ALIAS DOMENICA
L’angelo perduto di Thomas Wolfe
O lost. Lo straripante romanzo di formazione con cui Thomas Wolfe inaugurò la sua ricerca di un mito americano, esce per Elliot nella sua prima versione
Fra i grandi scrittori americani Thomas Wolfe
è in Italia il più trascurato, quello di cui i lettori non perfettamente
familiarizzati con la letteratura d’oltreoceano sanno meno. È noto
l’elogio postumo che gli venne da Faulkner, il quale lo considerava il più
talentuoso della sua generazione, travolto da un «best failure» per aver tentato di dire di più e meglio di
tutti gli altri; altrettanto significativa l’attenzione riservatagli da
Gilles Deleuze (che lo accolse nel suo pantheon ideale di scrittori angloamericani);
e però anche in America Wolfe paga ancora la sua fama di autore debordante,
indisciplinato, produttore inesausto e torrenziale di pagine,
incapace di distaccarsi da un ansioso, lussureggiante fondo autobiografico
di matrice romantica.
In Italia, benché le sue opere di maggior impegno,
alcune delle quali postume (You
Can’t Go Home Again, Of Time and the River,The
Web and the Rock) siano state tradotte per Mondadori
fra il 1949 e il ’62, Wolfe resta un autore poco letto e meno ancora
discusso. Ma sembra sia arrivata l’occasione per riparlare dello scrittore
di Asheville morto prematuramente nel 1938, e per rimetterlo in circolo:
mentre, infatti, l’editore Carta Canta ha pubblicato la ritraduzione (a
firma di Jacopo Lenkowicz) dei racconti di Dalla morte al mattino, Elliot ha dato alle stampe la prima versione inedita
del romanzo d’esordio di Wolfe: un romanzo finora noto solo nella versione del
1929 uscita con il titolo Look
Homeward, Angeldopo un faticoso passaggio sotto le
forbici del famoso Maxwell Perkins, che fu editor anche di Hemingway
e di Fitzgerald. Dunque, ora la lettura del monumentaleO Lost (traduzione
di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, Elliot, pp. 760, euro 29,00), condotta
sulla Centenary
Edition a cura di Arlyn e Matthew J.
Bruccoli, uscita nel 2000 per la University of California Press – un vero
e proprio evento editoriale – lascia frastornati e stranamente
inebriati. Lo straripante romanzo di formazione con cui Thomas Wolfe,
a ventisei anni, inaugurò la sua insonne ricerca di un mito intimamente
americano, tenta di riflettere nello specchio della coscienza dei propri
protagonisti l’anima non nata del continente, sulle orme dell’amato James
Joyce e della divisa del suo Stephen Dedalus («forgiare nella fucina
della mia anima la coscienza increata della mia razza»).
O Lost è la storia di Eugene Gant, cresciuto nella
città non troppo immaginaria di Altamont (dietro cui si nasconde la natia
Asheville, North Carolina): ciò che il romanzo insegue è l’ingresso tormentato
di un Io nel mondo. Figlio di un ampolloso scalpellino dedito all’alcol
e di una madre oculata e intransigente, Eugene vive avidamente,
da ossesso, «in una favola di cui non capiva nulla», al centro di un caotico
fermento sensoriale che dovrà attraversare ma anche addomesticare al
fine di trovare una strada nel mondo. Abita in lui una scandalosa, implacabile
onestà che non è costume morale ma un modo di essere, fisico e mentale:
«Come maschera, il volto di Eugene era inutile: era una pozza scura in cui
anche il più piccolo ciottolo di pensiero e di sentimento produceva
ampi cerchi».
La postura narrativa di Wolfe è molto semplice:
si basa sul conflitto, che è l’elemento in cui cresce la scoperta di
sé, e per il cui tramite quell’Io che pretende di sentire tutto in
tutte le maniere deve circoscrivere il proprio desiderio. Qui il conflitto
fra Io e mondo è dato secondo la più schietta formula romantica
e va preso per quello che è, pensando al pudore e alla sete di vita
di una adolescenza che costruisce fantasie gigantesche: «Il mondo era un
incantato paese fantasma oltre il profilo nebbioso dei monti, una terra
piena di echi, di frutteti sorvegliati da qualche genio, di mari color del
vino, di città inabissate, fantastiche…»
La porta del mondo, la luce dell’esperienza, rimane
sempre a un passo da Eugene, ma non pare mai aprirsi. E c’è poi il leitmotiv del romanzo: la fame, «il brancolare selvaggio
e ignorante, l’inseguimento alla cieca, il desiderio disperato
e sempre beffato»: l’avidità di divorare il mondo nei suoi infiniti
aspetti che non abbandona mai Eugene e che ha la sua ragion d’essere
nella propria stessa insaziabilità, nell’ebbrezza dei possibili. Di più,
il conflitto diventa una forza strutturante dello stile: O Lost esibisce in un primo momento una tensione descrittiva
decisamente realistica, che si esplica anche in una sorta di estasi dei
cataloghi (per esempio quello, denso ed elaborato, delle decine di profumi
e afrori che si aprono a Eugene bambino) ma poi alterna impennate
scopertamente liriche, dove l’enfasi va a tamponare un’incertezza
fondamentale, un’insicurezza che era anche il tratto più umano
di Wolfe.
