A casa di...
Egli, a dire il vero un pò taccagno, spegne all' improvviso tutte le luci.
Sono come un gufo, dice. Vivo nel buio. Gli occhi acquiistano nuna delicatezza di percezione.
Non vedo niente, dico, spalancando gli occhi invano.
Davvero? Ciò non mi stupisce.
Percepisco dalle parole un sorriso di commiserazione.
Già. Ti manca la cultura. Arpagone ti è ignoto.
Interno caffé. Mattino. In tanti a far colazione.
''L' anno nuovo sarà buono come nel 2014''. Dice qualcuno sovrastando il chiacchiericcio.
Più voci fanno ''Ah'' con quegli accenti incerti che si assumono quando qualcuno ci parla di eventi lontani, estranei alla nostra vita cosciente.
Capisco che si trattava di Renzi.
Da oggi in edicola il nuovo Almanacco del cinema di MicroMega
Due interviste inedite a Federico Fellini, con numerosi disegni originali del regista; e con lui Ermanno Olmi, Ken Loach, Nicola Piovani, Paolo Sorrentino, Roberto Scarpinato, Wim Wenders, Giancarlo De Cataldo, Vittorio Storaro. Sono alcuni dei nomi ospitatati all'interno dell'Almanacco del cinema di MicroMega, da martedì 30 dicembre in edicola, libreria, su iPad e pdf.
Un ricchissimo numero monografico che in primo piano ha un focus su Federico Fellini: la sezione si apre con due interviste, inedite in Italia, in cui il grande regista parla della sua burrascosa vita e di Cinecittà. Gianni Canova descrive il Fellini politico (a sua insaputa?), colui che aveva intuito la deriva a cui poi ci hanno condotto vent'anni di berlusconismo. La sua lezione cinematografica ha molti ammiratori, ma pochi eredi. Uno è certamente Paolo Sorrentino il quale evidenzia i tratti comuni col Maestro riminese. La sezione si chiude con un saggio di Gianfranco Angelucci che ripercorre le tante relazioni di Fellini con le donne, alcune intense e fugaci, altre destinate a lasciare un segno per tutta la vita del regista. Alle sue donne Fellini ha dedicato moltissimi disegni, una selezione dei quali accompagna il saggio.
Un iceberg è dedicato a registi ed attori che hanno deciso di impegnarsi politicamente con il loro cinema o con la militanza in prima persona. C'è chi, come l'argentino Fernando Solanas e il britannico Ken Loach, ha addirittura fondato un partito decidendo di entrare direttamente nell'agone politico; chi, come il 'nostro' Elio Germano partecipa attivamente a movimenti e lotte sociali; e chi, troppo giovane per partecipare alle lotte del Sessantotto, come Olivier Assayas, ragiona su cosa significa ‘impegno' per la generazione successiva al maggio francese. Chi invece gli anni Sessanta e Settanta li ha vissuti direttamente è il regista argentino Fernando Birri, maestro di alcune generazioni di cineasti in America Latina, del quale pubblichiamo un testo inedito in Italia.
Ampio spazio è dedicato anche alle nuove serie televisive, un fenomeno di sempre maggior successo. Il saggio di Mario Sesti spiega come, da Breaking Bad a House of Cards (del cui protagonista scrive Giancarlo De Cataldo), i serial tv siano un fenomeno anche 'politico', portatore di molte novità sul fronte del linguaggio e capace di affrontare tematiche scottanti. Il regista Saverio Costanzo racconta la sua esperienza con la serie In treatment. Invece il magistrato Roberto Scarpinato accusa di subalternità il cinema e le fiction che si sono occupate di mafia, suggerendo anche alcuni possibili film che nessuno ha mai fatto.
Una tavola rotonda tra i registi Alice Rohrwacher, Sydney Sibilia e Michelangelo Frammartino ci conduce al nuovo cinema italiano, di qualità ed emergente.
Infine, quattro interviste a grandi artisti di fama mondiale. Ermanno Olmi narra il suo cinema; Nicola Piovani rivela come sono nate alcune delle più belle colonne sonore di tutti i tempi; Vittorio Storaro illustra come è diventato uno dei più importanti direttori della fotografia al mondo e Wim Wenders spiega perché ha deciso di dedicare il suo ultimo film a un grande fotografo come Sebastião Salgado.
IL SOMMARIO MAESTRI Ermanno Olmi in conversazione con Federico Pontiggia- Torneranno i prati e li coltiveremo Dalla sua casa di Asiago, là dove il primo conflitto mondiale oggetto del suo ultimo film infuriò con particolare violenza, Ermanno Olmi si chiede, una volta di più: ‘Perché la guerra?’. Una domanda che è importante porsi, sostiene il regista di Torneranno i prati, nella misura in cui celebrazioni e versioni ufficiali comprendono sempre ‘percentuali di bugie’, mentre l’unico modo per dare una riposta alle migliaia di giovani morti nelle trincee italiane rimane quello di cercare di capire.
ICEBERG 1 - cinema e impegno Olivier Assayas in conversazione con Giona A. Nazzaro- Io, cineasta libertario figlio dell’‘Après mai’ Troppo giovane per essere in piazza durante il maggio francese, il regista di Qualcosa nell’aria ripercorre per i lettori di MicroMega il proprio itinerario di avvicinamento al cinema e alla politica negli anni del post-Sessantotto. Ne emergono una vocazione artistica e un modo di intendere l’impegno caratterizzati in senso antitotalitario e debitori nei confronti del situazionismo e della scuola di Francoforte, pronti a mettere in discussione una certa sclerosi delle idee marxiste e perfino i limiti politici di un’icona della sinistra francese come Jean-Paul Sartre.
Fernando Solanas in conversazione con Silvana Silvestri- La mia sinistra oltre l’incubo Menem e la delusione Kirchner In Italia è conosciuto soprattutto come il regista di L’ora dei forni, il documentario sul colonialismo e le lotte di liberazione del Latinoamerica che costituì la sua opera prima. Meno noto è invece il fatto che l’impegno artistico e politico di Fernando Solanas è continuato negli anni successivi, fino a sfociare nella fondazione di un movimento politico, Proyecto Sur, e nella creazione del Frente Amplio Unen, la coalizione di centro-sinistra che potrebbe riservare grandi sorprese alle prossime presidenziali in Argentina.
Elio Germano in conversazione con Fabrizio Tassi e Giacomo Russo Spena- Un ‘antidivo’ contro i padroni L’interpretazione di Giacomo Leopardi in Il giovane favoloso di Martone lo ha definitivamente consacrato. I suoi riferimenti culturali sono Wittgenstein, Marx e Totò. Politicamente sta sempre dalla parte dei lavoratori e non dei padroni. Partecipa attivamente a iniziative e movimenti che danno fastidio ai poteri forti del cinema, ricevendo persino delle minacce. È ormai un vero e proprio big del grande schermo, uno degli attori più bravi e acclamati del momento, che può essere affiancato alle grandi icone del cinema italiano. Una conversazione con un ‘antidivo’ che non ama le etichette.
Fernando Birri - La rivoluzione nella rivoluzione del nuovo cinema latinoamericano Un testo del 1968 del grande regista argentino Fernando Birri ci guida alla scoperta del cinema latinoamericano di quegli anni, che si rifaceva al ‘realismo critico’ – in antitesi al dogmatismo sovietico e alla cultura occidentale – e aveva come punti di riferimento Lukács e Brecht: “Quando i popoli gridano o cantano il loro anelito di liberazione, di cosa deve parlare il cinema? Deve gridare o cantare con essi o, al contrario, tacere?”.
Ken Loachin conversazione con Marco Zerbino - Jimmy’s Left Unity Aveva detto che non avrebbe più fatto film a causa dell’età ormai avanzata. E invece Ken Loach è di nuovo nella sale con Jimmy’s Hall, una storia di militanza, amore e divertimento. Parallelamente, il regista inglese continua a portare avanti il suo impegno politico, fino a farsi promotore di un nuovo partito, Left Unity, che punta a colmare il vuoto lasciato a sinistra dal mutamento genetico dei laburisti.
ICEBERG 2 - piccolo grande schermo Mario Sesti - Potere canaglia e serial tv Da Breaking Bad a House of Cards, passando per la ‘nostra’ Gomorra. Un fenomeno globale con milioni di spettatori, le serie televisive criticano il potere, trattano la politica in maniera dissacrante e piacciono sempre più a un pubblico ormai stanco delle tradizionali forme di narrazione cinetelevisive.
Giancarlo De Cataldo - House of Cards e l’eroe bastardo House of Cards è una delle migliori serie tv degli ultimi tempi e mette in scena una politica che più sporca non si può. Una melma nella quale nuota felice il protagonista Frank Underwood, un uomo pronto a tutto per raggiungere i suoi obiettivi e che – colpo di genio degli autori – di tanto in tanto spiega le ragioni del suo agire in a parte fulminanti degni del miglior O’Neill. Riproponendo il più classico degli interrogativi posti da questo genere di racconti: offrono modelli distorti o mettono in guardia dai pericoli dello sfacelo?
