian piano e poi, sul più bello,
quando avevano fatto l’abitudine a stare meglio, è arrivata la
nuova tegola della crisi internazionale. Per l’Irlanda è stato un vero
shock. Pensavamo di avere chiuso per sempre con la miseria e invece
davanti a noi si è aperto d’improvviso un precipizio e ci
siamo finiti dentro con tutte le scarpe. La cosa più inquietante è che
le persone della mia età lasceranno il paese in una condizione peggiore
rispetto a quella in cui l’hanno trovato quando erano giovani.
Gran parte dei personaggi dei suoi
romanzi vengono dalla «working class», si sente un po’ il loro portavoce?
In effetti, solo Paddy Clarke appartiene alla classe
media. Ma non è stata una scelta razionale, ho scritto soltanto
dell’ambiente che conoscevo meglio. Diciamo che dal mio punto di vista
l’appartenenza alla classe operaia non si definisce tanto dai soldi che si
hanno in tasca, quanto piuttosto dal modo in cui si decide di spenderli.
È prima di tutto una questione di cultura. Scrivere del ceto medio significa
necessariamente preoccuparsi di status symbol come i mobili, i vestiti, le auto. Ma questo
non è il mondo in cui sono cresciuto e anche ora che non posso certo
dire di essere povero, non mi interessa granché.
Per far soldi, Jimmy vuole raccogliere
vecchie canzoni irlandesi, ma non cerca pezzi tradizionali, bensì sogna
di scoprire qualche blues dimenticato, censurato, spiega, perché, «non
corrispondeva all’immagine che De Valera aveva all’epoca del paese». Nei
«Commitmens» si suonava soul, qui si evoca il blues di Chicago, più che
alla musica celtica lei sembra pensare che l’Irlanda sia legata alla cultura
afroamericana. È il suo modo di interpretare l’identità
del paese?
Non so se siamo imparentati con gli afroamericani,
ma mi piacerebbe tanto che fosse così. Il soul dei Commitmens era la musica che ascoltavo all’epoca, e che
comunque in Irlanda era trasmessa moltissimo dalle radio. Quando alle ricerche
di Jimmy, beh credo che in effetti abbiano a che fare almeno in parte con
la mia idea di identità. Mi spiego. Il «Congresso eucaristico» del 1932,
più che un fatto religioso, rappresentò per molti soprattutto il primo
evento internazionale che si teneva nel paese: chi non vi prese parte, restò
incollato alla radio per giorni per seguirlo. Allo stesso modo, sorprendentemente
per un paese così cattolico e in un’epoca in cui la religione e la
Chiesa dominavano ogni cosa, molte delle canzoni di quel periodo erano piuttosto
sconcertanti. Ce n’era ad esempio una che si cantava ancora quando ero
ragazzo. È la «Ballata dell’omicida», che hanno cantato intere generazioni
di dublinesi: una canzone su una donna che uccide il suo bambino appena nato
con un coltello in mezzo ad un bosco. Quando avevo otto o nove anni, cantavamo
questa canzone a squarciagola nel cortile della scuola, ci mettevamo
molta gioia, come se si trattasse di un inno alla Vergine Maria. Ecco, tutto
questo fa parte della nostra educazione irlandese, del nostro essere
irlandesi.
La lotta per l’indipendenza dalla Gran
Bretagna è uno dei capitoli fondamentali della storia irlandese.
Oggi cosa prova nel vedere che gli inglesi vogliono essere indipendenti
dall’Europa e che l’Ukip, il partito che difende questa idea bizzarra,
è il più votato?
In effetti, a prima vista potrebbe quasi sembrare
un cosa buffa o paradossale — cosa significa voler essere indipendenti
da un organismo plurinazionale, collettivo per definizione? -, ma in
realtà è qualcosa di preoccupante e che in me desta parecchia
inquietudine. Questa ondata di destra che scuote l’Europa non mi lascia tranquillo.
Ma sto cercando anche di capire cosa sta succedendo davvero. Partiamo da
un elemento che mi sembra centrale. Secondo un censimento che è stato
fatto due o tre anni fa, almeno un abitante su dieci della Repubblica
d’Irlanda è nato in un altro paese. Eppure, da noi, questo argomento non
si è mai trasformato in un tema da campagna elettorale. In questi
giorni, invece, ho letto che in Danimarca un abitante su otto è di origine
straniera, e da loro la cosa è diventata così seria che un partito
di estrema destra ha vinto le elezioni. Questo mi fa capire che non devo sottovalutare
troppo il fatto di vivere in Irlanda e che, forse, il modo migliore di
affrontare questi temi assomiglia un po’ al mio paese e alla musica
che amo: è un mix senza fine. Dublino, la mia città, riassume in sé
quello che considero uno degli antidoti migliori al razzismo e all’intolleranza:
reinventa e ridefinisce senza sosta la propria identità e la
propria cultura. Credo sia l’unico modo per potersi dire orgogliosi di
vivere in un determinato paese senza fare danni o escludere qualcuno.
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