Tutta questa ansia di nominazione, che a volte
naufraga contro aggettivi come «indicibile» e «inesprimibile»,
è il rovescio di un profondo senso dell’ingovernabilità del reale.
Quanto alla presenza di Joyce, non la si vede tanto nell’insoddisfazione per
il linguaggio o nell’instancabile piluccare dettagli da affollare
intorno alla coscienza del protagonista, quanto nei momenti in cui Eugene
fa interiormente il punto senza però mai venire a capo del fluire
dell’esperienza (e là si sente l’impronta ineludibile del Portrait, il romanzo di formazione joyciano). Tuttavia,
che non sia Joyce ma Whitman il vero faro di Wolfe lo si capisce da frammenti
come quello dedicato, a romanzo inoltrato, all’inno rivolto al Dio dei
Viaggi, dove l’impeto a una apertura quasi esaltata esibisce la sua
carta d’identità, tra le più trasparenti. E infatti, a punteggiare
il flusso di O Lost, soprattutto nelle chiuse dei capitoli, troviamo
strategie epiche, apostrofi, formule ricorsive, refrain (comeO perduti!…Et ego in Arcadia…La foglia, il sasso,
la porta mai trovata) grazie a cui Wolfe si connette
a una tradizione millenaria e insieme si propone come erede del
bardo d’America. O Lost è infatti percorso e elettrizzato dal
senso della grandezza, già del tutto intrinseca al sentimento di sé della
famiglia Gant, conscia di essere composta da esseri superiori, «angeli perduti»:
un titanismo tutto ideale questo di Wolfe, che cerca la grandiosità di
Whitman o di Lautréamont («Dov’è la tenebra, figliolo, là è la
luce»), e in cui le epoche storiche si confondono: Tebe e Babilonia
si sovrappongono e si intersecano alle sfrenate tele di Bruegel
e alle miniature del Graal.
Per Wolfe il romanzo è un’estensione della poesia
che non rinuncia a niente e accoglie tutto: «Non dimenticare,
Scott, che un grande scrittore è uno che non soltanto esclude ma anche
include», scrisse a Fitzgerald in una celebre lettera, opponendo alla
selettività flaubertiana il genio digressivo di Sterne. Fedele al proprio
impulso originario, quello dell’abbandono lirico e della richiesta emozionata
dell’Io nei confronti di un mondo su cui gli sfugge la presa, Wolfe scrive al
cospetto della storia nella sua interezza, della Bibbia, di Shakespeare
e di Cervantes, e dei miti atemporali che tenta, proiettandoli
sullo schermo della propria magniloquenza, di insufflare nel cuore
dell’America. Titanica dev’essere stata, perciò, anche la traduzione –
«un’impresa esaltante e impegnativa» – hanno scritto Maria Baiocchi
e Anna Tagliavini. Davvero trascinante questo impegno, e lo si
vede nelle pieghe e nelle impennate di un italiano congeniale anche
alla visionarietà più accesa, che è uno dei tratti spiccati di Wolfe ma
anche uno di quelli che hanno retto di meno al trascorrere del tempo.
Secondo i curatori dell’edizione americana, O Lost è un’opera più riuscita e più potente di Look Homeward, Angel, ed era perfettamente pubblicabile nella sua
forma originaria nel 1929. Maxwell Perkins, tentando di imbrigliare le
forze capricciose della scrittura di Wolfe, scorciò il romanzo di un quarto della
lunghezza ottenendone 625 pagine a stampa: impose l’eliminazione del
lungo prologo di cento pagine con la storia dello spavaldo ubriacone Oliver
Gant, padre di Eugene; e, ancora, tutta una serie di tagli minori che coinvolgevano
parti scabrose (come il coito di un amichetto di Eugene con una gallina)
o censuravano osservazioni critiche nei confronti del Sud degli
Stati Uniti, degli sport cari agli americani e di determinati ambienti
sociali, con un occhio sommamente attento ai gusti del lettore dell’epoca.
Sebbene non sia del tutto riuscito il tentativo di
incarnare nel mito il carattere americano di una «razza nomade», proiettata
a capofitto nel futuro, il romanzo di Thomas Wolfe resta memorabile
grazie alla sua restituzione dell’intenso resoconto lirico di una formazione
generazionale nella provincia americana. Siamo sempre stranieri
e sempre soli – sembra dire O Lost – quanto più ci illudiamo di abbracciare il mondo
nel corpo e nella coscienza. Dopo aver divorato la vita e non averne
avuto nulla, Eugene si prepara a partire. L’allontanamento dal padre
morente coincide per lui con la conferma della vocazione alla scrittura,
dibattuta in un incontro con lo spettro del fratello Ben («Tu sei il tuo
mondo»). E prosegue tracciando linee di fuga verso l’invenzione di un
popolo a venire, mentre l’Io si riconosce negli altri: «la folta perduta
legione di se stesso – le mille forme che arrivavano, passavano, si alternavano
e ondeggiavano in un infinito cambiamento, e che restavano immutabilmente Sé».
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