Saverio Costanzo in conversazione con Flavio De Bernardinis- L’inconscio a cielo aperto Nata da un format israeliano, la serie televisiva In Treatment sbarca in Italia su Sky con la regia di Saverio Costanzo. Un prodotto sperimentale che ha come protagonista uno psicoterapeuta interpretato da Sergio Castellitto. Aspetto caratterizzante è la fidelizzazione dello spettatore che si produce attraverso un doppio movimento: il transfert con l’analista e l’identificazione con il paziente. Per il regista siamo di fronte a uno spettacolo di qualità, ma senza alcuna pretesa intellettuale: “Rimane televisione: non cinema. È molto diverso. Il cinema possiede di suo una missione intellettuale. La televisione, no: questa caratteristica riguarda tutto ciò che fa, anche di buono, la televisione”.
Roberto Scarpinato - Mafia in cerca d’autore Fino al 1992-93 era complicato fare un film sulla mafia che mettesse sullo schermo le intricate e complesse relazioni di Cosa nostra con l’establishment politico ed economico del paese. Anche pellicole pregevoli, che chiamavano in causa le complicità dei potenti – dal Salvatore Giuliano di Rosi a Il giorno della civetta di Damiani – risultavano politicamente innocue per ‘insufficienza di prove’. Ma negli ultimi vent’anni di prove ne sono state messe insieme una montagna. Basterebbe prendere le sentenze definitive che ormai a centinaia si accumulano nei tribunali per individuare delle ottime sceneggiature. Continuare a rappresentare la mafia come una questione che riguarda una minoranza di criminali ‘brutti, sporchi e cattivi’ oggi non è più perdonabile.
TAVOLA ROTONDASydney Sibilia / Alice Rohrwacher / Michelangelo Frammartino (a cura di Enrico Magrelli - Giovane cinema italiano Un dialogo fra tre registi italiani, tra i più promettenti della nuova generazione. Si parla del bisogno di tornare a lavorare insieme; di quel fantasma che si chiama spettatore, ma nessuno sa chi è davvero; del rito del cinema come evento collettivo; del perché le immagini siano più importanti delle storie; di tutto ciò che ci ha fatto perdere il digitale; dell’equivoco dell’impegno e di quello dell’intrattenimento.
ICEBERG 3 - cinema, musica, fotografia Nicola Piovani in conversazione con Jean A. Gili- Cinema in note Uno dei più importanti autori italiani di musiche per il cinema racconta in questa intervista inedita in italiano il suo rapporto con i grandi registi con cui ha lavorato: da Fellini a Monicelli, da Benigni a Bellocchio, dai fratelli Taviani a Moretti. E spiega che la musica nel cinema deve stare sempre un passo indietro, entrare in punta di piedi.
Vittorio Storaro (a cura di Fabrizio Tassi) - Brando, Caravaggio e la caverna di Platone Dalla collaborazione con Bertolucci a quella con Coppola, da Il conformista ad Apocalypse Now, dallo studio della luce a quello del colore, unendo tecnica e cultura. Tre Oscar all’attivo e innumerevoli altri premi e riconoscimenti. Un ‘cinematografo’, che non è – spiega lui stesso – una sala di proiezione ma uno scrittore che usa la luce al posto delle parole: e che in 40 anni ha contribuito a creare alcune delle sequenze più belle del cinema. Uno dei più grandi direttori della fotografia di sempre racconta qui pezzi della sua straordinaria avventura: gli inizi, gli incontri, i film rivoluzionari, la celeberrima scena di Kurtz nel tempio, fino al progetto dedicato all’infanzia di Maometto, partito nel 2010, che aspettiamo con grande curiosità.
Wim Wenders in conversazione con Mario Sesti- Verità e bellezza Il suo ultimo film, Il sale della terra, è un documentario sul grande fotografo Sebastião Salgado, girato insieme al figlio di quest’ultimo. Un film che ha dato a Wim Wenders l’occasione di portare le fotografie sul grande schermo, creando un corto circuito tra la fissità della foto e l’immagine in movimento che è il cuore del cinema. Ma il rapporto del regista tedesco con la fotografia viene da lontano, anzi è stato proprio quello a condurlo al cinema.
ICEBERG 4 - omaggio a Federico Fellini Federico Fellini in conversazione con Jean A. Gili- Io, Federico In due colloqui finora inediti in italiano e risalenti a due periodi diversi, il grande regista scomparso nel 1993 affronta il tema della genesi della propria vocazione cinematografica, partendo dai primi passi mossi nella capitale come redattore del Marc’Aurelio, il giornale satirico diretto da Vito De Bellis, passando per le prime sceneggiature scritte per i film di Macario e Aldo Fabrizi fino all’incontro decisivo con Rossellini e con la ‘magia’ di Cinecittà.
Paolo Sorrentino in conversazione con Gianni Canova- Quello che ho imparato da Federico Fellini Per molti critici il regista di Il divo è colui che meglio interpreta, raccoglie e sviluppa la lezione di Federico Fellini. Anch’egli è convinto che il cinema debba passare per la menzogna, l’invenzione e la finzione, se si aspira a cogliere e mettere in scena qualche frammento di verità. In La grande bellezza una sequenza è palesemente un ossequio al maestro: “Il mio omaggio consapevole finisce qui. Poi, è ovvio, inconsciamente ogni film è un continuo citare. E tu citi le immagini e le situazioni che ami di più”. E come per il maestro, “mi piace l’idea di aver lasciato tracce: di aver riaperto discussioni e polemiche sul cinema”.
Gianni Canova - Fellini politico: a sua insaputa? Hanno provato a renderlo pacioso, bonario, innocuo, compatibile. A nascondere la carica dinamitarda che ancora oggi emana dal suo cinema. Ma Fellini dagli anni Ottanta in poi si è scagliato contro la televisione, contro la colonizzazione dell’immaginario collettivo ad opera del Circo Barnum composto dagli anchorman e showman, contro la figura di Berlusconi. Ai suoi funerali, Ettore Scola notava come fosse stato ‘il più politico’ dei registi italiani, colui che – collocandosi al di là degli schieramenti e delle appartenenze ideologiche – è riuscito a darci ciò che pochi altri hanno saputo fare: l’intuizione profonda della vera natura del fascismo in Amarcord (1973), l’intuizione altrettanto profonda delle dinamiche del potere e della crisi della nostra democrazia in Prova d’orchestra (1979).
Gianfranco Angelucci - Fellini proibito (con dei disegni di Federico Fellini) Lea, Anna, Sandra, Nadia, Selma, Patrizia, Liliana, Giovanna, Carlotta, Giusy, Jolanda, Adriana, Daniela… Un saggio inedito, ricco di annotazioni e particolari finora poco noti, raccolti di prima mano dall’amico e sceneggiatore Angelucci, racconta del rapporto di Federico Fellini con le numerose donne che hanno attraversato la sua esistenza. Relazioni intense e fugaci, o legami che sono durati tutta la vita: ognuna delle donne incontrate dal regista di 8½ ha lasciato un segno indelebile, testimoniato anche dai numerosi disegni che Fellini ha dedicato loro, e di cui pubblichiamo una selezione.
Passeggiavo sul lungomare del porto, davanti alla banchina, quando a un certo punto il mio sguardo è stato attratto da un gran numero di pesci che affioravano sulla superficie del mare, in una zona placida e dal fondale basso e limaccioso. Mi sono affacciato alla balaustra d’acciaio per osservarli meglio. Erano mùggini, si muovevano in branchi, a diverse velocità. Ogni branco sembrava un’entità a sé stante; si spostava come un unico, enorme mùggine. Di tanto in tanto qualche pesce saltava a pelo d’acqua. Altri, invece, uscivano dal gruppo per rintanarsi vicino alle barche ormeggiate o guizzare sotto i pontili galleggianti. Poi, fatto un giro e un altro ancora, si rimettevano in fila riunendosi al branco. Mentre guardavo incuriosito e mi facevo domande di ogni genere, si è avvicinato un bambino, sciarpa al collo e cuffia di lana in testa, avrà avuto sei, sette anni. Pareva affascinato anche lui da quello strano fenomeno. – Sono cento – ha detto indicando in modo generico oltre la ringhiera. – Oh, secondo me sono molti di più – gli ho detto – almeno un migliaio. Lui ha annuito. – Sì – ha fatto lui – ma laggiù ce n’è un milione. – Mi sa di sì – gli ho detto – laggiù, in mare aperto. Il bambino è rimasto in silenzio per un po’, gli occhi pensosi. Quindi ha detto: – E poi lo sai che cosa succede? Dal tono di voce ho capito che c’era da attendersi una rivelazione risolutiva, qualcosa di molto simile a una verità sacra e inviolabile. – No – gli ho detto – non lo so. – Succede che arriva un pescecane, apre la bocca e se li mangia tutti.
Filosofia. Da vent’anni Giorgio Agamben ha esibito, e poi sciolto, le relazioni fondamentali dell’ontologia politica. Qui, dove vita e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere sono tutt’uno, l’opera coincide con l’inoperosità
Chiudendo nel 2011 Altissima povertà (il volume IV,
1 della grande opera Homo sacer), Giorgio Agamben evidenziava la grandezza
e i limiti della regola francescana: una forma di esistenza che situandosi
fuori dal diritto, rifiutando la proprietà in nome dell’uso, definiva tuttavia
l’uso ancora rispetto al diritto, in maniera unicamente negativa. Era
infatti mancata al francescanesimo «una definizione dell’uso in se
stesso», che veniva infine concepito dai suoi difensori come una serie di
atti di rinuncia. Agamben si congedava dunque dal lettore lasciando
aperta la duplice domanda: «Come potrebbe davvero un uso tradursi in un ethos
e in una forma di vita? E quale ontologia e quale etica corrisponderanno
a una vita che, nell’uso, si costituisce come inseparabile dalla
sua forma?».
L’altro
libro del 2011, Opus dei (Homo sacer, II, 5), un’indagine archeologica del
paradigma operativo, dell’ufficio e (nella loro intima connessione) della
volontà e del comando – ossia di quell’apparato concettuale che da Aristotele
a Kant ha informato l’intera cultura occidentale – accennava, nelle
battute finali, al prossimo orizzonte di ricerca: «Il problema della filosofia
che viene è quello di pensare un’ontologia al di là dell’operatività
e del comando e un’etica e una politica del tutto liberate dai
concetti di dovere e volontà». Le indicazioni dei due libri erano dunque
rigorosamente convergenti: l’ethos finalmente affrancato dalla volontà
e dal dovere coincide con la forma di vita, e questa non è che
uso, può essere cioè concepita solo elaborando un’ontologia della non operatività.
Già in Homo sacer, I (1995), d’altra parte, Agamben usava i trattini per
scrivere forma-di-vita, nominando così un «essere che è solo la sua nuda
esistenza, una vita che è la sua forma e resta inseparabile da
essa», e che si potrebbe pensare al di là della distinzione aristotelica
fra potenza e atto, della partizione classica fra zoè e bios,
o del bando sovrano che separa e detiene la nuda vita. La ricerca ventennale
poteva ora giungere a compimento, coincidere cioè con la «definizione
dell’uso in se stesso».
L’uso dei
corpi. Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, pp. 366, euro 18,00) risponde alle attese
con la forza dirimente del capolavoro. È, questo nono e ultimo volume,
un libro con cui sarà d’ora in poi necessario – anche se non facile – misurarsi,
non solo perché, per ricchezza, erudizione e chiarezza speculativa
si impone nel panorama filosofico di questo tempo, ma perché davvero
dischiude una nuova dimensione del pensiero mentre restituisce – con buona
pace della «potenza costituente», cioè delle istituzioni e del governo
– tutta la serietà dell’anarchia (intesa in senso filosofico e politico
insieme).
Quella vita che è solo la sua nuda esistenza, la vita che appunto il
diritto esclude e cattura, la vita bandita e sacra (insacrificabile,
spiegava già Agamben andando oltre Kerényi, nel senso che può essere uccisa
senza commettere omicidio), si presenta all’inizio del nuovo lavoro in una
frase di Guy Debord: «cette clandestinité de la vie privée sur laquelle on
ne possède jamais que des documents dérisoires». È la vita corporea,
separata da noi come lo è un clandestino e insieme inseparabile,
proprio come non si separa da noi colui che «condivide nascostamente con
noi l’esistenza». Certo, rispetto all’ultimo Foucault, che aveva pensato la
sottrazione del corpo, in nome del piacere, ai meccanismi di potere della
sessualità, Agamben aveva espresso le proprie riserve osservando che il
corpo è per noi «già sempre preso in un dispositivo … già sempre corpo
biopolitico e nuda vita».
Ma
l’accento batte qui sull’uso, che si tratta di isolare, strappandolo alla
sua assimilazione all’atto, alla produzione, all’opera. Ora, un puro uso
del corpo era stato concepito dalla cultura classica nella figura
e nell’attività dello schiavo che, spiega Agamben, non è interpretabile
secondo una nozione di lavoro tanto implicita e ovvia per noi quanto
ignota ai Greci. L’operaio potrà anche essere schiavizzato, ma lo schiavo non
è un operaio. Il suo corpo, diceva Aristotele, è uno strumento,
ma non produce come il plettro o la spola un’opera separata dal suo
uso; è piuttosto uno strumento pratico, simile cioè a una veste
e a un letto, che soltanto si usano. Improduttivo, e pressoché
privo di virtù, quest’uomo-suppellettile è così l’escluso dalla vita politica
che rende possibile agli altri di essere liberi, interamente politici,
veramente umani.
Si riconosce
lo schema tipico dell’esclusione includente, o dell’«eccezione» – nel
senso che Agamben ha dato a questo termine. Ma proprio per questo,
secondo un gesto teorico anch’esso tipico e complementare, «lo schiavo
rappresenta la cattura nel diritto di una figura dell’agire umano che ci
resta ancora da delibare».
L’indagine
si stringe dunque sul verbo chresthai: usare (che infatti non può reggere
l’accusativo) indica nel suo significato più proprio (cioè mediale) non una
relazione di un soggetto con un oggetto esteriore ma la relazione che si ha
con se stessi. La differenza da Foucault è ora segnata sottilmente:
è vero infatti che in una lezione famosa del corso del 1982, L’ermeneutica
del soggetto, la nozione platonica, ma anche stoica, di chresis, veniva
restituita al suo senso più ampio e vario (comportamento, contegno,
attitudine) e interpretata nel segno della «cura di sé» e del soggetto:
chi ha cura di sé, insegnava Foucault, si occupa di se stesso come soggetto
della chresis, cioè di comportamenti, attitudini e così via. Ma se
già la chresis, secondo la distinzione acuta di Agamben, è un «rapporto
con sé», essa comporta uno spostamento essenziale al di là della dimensione
del soggetto.
Non c’è
più un soggetto della chresis di cui occuparsi, ma solo uso, solo rapporto
con sé e nessun sé come soggetto. Qui Agamben potrebbe sembrare vicino
a Heidegger, secondo il quale l’espressione Selbstsorge (cura di sé) –
che segna dall’antichità la comprensione pre-ontologica del soggetto –
è solo una tautologia, poiché l’Esserci è già sempre alle prese
con se stesso (Essere e tempo, § 40). Ma mai il suo confronto col maestro
dei seminari di Le Thor è stato così critico e serrato come in questo
libro. Proprio il modo in cui Heidegger privilegia la cura
e descrive l’uso, assimilandolo all’energeia, dimostra secondo Agamben
che egli non è uscito dalla cornice aristotelica. «Definire l’uso in
sé stesso» significa invece pensare un uso della potenza che non è semplice
passaggio all’atto. Significa lavorare sulle nozioni di hexis, habitus,
abitudine, distinguere, oltre la coppia potenza/atto, un «uso abituale»:
se Glenn Gould è un pianista anche quando non suona, non lo è in
quanto «titolare o padrone della potenza di suonare, che può mettere
o non mettere in opera», ma perché non cessa mai di essere colui che ha
l’uso del piano, «vive abitualmente l’uso di sé» come pianista. L’uso non
è un’attività, ma una forma-di-vita.
Per questo la seconda, ricchissima parte del libro, muove nella direzione
che Heidegger ha intravisto senza poter seguire: Agamben vi intraprende
dapprima una accurata archeologia del «dispositivo aristotelico», ontologico
e insieme linguistico, che ogni volta isola il soggetto scindendo
essenza ed esistenza, per addentrarsi poi nel campo ancora inesplorato
dell’«ontologia modale». Se una volta il pensiero moderno si è spinto
fino a questo territorio, è stato nel carteggio tra Leibniz
e Des Bosses e con quel concetto a cui Leibniz ha dato il
nome («inattendu et énigmatique» dirà Charles Blondel) di vinculum substantiale.
Caduto – con l’eccezione notevole di Maine de Biran – in un cono d’ombra per
tutto l’Ottocento, il vinculum, che per Leibniz unisce la molteplicità
brulicante delle monadi in una sola sostanza, è stato riscoperto nel
1930 appunto da Blondel (in chiave antikantiana), poi dallo storico Alfred
Boehm e in tempi più vicini da Gilles Deleuze, che gli ha affidato un
ruolo chiave nel passaggio dall’ontologia classica alla sua «filosofia
dell’avere».
L’originale
strategia di Agamben punta invece sul termine «esigenza»: se il vincolo,
come diceva già Leibniz, esige le monadi, proprio l’esigenza dev’essere ora
sostituita alla sostanza come concetto centrale dell’ontologia. L’essere non
si appropria dei modi d’essere, ma li esige, ossia si dispiega in essi, non
è altro che le sue modificazioni. La vita non è che la sua forma
e la forma – secondo la bella espressione di Vittorino – si genera
vivendo. Tutte le opposizioni (esistenza/essenza; potenza/atto… ) su cui si
era costruita la tradizione metafisica vengono così revocate, e con
esse anche tutte le partizioni su cui, con un progetto corrispondente, la
filosofia politica ha nei secoli innescato e nutrito il dispositivo
della sovranità (nuda vita/ potere; oikos/ polis; violenza/ ordine;
moltitudine/ popolo).
Nella
forma-di-vita, nella vita che si forma o genera vivendo, zoè e bios
non sono più in una relazione oppositiva, ma «si contraggono l’una
sull’altra», entrano in contatto. Agamben riprende questa parola da Giorgio
Colli, e nel suo significato tecnico: il contatto è «un vuoto di rappresentazione»
(dove rappresentazione significa a sua volta, per Colli, «una semplice
relazione»). Ora, Homo sacer, I insegnava che la forma pura del rapporto
è il bando sovrano. Giungere, nell’uso o nel contatto, ad di là
della relazione, vuol dire perciò oltrepassare davvero una soglia
ontologico-politica, pensare insieme l’essere e la politica non più come
rapporto o rappresentanza.
Coerentemente,
quindi, l’ultima parte della ricerca – che è anche una ricapitolazione
dell’intero disegno di Homo sacer – propone una «Teoria della potenza destituente».
Che cos’è infatti l’uso come potenza non più subordinata all’atto, ormai
sciolta dall’energeia ? Senz’opera, senza produzione, non lavoro né paresse,
è la costante disattivazione della macchina ontologica, è la
potenza che svela, espone e neutralizza tutte opposizioni collaboranti.
E se la filosofia, secondo il motto di Kojève che Agamben ama ricordare,
è quel discorso che parlando di qualcosa parla anche del fatto che sta
parlando, destituente è proprio questa ventennale ricerca.
Con
l’acribia del filologo e l’acume del teorico, l’autore di Homo sacer non
ha fatto che esibire e sciogliere, da vent’anni a questa parte, le
relazioni fondamentali dell’ontologia politica. E qui, dove vita
e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere non si distinguono
più, l’opera chiamata Homo sacer coincide con l’inoperosità.
Al di là
del soggetto, e dei principi del dovere, della volontà, al di là del
comando, del bando sovrano o del vincolo tra potere costituente
e potere costituito, lì dove non vi sono più istituzioni né governi,
oltre la bio-politica, si può finalmente nominare la vera anarchia. Modo
o forma-di-vita, questa soltanto «si libera come contatto»: disattivando
il dispositivo che la trattiene, cioè «con la lucida esposizione» della
stessa anomia o «anarchia interna al potere».
Squallidi, teneri e dannati, gli antieroi di Richard Yates
— Francesca Borrelli,
Narrativa americana. Secondo romanzo dell'autore di "Revolutionary Road", "Sotto una buona stella" racconta l'odissea isterica di una scultrice mancata e la vita in guerra di suo figlio
Ciò che rende Richard Yates uno scrittore così singolare benché
non esibisca segnali stilistici clamorosi, ha a che vedere con la
sua ricorrente capacità di appassionarci a personaggi perdenti, ma
non fino al punto di proporsi quali figure esemplari della miseria umana;
come se una naturale discrezione tenesse le pagine dello scrittore americano
lontane dagli eccessi, e il suo pudore si traducesse nella abilità di
trovare la giusta misura del pathos. Per di più, Yates sa rendere attraenti
le vicissitudini davvero poco eclatanti di personaggi senza particolari
caratteri distintivi, non disegna scene memorabili, e le trame dei
suoi romanzi si snodano in buona parte prevedibili, senza mai sbilanciarsi
in brusche virate, mentre tutta la riserva di suspence si alimenta, in
fondo, a niente altro se non le ricadute in quella autodistruttività
che ciclicamente e indefettibilmente guida le gesta dei suoi personaggi.
Certo, anche gli eventi esterni spesso infieriscono, ma ciò che determina il
destino degli uomini e delle donne cari a Yates proviene dalla struttura
della loro personalità, dalle loro organizzazioni difensive contro una
vita che sembra averli previsti con le spalle al muro.
Quasi
tutto ciò che lo scrittore americano inventa ha solide radici nella sua biografia,
sulla quale domina, come una costellazione sinistra, la figura della madre,
che si chiamava Ruth e era una scultrice proprio come Alice Prentice,
anima principale del secondo romanzo di Yates, Sotto una buona stella,
scritto nel 1969 e tradotto solo ora da Andreina Lombardi Bom (minimum
fax, introduzione di Francesco Longo, pp. 411, euro 14,50). Otto anni
prima, l’unico vero successo dello scrittore statunitense, Revolutionary
Road, sembrò fissare la soglia delle aspettative troppo in alto per essere
di nuovo raggiunta, e dunque agì retroattivamente a mo’ di maledizione,
oscurando la fama di altri romanzi che avrebbero meritato di venire valutati,
se non altro, come una conferma. Il fatto è che nulla di quanto Yates
avrebbe poi raccontato risultò tanto coinvolgente quanto i litigi
e le frustrazioni dei giovani Wheeler, gli abitanti di Revolutionary
Road insoddisfatti e idiosincratici rispetto allo stereotipo borghese
anni ’50, che loro malgrado si trovano a incarnare.
Quella che
Yates interpretò con i suoi romanzi sarebbe passata alla storia come
l’età dell’ansia. Tre anni dopo la sua nascita cominciò la Grande depressione,
poi venne la guerra, possibile teatro di riscatto per uomini come quelli che
lo scrittore americano mette in scena. Proprio uno di loro è il protagonista
di Sotto una buona stella: si chiama Robert J. Prentice, viene arruolato
a diciotto anni come fuciliere e destinato, subito dopo lo sfondamento
tedesco nelle Ardenne belghe, a raggiungere la Normandia, poi
l’Alsazia sotto il comando della Prima Armata francese. Sempre meno capace di
captare il senso di ciò che gli succede intorno, Prentice avverte le scene
che la guerra offre alla sua inesperienza come una sequenza di riprese montate
a casaccio: le poche azioni belliche in cui è coinvolto rivelano
la sua goffaggine ma al tempo stesso il suo coraggio e il desiderio
quasi disperato di farsi valere. Deve la propria insicurezza al fatto di
essere cresciuto lontano dal padre, un brav’uomo che provvede al suo sostentamento
e a quello della madre scialacquatrice, verbosa e manicale nel
suo ottimismo fuori luogo, il cui umore sale a misura delle illegittime
fantasie di grandezza che le derivano dal suo lavoro di scultrice.
Da bambino
Prentice posava nudo per lei, sfidando il sarcasmo dei compagni di scuola
e la noia delle lunghe giornate passate immobile con il braccio piegato
e un grappolo d’uva a sfiorargli la bocca. Da grande scrive alla
madre lettere dal fronte, ma prima ancora – quando il romanzo prende avvio –
sfrutta la breve licenza che lo separa dalla guerra che combatterà in Europa
per andarla a trovare. Ed ciò che il suo occhio registra a fornire
al lettore il primo ritratto di Alice. A dispetto delle sue fantasie di
grandeur, gli interni della casa che ora abita si presentano sciatti, arredati
con mobili sbilenchi, imbrattati di cenere di sigaretta. E quando
porta il figlio a mangiare fuori gli dice la stessa identica frase che
ripeterà quattrocento pagine dopo alla amica di turno, ossia che tutti
i ristoranti della zona sono orrendi ma lei ne ha trovato uno decente,
anzi proprio simpatico e poco caro, come a significare che il
suo fiuto e il suo indubbio buon gusto bastano a dissolvere lo
squallore in cui le tocca vivere.
La carriera
artistica di Alice è «una odissea isterica», resa sopportabile dalla convinzione
di trovarsi comunque sotto quella buona stella che dà il titolo al libro,
e soprattutto confortata dalla solidarietà incrollabile, sebbene
non acritica, del suo bambino, che cresce sentendosi l’unico senza un
padre, l’unico a avere statue nel garage invece di una macchina, il solo
a essere alloggiato in una casa che sa di escrementi di gatto
e rimasugli di plastlina. Tutto ciò che Alice chiederà al figlio in
partenza per la guerra è di convenire con lei su quanto ha bisogno di
pensare: che la sua vita non è stata un fallimento.
Come molti altri personaggi di Yates, Alice Prentice deve elemosinare
dallo sguardo dell’altro ciò che le serve per sentirsi una persona meritevole
di esistere. Ha avuto un marito ma era per lei troppo modesto: litigavano
e ha divorziato. Ha ceduto alle lusinghe passeggere di altri uomini,
e quando ormai le speranze sembravano perdute era arrivato l’incontro
che avrebbe inaugurato la sua nuova vita. Fin dalla prima frase – «Ho saputo
che lei è un’artista» – Sterling Nelson si era annunciato come l’uomo
perfetto. Ma era scritto nel destino di Alice che se ne sarebbe andato, sebbene
non avesse previsto l’onta di scoprirlo in fuga dai suoi debitori. Perciò
ancora una volta lei resterà sola con il figlio, disorientata nella grande
casa vuota, fra oggetti preziosi la cui origine e il cui valore le sono
inintellegibili, pronta a un nuovo trasloco.
Non era
difficile per Yates, immedesimarsi in quella provvisorietà eletta
e regola di vita, né descrivere i gesti rivelatori di una donna
modellata su sua madre, anche lei una artista mancata al seguito della quale
aveva fatto le valigie almeno una volta l’anno. Nel ricordo che Richard Price
gli dedicò, l’autore di Revolutionary Road appare come un uomo indignato,
pieno di amarezza e di rancori. Di sicuro lo era, ma l’esperienza di una
vita tanto avara di soddisfazioni – benché avesse guadagnato una notorietà
sufficiente a fargli commissionare la stesura dei discorsi di
Robert Kennedy quando era ministro della difesa – rese al tempo stesso più
spietato e più commosso il suo sguardo di scrittore. Tutta una serie di
riverberi si aprono, infatti, a illuminare, ma anche a giustificare,
la debolezza dei suoi personaggi, le piccole miserie, la bramosia di
venire innalzati a una più nobile condizione sociale grazie alla frequentazione
delle persone «giuste».
Alcune tra
le pagine più belle di questo secondo romanzo di Yates colgono Alice Prentice
nel salotto dei grandi possidenti terrieri dai quali vorrebbe ottenere un
affitto, poi nella casa dei suoi nuovi spregiudicati vicini: in entrambe le
situazioni, tremante di disagio o di ammirazione, contempla quelli
che fino a un minuto prima le sarebbero sembrati difetti, e li converte
in virtù. Il distacco, la sciatteria, l’incuranza della più rudimentale gentilezza,
la casualità del vestire, tutto le appare come un segno di distinzione, di
rilassata libertà dei costumi, a fronte della sua convenzionalità
borghese.
Le pagine
che Yates dedica a Alice si alternano a quelle dove è protagonista
il giovane Robert, che dal fronte passa in ospedale per curarsi una polmonite,
proprio mentre la prima Armata attraversa il Reno e nel Pacifico
i marines sbarcano a Iwo Jima. L’uccisione dell’unico compagno
d’armi al quale Prentice si era affezionato gli fa cercare una occasione
per espiarne la morte, ma per quanto si affanni quella occasione non gli
verrà data.
Anche in
Cold Spring Harbor Yates attingerà alle sue personali esperienze di
inviato sul fronte – prima in Francia, poi in Germania con le forze di occupazione
– e proietterà sul personaggio di Evan le lusinghe che la guerra fornisce
alla formazione della personalità di un ragazzo; ma subito dopo ritira
quella promessa di dignitosa virilità, e anche di Evan fa un candidato
al fallimento. Qui, per la verità, il personaggio di Robert gode di qualche
luce in più, ma proprio quando il lettore sembra legittimato
a nutrire una speranza sulle sue sorti, proprio quando la guerra
è ormai finita e il giovane Prentice è pronto a andare
per il mondo, un finale brusco taglia il fiato del romanzo, come se Yates non
avesse saputo risolvere altrimenti il suo imperativo a lasciare il lettore
con l’amaro in bocca.
Storia americana . Nella sua rassegna della recente, George Packer dimostra come all’origine del dissesto ci siano soldi facili e una vorticosa sparizione di ogni idealismo politico
Si racconta che prima di diventare famosa Oprah Winfrey avesse una citazione attaccata allo specchio, una frase da lei attribuita a Jesse Jackson: «Se posso pensarlo, e se il mio cuore ci crede, significa che posso farlo». A cosa pensasse il reverendo Jackson è storia nota. Pensava di correre per la Casa Bianca e dovette crederci con tutto il cuore, ma non riuscì mai nell’intento malgrado abbia partecipato per ben due volte alle primarie del partito democratico. Il suo fallimento è stato però compensato dal successo della conduttrice televisiva. Il jet privato di Oprah, il suo patrimonio miliardario, l’impero d’immagine che questa donna del Mississippi ha costruito con la sola forza della personalità, dimostrano che il principio di concepire un obiettivo e crederci fino in fondo è valido. Valido nella misura in cui può essere valido per un americano, ovvio. Il che è come dire: valido come può esserlo un sogno o una bella favola. In effetti, è anche qualcosa di più.
Nella versione ovviamente agiografica e poco attendibile che Oprah dà della sua infanzia, in principio c’era una bambina dalla pelle nerissima e così povera che nessuno dei suoi vestiti era comprato in un negozio. Per animali domestici aveva un paio di scarafaggi alloggiati in un barattolo. Illuminata dalla lugubre luce di inizi tanto infelici e scoraggianti, la storia di Oprah non è più soltanto la bella favola. Mattatrice indiscussa della televisione. Ambasciatrice della lettura presso il grande pubblico. La donna che dà del tu a chiunque, Presidente incluso, è la dimostrazione che ascendere dalla stalle alle stelle è ancora possibile. La parabola straordinaria di Oprah è inoltre un dito puntato contro le persone che usano i prodotti scadenti che lei reclamizza ma che mai si sognerebbe di acquistare. Fa sentire in colpa le persone che non possono chiamare «amico» John Travolta. Quale opinione potrà mai avere di sé la persona che non possiede nemmeno una casa, quando Oprah, la bambina che giocava con gli scarafaggi, ne ha addirittura nove? Insomma, l’esistenza di Oprah non soltanto dimostra che il sogno americano esiste; priva di ogni scusante coloro che non ci hanno creduto, che non ce l’hanno fatta. L’assunto che restare un perdente è dovuto soprattutto a una mancanza di fiducia in sé stessi, a una scarsa determinazione nel conquista della propria felicità, è da sempre un tratto distintivo del pensiero americano, se non il tratto per eccellenza, quello dal quale tutti gli altri discendono.
Per quanto possa apparire falsa o retorica agli occhi di noi europei, questa convinzione ha costituito il punto di forza della nazione, una risorsa morale cui attingere nei momenti decisivi. Non per nulla l’espressione «Sogno Americano» divenne popolare durante la Grande Depressione, a partire dal 1931, grazie allo storico James Truslow Adams che la usò non lesinando sull’enfasi, in un libro dal titolo che era tutto un programma, Epic of America. Peccato però che da qualche decennio a questa parte il mito evidenzi crepe importanti. I Frantumi dell’America, vincitore del National Book Award per la saggistica (Mondadori, traduzione di Silvia Rota Sperti, pp. 489, euro 25,00), racconta questo declino ormai trentennale intrecciando i percorsi di varie persone.
Alcune di esse non sono che brevi ritratti, medaglioni di celebrità, quali appunto Oprah Winfrey, stelle che fanno da fondale a cinque storie più oscure o perlomeno non illuminate dai riflettori. Il figlio imprenditore di un coltivatore di tabacco caduto in disgrazia. La figlia di un eroinomane afroamericano cresciuta nella desolazione della Rust Belt deindustrializzata. Un collaboratore di John Biden che smarrisce presto i suoi begli ideali. Il ricco fondatore di PayPal. Per finire, non una persona ma un luogo della Florida: Tampa, centro nodale di una furiosa speculazione immobiliare e di quanto scaturì dal quel furore ovvero il fenomeno del Tea Party.
È un arazzo del disfacimento quello ordito da George Packer, firma di punta del «New Yorker» che nel 2005 aveva dato alle stampe The Assassins’ Gate, inchiesta ad ampio spettro sulla disastrosa occupazione dell’Iraq da parte dall’amministrazione Bush. Per certi versi questo nuovo libro può definirsi un prequel, una risalita alle origini del declino. Packar premette che nessuno può individuare con certezza il momento iniziale, perché «come ogni grande cambiamento, anche questo iniziò innumerevoli volte, in innumerevoli modi, finché a un certo punto il paese — sempre lo stesso paese — varcò una determinata soglia storica e diventò irrimediabilmente diverso». A questa considerazione dell’autore va aggiunto che l’eventualità di una grave crisi, di una minaccia catastrofica se non apocalittica è sempre stata parte integrante del racconto nazionale. La potremmo definire la forza oscura di cui il paese ha bisogno per dimostrare a se stesso di cosa è capace, quale avversità è pronto ad affrontare per la realizzazione e la difesa del suo Sogno. Del resto, non fosse per l’abisso delle stalle, che senso avrebbe la scalata alle stelle?
Molte di queste minacce sono state soprattutto immaginarie, spettri da sbandierare in nome dell’unità nazionale, ma non sono mancati i momenti di autentica drammaticità. Tra questi il più funesto del Novecento è stato certamente la Grande Depressione ed è proprio un testo fondamentale di quell’epoca che Packer ha scelto quale modello narrativo per il suo racconto: U.S.A. di John Dos Passos. Da quella trilogia scritta nei difficili ’30 I frantumi dell’America mutuano il continuo alternare di campi lunghi e sguardi ravvicinati, l’incessante sovrapposizione di piani e tempi diversi, il frenetico e apparentemente scoordinato susseguirsi di frammenti di storie, frammenti che a tratti diventano semplici semplici frasi, immagini icastiche nelle quali si intravede un ordito di qualche tipo, un livello sotterraneo dal quale è possibile estrarre un filo rosso.
Nel mezzo del suo viaggio, Packer mostra in termini inequivocabili che all’origine del dissesto americano ci sono i soldi facili e la conseguente e vorticosa sparizione di ogni idealismo politico. Lo fa attraverso le parole di Jeff Connaughton, consigliere dell’amministrazione Clinton vendutosi alle ragioni del lobbismo. E non senza profitto: «Quando piovvero vantaggi su Wall Street così come su Washington, quando diventò possibile fare milioni di dollari sul bottino aziendale — io ne ne sono un esempio vivente, nessuno ha mai sentito parlare di me eppure sono uscito da Washington con milioni di dollari in tasca -, quando il prezzo di certi comportamenti diminuì, quando cominciarono a erodersi e a scomparire le norme che se non altro frenavano le persone dall’essere sfrontate nel loro modo di guadagnare, la cultura cambiò».
È quella che Connaughton chiama la «teoria universale», teoria che dovrebbe spiegare cosa è diventato il denaro nella vita americana a partire dagli anni ’80: il segno di un’intera epoca, di un declino. Allo sgretolarsi delle regole che facevano funzionare le vecchie istituzioni, la nazione di un tempo è andata in frantumi, lasciando un vuoto riempito dal capitale organizzato, «la forza di default della vita americana». Il mito vuole che crolli di tale specie non portino soltanto disastri. I disastri rinnovano. Non si dice forse che bisogna vivere i momenti di crisi come occasioni da cogliere al volo?
L’America è il paese della libertà e pertanto Packer non manca di osservare che l’occasione offerta dal crollo è stata per l’appunto «una libertà che non si era mai vista prima»; ma in un mondo troppo libero, nel gioco tipicamente americano del vincere o perdere, «i vincitori vincono come non mai, levandosi in alto come enormi dirigibili, mentre i perdenti precipitano a lungo prima di toccare terra, e a volte non la toccano mai». Il vero prezzo da pagare non è tuttavia il fallimento in sé bensì la solitudine nella quale ognuno gioca le proprie carte. E poco importa allora che la partenza sia uno scalino di privilegio o uno scarafaggio chiuso in un barattolo. Nell’era della libertà sfrenata soprattutto una cosa va tenuta a mente: che nessuno si preoccuperà mai di te all’infuori di te.
Resistenza. Nella storia dei gap di Santo Peli, tentativi e fallimenti nelle azioni di piccoli gruppi, presto disintegrati da errori e tradimenti; ma si contarono anche gesti eroici, soprattutto fra le donne
Un libro di storia che ha nel titolo la parola «terrorismo» è una occasione da non perdere. Viviamo immersi in un presente senza tempo: l’orizzonte è occupato da una specie di terza guerra mondiale contro il terrorismo. I «Guantànamo files» documentano quante e quali torture siano state praticate nel territorio extra-legem della concessione strappata a Cuba dall’imperialismo americano del primo ‘900 mentre giudici e governo degli Stati Uniti chiudevano gli occhi e la cultura giuridica del paese abituato a definirsi orgogliosamente «governato dalla legge» scivolava verso gli abissi della legittimazione di trattamenti degradanti in nome della guerra al terrorismo. E ora, ecco che lo storico Santo Peli propone di collegare la Resistenza col terrorismo in Storie di Gap Terrorismo urbano e Resistenza (Einaudi, pp. VIII-280, euro 30,00). La Resistenza è un’epopea di montagna, non la si può immaginare senza paesaggi alpini. Lo dicono le sue canzoni: «Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì su per l’aride montagne»: ma se il partigiano fosse rimasto sulla montagna, magari sepolto «sotto l’ombra di un bel fior», la storia dell’Italia sarebbe stata diversa. Nessuno si sarebbe accorto che c’era una guerra civile, così come nessuno seppe allora della deportazione degli ebrei del ghetto di Roma o della strage di Meina. Gli occupanti tedeschi avevano tutto l’interesse a tenere all’oscuro la popolazione e a presentarsi come i tutori dell’ordine che il regime repubblichino non era in grado di garantire. Così all’arrivo degli alleati gli italiani sarebbero usciti dai rifugi antiaerei né più né meno come vi erano entrati. Fu pensando a come trasformare la guerra in rivoluzione sociale e politica che a fine settembre 1943 il Partito comunista dette vita, accanto al modello organizzativo delle nascenti brigate Garibaldi, alla costituzione dei Gap, gruppi d’azione patriottica: accanto al modello iugoslavo della guerra per bande i comunisti si importava così in Italia quello francese dei «Francs-tireurs et partisans». Il colore italiano lo dava l’epopea risorgimentale: il nome di Garibaldi, l’evocazione dei «patrioti», la Resistenza come secondo Risorgimento. In realtà quello che fu organizzato coi Gap fu un progetto di terrorismo urbano. Fu voluto e attuato «solo dal partito comunista», come scrisse Pietro Secchia : anche se non mancarono apporti significativi del Partito d’azione e del Partito socialista. Tema duro e difficile: finora nessuno lo aveva percorso in modo sistematico. Difficile per la mancanza o la dispersione delle fonti, che rendono impossibile una ricostruzione dettagliata capace di mostrare i fili che connettono tante storie di individui e di piccoli gruppi; ma difficile anche per ragioni inerenti il fenomeno del terrorismo. In questo libro appare straordinariamente interessante l’analisi di come fu creato il terrorista quale tipo umano. C’è un sentimento comune, una repulsione che scatta davanti al compito di uccidere a sangue freddo una persona che non si conosce. L’odio contro un fascista, come il colonnello Ingaramo, una spia come il Pollastra (Bruno Landi) o Nello Nocentini, un torturatore come il maggiore Carità, era una spinta sufficiente all’azione: si poteva contare anche sulla approvazione del quartiere popolare antifascista. Ma perché uccidere a freddo un vecchio professore indifeso, come Giovanni Gentile? O un soldato tedesco, un giovane uomo ignaro e senza altra colpa che di essere un occupante straniero? Non ci fu certo il tempo di selezionare e addestrare i membri delle Gap. Da qui gli episodi di attentati falliti per l’invincibile difficoltà a diventare un assassino di persone sconosciute e indifese. Eppure non c’è dubbio che la necessità storica e politica della discesa della guerra civile nelle città esce confermata dallo studio di Peli e le vicende individuali da lui ricostruite ci riportano il sapore aspro del risveglio a caro prezzo degli italiani dall’attendismo, dalla torpida quiete ventennale del regime. Quando i Gap cominciarono a uccidere non solo fascisti italiani ma anche soldati tedeschi si scatenò, come previsto, la reazione in forma di rappresaglie. E la popolazione italiana, duramente risvegliata dall’assuefazione al regime di occupazione tedesca apparentemente pacifica, pagò prezzi di sangue. Si aprirono da allora ferite difficili da rimarginare: sappiamo bene quale lunga scia di polemiche abbia lasciato l’episodio che portò alle Fosse Ardeatine e quanto inchiostro continui a scorrere ancora intorno all’uccisione di Giovanni Gentile. Da qui emerge un problema generale attualissimo, di cui Santo Peli illumina la natura tragica: la difficoltà di creare il terrorista come tipo umano capace di uccidere a freddo, di mettere nel conto il prezzo di vite innocenti che sarà pagato. Leggendo le sue pagine viene in mente una scena del film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri: quella della donna che mette la bomba in un mercato dove stanno entrando donne e bambini. Nella Resistenza italiana raccontata da Santo Peli incontriamo donne e uomini a cui si dovette insegnare a superare la repulsione istintiva a uccidere a tradimento persone sconosciute. Imparare ad ammazzare qualcuno senza l’impulso dell’offesa da risarcire o della necessità di difendersi voleva dire passare dal tipo del partigiano (il nemico assoluto, come l’ha definito Carl Schmitt) all’altro e ben diverso livello, quello del terrorista. E non fu facile creare questo nuovo tipo umano. Lo si vide ripetutamente nella storia delle azioni di quei mesi, quando i primi membri dei Gap non riuscivano a premere il grilletto; erano persone di indiscutibile valore e determinazione, ma nel momento decisivo li bloccava un istinto, un interdetto morale profondamente radicato. Di fatto l’esperimento dei Gap fu breve, limitato a pochi gruppi o individui, minato da una incredibile povertà e precarietà di mezzi: si pensi che i gappisti che il 1° dicembre 1943 uccisero a Firenze Gino Gobbi, il comandante del distretto militare, avevano due biciclette in quattro e due pistole malandate di cui una si inceppò. Quelli che a Roma uccisero un militare tedesco dovettero servirsi di trincetti da calzolaio. La storia dei Gap ricostruita con una ricerca paziente e accurata da Santo Peli fu una successione di tentativi e di fallimenti, di piccoli gruppi presto disintegrati da errori e tradimenti; ma fu anche storia di eroismi straordinari, in cui brillarono specialmente le donne. E comunque la resistenza a uccidere i tedeschi rimase come un ostacolo difficile da superare anche quando la lotta dalle città si trasferì alle campagne. Il che avvenne nell’estate del ‘44 . Fu a questo punto che, conclusa la stagione dei Gap, entrò in scena un nuovo progetto strategico, quello delle Sap. Per dare vita all’insurrezione di popolo come vero momento di liberazione nazionale il terrorismo non bastava. Bisognava estendere la rivolta, coinvolgere la popolazione. Questa l’idea di Togliatti nell’appello lanciato da Napoli il 6 giugno 1944. Fu la svolta che portò alla costituzione delle Sap: squadre reclutate dal proletariato di fabbrica delle città del triangolo industriale, o dalle masse contadine dell’Emilia Romagna. Queste squadre svolsero un’azione di attacco contro nemici fascisti e occupanti tedeschi legandola però a compiti di aiuto alla popolazione. A Torino, a Milano, vennero abbattuti alberi secolari per portare legname alle famiglie: e fu ancora a Torino che furono prelevati e distribuiti sei quintali di sale da parte dei sappisti. I protagonisti cambiano, non sono più i vecchi militanti (trenta-quarantenni in realtà): i membri della brigata genovese dei Balilla sono ragazzi di vent’anni e anche meno. Quando il terrorismo si muove nelle campagne non è più quello delle piccole unità isolate che si muovono nel buio delle notti tra i vicoli cittadini: quello che nasce e si sviluppa con le Sap è una guerra contadina contro il nemico di classe, un fenomeno di massa dove chi agisce può contare sulla solidarietà e sull’aiuto della popolazione. Queste pagine ci guidano nelle campagne emiliane, distinguono con mano sicura le differenze tra il modenese, il ferrarese e il reggiano.
Saggi. «Podemos» di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena. Un partito politico nato sull’onda degli indignados che attira l’attenzione della sinistra italiana
‘’Chiederemo uno sforzo maggiore a tutti. In primo luogo alla società spagnola, ai cittadini, ma anche all’amministrazione pubblica. Uno sforzo nazionale». Maggio 2010, Cortes di Madrid: l’annuncio della resa di Zapatero. La socialdemocrazia dell’Europa meridionale rinuncia a un punto di vista alternativo a quello di Merkel sulla crisi economico-finanziaria: l’austerità può dilagare, ammantata di retorica dei «sacrifici necessari». La tedesca Spd di cento anni fa votò i crediti di guerra al governo di Guglielmo II, il tradimento di inizio del nuovo secolo è questo: il Psoe rinuncia alla difesa dei ceti popolari e svuota di senso il suo chiamarsi «socialista» e «operaio».
L’attuale grande coalizione che regge l’Europa è conseguenza di questa bancarotta della sinistra moderata, in particolare quella dei Paesi «deboli»: invece di costruire un’alleanza della «periferia», si accredita come esecutore efficiente delle misure dettate da Berlino e Francoforte. Il suo ingannevole appello patriottico allo «sforzo nazionale», però, non è raccolto da tutti: prende forma un’insubordinazione di massa che in Grecia e Spagna assume le sembianze di Syriza e Podemos.
Dopo essersi cimentati con le vicende elleniche (Tsipras chi?, Alegre), Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena continuano il racconto di questa ribellione nonviolenta nell’agile ma densoPodemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra(Alegre, pp. 127, 12 euro, prefazione di Moni Ovadia). Una documentata e convincente ricostruzione della brevissima storia della forza politica attualmente in testa ai sondaggi in Spagna. Storia che comincia nel movimento degli indignados, esploso il 15 maggio 2011, che diede voce a un’interpretazione della crisi diversa da quella mainstream: «colpevole» non è il debito pubblico (era al 36% in rapporto al pil nel 2006), ma un modello di sviluppo fondato su indebitamento privato e speculazione edilizia («nel 2006 in Spagna si erano costruite più case che in Francia, Italia e Germania messe insieme», si ricorda opportunamente).
Quel punto di vista critico, e l’energia di mobilitazione che ne è derivata, non si è mai auto-rappresentata come «sinistra»: qui sta uno dei punti di maggiore interesse – e controversia – di quel movimento. E, oggi, di Podemos. La tesi degli autori è convincente: «il “né di destra né di sinistra” spesso utilizzato tra gli indignados non è figlio di un pensiero post ideologico né un rifiuto a posizionarsi con gli sfruttati e coi senza diritti», ma è la scelta di non attaccarsi a parole-feticcio quando esse, in certi contesti, servono più a confondere che a spiegare. Pucciarelli e Russo Spena colgono altrettanto bene come l’identificazione delle radici di Podemos nelle piazze occupate non significhi che il neonato partito sia «l’auto-rappresentazione diretta» di quel movimento. Fondamentale è stata la mediazione, con evidenti tracce di avanguardismo di stampo leninista, di un gruppo di intellettuali-militanti capace di forzature verticistiche: Podemos è «un prodotto ragionato, razionale», concepito a tavolino «analizzando il contesto».
Non sarebbe accaduto nulla, però, senza la successiva capacità di coinvolgimento delle persone «non militanti», dell’universo precario non più solo giovanile, e senza la leadership del 36enne Pablo Iglesias, professore e animale televisivo – a dispetto di chi la dà per morta: la tv conta ancora molto – con solida cultura neocomunista e «doti da incantatore di serpenti». Tutto messo al servizio di un progetto politico che non propone di unire la sinistra («non me ne importa nulla», Iglesiasdixit), ma di «creare un nuovo processo che vuole incarnare un cambiamento di sistema». Podemos è un’operazione che fonda il proprio successo su un «misto di “tecnopolitica” e radicalismo, rinnovamento e rottura generazionale, ambizione e in certi casi presunzione», compendiano con efficacia gli autori. Che illustrano con precisione le differenze fra gli spagnoli e i 5Stelle, ben più numerose delle superficiali analogie da politica web: in Podemos non c’è rifiuto dell’ideologia (anzi), e la critica populista (nel senso di Ernesto Laclau, a cui sono dedicate le pagine «teoriche» del libro) non riguarda solo «la casta dei politici», ma l’insieme dei poteri, compresi quelli economico-finanziari. Senza dimenticare che Podemos è un partito, e come tale vuole essere percepito.
Con intelligenza, Pucciarelli e Russo Spena non cadono nella tentazione di dire in modo semplicistico: «facciamo come in Spagna». E tuttavia, leggere il loro testo può aiutare la sinistra italiana a superare l’attuale irrilevanza, perché serve a smettere di credere a «ricette magiche e testi sacri», antichi o di nuovo conio, e a diventare finalmente curiosi di ciò che non si è e non si conosce.
Ventiquattro libri per il 2015, due al mese, una media per il buon lettore
Ventiquattro libri per cominciare il 2015 leggendo bene, e leggendo bene proseguirlo. Ventiquattro libri, due al mese. Una media che identifica il buon lettore. Una media che potrà alzarsi esaurendo, ma sempre con le dovute riflessioni finali, le pagine non esuberanti de La cucina del Risorto, Skidoo, I diari segreti di Costantinopoli, Il pigiama del gatto, Kiku — San la moglie giapponese. Una media che scenderà accettando la ponderosa sfida di La vita plurale di Fernando Pessoa e quella archeologica di La Roma di Augusto. O che, a dispetto dei numeri, si manterrà tale perché titoli come La pietra per gli occhi o La strage dei congiuntivi inchiodano alla poltrona. Troverete anche quattro libri illustrati assai diversi tra loro, uniti dalla bontà dell’idea e dalla bellezza della grafica. Durante l’ultima edizione di Pordenonelegge, a disposizione dei clienti nelle stanze degli alberghi, c’era il classico cartellino ‘Non disturbare’, da appendere alla maniglia esterna della porta. Su di esso una frase di Vladimir Nabokov ‘Sapere che si ha qualcosa di bello da leggere prima di coricarsi è una delle sensazioni più piacevoli della vita’. Chi mai si sentirebbe di affermare il contrario?
Pierre Loti
Kiku — San, La moglie giapponese
pp. 180, € 14, O barra O edizioni
Per averne letto diversi lavori, la nostra opinione su Louis Marie Julien Viaud, vero nome di Pierre Loti, è che fosse ammalato di sufficienza e presunzione. Ci riconcilia parzialmente con lui questo romanzo/diario di viaggio in chiave autobiografica, capace di aprire le porte del Giappone di fine ’800. Qui Loti arriva nel 1885, a Nagasaki, per rimettere in sesto la nave da guerra Trionfante. E qui, come vuole l’usanza, può decidere per un provvisorio matrimonio. La sposa si chiama Kiku — san, la signorina Crisantemo. Il libro sarà ispiratore per il primo atto della pucciniana Madama Butterfly.
Ray Bradbury
Il pigiama del gatto
pp. 238, € 12, Oscar Mondadori
Il racconto che dà titolo al libro risale al 2003 e appartiene all’ultima raccolta curata dallo stesso Ray Bradbury. Venti storie in gran parte scritte tra la seconda metà degli anni ’40 e i primi ’60, dove Ray intinge la sua penna in trame surreali, disegnando l’America perbenista e convenzionale, razzista e di facciata, povera e sperduta. La metafora di Crisalide (1946) è un manifesto per la parità dei diritti tra bianchi e neri, Sessantesei spolpa il mito della leggendaria Route, Viva il capo descrive una perdita colossale e paradossale a blackjack. Dolceamaro il gusto nella bocca del lettore.
Goli Taraghi
La signora melograno
pp. 270, €14, Calabuig
Goli Taraghi e Azar Nafisi si somigliano. Entrambe di famiglia iraniana agiata, entrambe colte, si ritrovano di fronte al vento nuovo dell’Ayatollah Khomeini, che in loro smette di soffiare rapidamente. Nafisi sceglie l’esilio negli Stati Uniti, Taraghi a Parigi. Da lì divengono narratrici della cultura della loro patria, dei tempi dello Scià Reza Pahlavi, dell’integralismo khomeinista, dei viaggi di ritorno. E lo fanno dando voce a uomini e donne, vecchi e giovani, studenti e lavoratori. Bellissimo è l’aggettivo giusto per La signora melograno di Taraghi e Leggere Lolita a Teheran di Nafisi.
Roberto Tiraboschi
La pietra per gli occhi, Venetia 1106 d.C.
pp. 288, € 18, EDIZIONI E/O
Venezia non ancora Serenissima, palafitte sulle terre dell’arcipelago. Il chierico Edgardo d’Arduino, giovane e storpio amanuense, vi approda per guarire da una imminente cecità. Dicono che a Venezia esista il rimedio, una pietra. La ricerca lo porta nel microcosmo deifiolari, i vetrai, dove da poco è stato assassinato un garzone di bottega, cui sono stati cavati gli occhi. Al loro posto due bulbi di vetro con pupille rosse. È il primo di tanti avvenimenti nefasti sul cammino di Edgardo. Il nome della rosa 35 anni dopo? No, tutto è Made Tiraboschi, per una lettura che si fatica a lasciare.
Alex Capus
Skidoo. Viaggio nelle città fantasma del selvaggio West
pp. 86, € 9,90, EDT
Cittadino svizzero, ma nato in Normandia, Capus è andato alla ricerca delle memorie più evocative del Far West. Le città fantasma. Assi di legno tarlate, muri sbriciolati, miniere svuotate, pozzi d’acqua prosciugati. Intorno il nulla. Ed è proprio da quel nulla che l’autore fa risorgere figure autentiche di banditi di mezza tacca, birrai ambulanti, soldati in sella a cammelli, nativi ammutoliti dall’idiozia dei loro conquistatori, spedizioni verso El Dorado inesistenti. Le foto che accompagnano il testo ribadiscono che il leggendario West, nella sua quotidianità, di leggendario aveva ben poco.
Massimo Roscia
La strage dei congiuntivi
pp. 322, € 15,50, Èxòrma
La siccità nell’uso del congiuntivo è una delle piaghe che affliggono il nostro idioma. Chiunque abbia un minimo di riguardo nei confronti di questo nobile modo, sussulta ogni giorno (guardando la tv, ascoltando discorsi dotti o conviviali, spesso leggendo i giornali) al cospetto di attentati dal rumore cacofonico tipo ‘Speriamo che arrivano puntuali’. Paladino eroico del congiuntivo è Massimo Roscia, che ne attacca i nemici nelle pagine di un romanzo divertente, scritto con ironia forbita, appassionante e al medesimo tempo portatore di sconforto in chi, ancora, ama esprimersi in italiano.
William Hazlitt
L’ignoranza delle persone colte
pp. 180, € 14,50, Fazi Editore
Di lui scrisse Virginia Woolf «In virtù del suo principio ‘è difficile odiare chi si conosce bene’, se avessimo conosciuto Hazlitt lo avremmo di sicuro trovato simpatico». Simpatico, e insieme capace di provocazioni e paradossi nella rubrica Table Talk, che dal giugno 1820 a metà del 1821 tenne sul London Magazine. Sette saggi in cui spicca un raro senso dello humor, talvolta ammantato di ferocia. All’ignoranza delle persone colte si uniscono lo scrittore elegante, i potenti delle università e delle pubbliche cariche, il genio incompreso, l’uomo intellettualmente superiore… Più attuale che mai.
Mehmet Gündüz Coral
I diari segreti di Costantinopoli
pp. 128, € 13, Besa Editore
I lavori letterari di Coral (Izmir, 1947) sono in prevalenza di ambientazione storica e legati al suo Paese. Tale è anche il titolo proposto da Besa. Prima Bisanzio, poi Costantinopoli, la città oggi più popolosa d’Europa divenne Istanbul nel 1930, per decisione di Atatürk, primo presidente della Turchia. All’epoca di Roma imperiale era il solo luogo ad essere definito ‘La Città’. I diari di Coral richiamano la storia, il mito, i personaggi, la gente di questo contenitore di civiltà e cultura, cancellando con giusta penna gli stereotipi esotici. Nobile guida ‘parallela’, da consultare in viaggio.
Bruno Berni (a cura di)
Fiabe lapponi
pp. 178, € 15, Iperborea
Quattro lettere compongono il nome Sami, che identifica il popolo da noi chiamato Lapponi. Neve, ghiacci, solitudini, foreste fitte, notti solitarie sono state fucine per la nascita di leggende e soprattutto di fiabe. In esse, i Sami sovrappongono alla fantasia il retaggio di abitudini antiche, riti quotidiani quali la caccia, le invocazioni e le preghiere agli spiriti. Primo titolo di una serie che Iperborea dedicherà alla fiabe scandinave, il libro è diviso in 28 storie brevi, magiche già nel titoli. Esempio: ‘Ruobba fa la guardia all’albero del re e ruba l’occhio del gigante e del Maligno’.
Adele Marini
Io non ci sto
pp. 288, € 18, Fratelli Frilli Editori/Feltrinelli
I genovesi Fratelli Frilli, sono tenaci editori del giallo e del noir declinati all’italiana. I loro segugi si muovono soprattutto nel Nord Italia, unendo alle capacità investigative debolezze e doti umane non banali. Il commissario Vincenzo Marino è uno di questi. Adele Marini, la sua creatrice, lo invischia in una convincente trama, i cui fili li tirano da vent’anni i servizi segreti. La scia di sangue delle loro vittime puzza di ricatto, su di essa sono in tanti ad aver lasciato l’impronta del silenzio complice e dei misteri taciuti. A Marino il compito di cancellarla tra Milano e Roma.
Osvaldo Bayer
Patagonia rebelde
pp. 160, € 14, Elèuthera Editrice
Prima ci pensò la dittatura a censurare e distruggere le copie del libro, poi fu il turno della moda chatwiniana a relegarlo nell’ombra. Né fu sufficiente a restituirgli giusta luce il film di Héctor Oliveira premiato alla Berlinale ’74 con l’Orso d’oro. Il testo di Bayer racconta i personaggi protagonisti nel 1921 di un sciopero che tenne in scacco per mesi le armate dell’esercito e della polizia. Erano gauchos, anarchici, bandoleros (tra di loro un italiano soprannominato El Toscano) schierati contro l’arroganza di militari e latifondisti. Cronache di ideali politici dal Mondo alla fine del mondo.
Stefania Nardini
Jean-Claude Izzo, Storia di un marsigliese
pp. 144, € 12,50, Edizioni E/O
Questa biografia romanzata di Izzo ha due buoni motivi per essere meritoria di attenzione. Il primo è che di Jean Claude Izzo l’Italia non conosce ancora abbastanza. Il secondo è che la romana Stefania Nardini ha fatto di Marsiglia la sua seconda patria d’adozione dopo l’Umbria. Aprono i giochi due pagine in cui lo scrittore immortala la città, e sono parole ineguagliabili per poesia e bellezza. Poi Nardini inizia a camminare accanto a Jean Claude, fino al termine di una vita durata solo 55 anni. Il libro è commosso intreccio di storie, citazioni, versi, passioni, odori, luci, eterno amore.
Angel Crespo
La vita plurale di Fernando Pessoa
pp. 596, € 26, Bietti
Non è mai esistito un solo Fernando Pessoa. Segno evidente di pluralità sono i numerosi eteronimi con cui firmò la quasi totalità delle sue opere. Ma Pessoa fu anche astrologo e cultore dell’esoterismo, giornalista, impiegato in ditte di trasporti. Politicamente si schierò contro la democrazia e ogni forma di totalitarismo, con avversione particolare per comunismo e socialismo. Amò, insieme all’alcol che gli fu fatale, una sola donna, Ophelia. Queste poche note rendono l’idea della sua complessità umana e intellettuale, per la prima volta analizzata a fondo nell’importante opera di Crespo.
Giuseppe Acconcia
Egitto. Democrazia militare
pp. 240, € 14, Èxòrma
Del libro di Acconcia ha già scritto con ampiezza di analisi, qualche tempo fa, Il manifesto. A noi il compito di ricordarvi un lavoro che va oltre il reportage e la cronaca per aiutare a comprendere i colpi di mano di un governo che con il pretesto di piazza Tharir ha ‘giustificato’ un golpe. Non sazio, il presidente egiziano Abd al Fattah al Sisi ha arrestato decine di giornalisti tra novembre e dicembre del 2014, assolto nei processi molti Fratelli Musulmani, compiuto retate antigay trasmesse dalle tv del Paese, promulgato una legge che proibisce i cortei. E minaccia i diritti delle donne.
Manning/Granström
The Beatles (illustrato)
pp. 50, € 16,50, Gallucci
Padri e madri di incolpevoli bambini e colpevoli adolescenti che non sanno o mal sanno chi erano The Beatles, regalerete loro questo fumetto gigante con la scusa delle feste di fine anno. Vi siederete accanto alla prole per sfogliarlo, aggiungervi aneddoti e ricordi personali, versare qualche furtiva lacrimuccia. Apprezzerete, ed è questo ciò che conta, il lavoro della coppia Brita Granström e Mick Manning, che con mano leggera e però mai superficiale, hanno saputo raccontare a giovani e giovanissimi i Fab Four prima, durante e dopo la leggenda; prima, durante e dopo la celebrità e la ricchezza.
William Grill
L’incredibile viaggio di Shackleton (illustrato)
pp. 72, € 19, ISBN Edizioni
Una piccola meraviglia editoriale che miscela la raffinatezza illustrativa con il racconto della spedizione dell’esploratore Ernest Henry Shackleton al Polo Sud, 1914. Con ventisette uomini, Ernest partì da Londra a bordo della Endurance il primo agosto. Nonostante le terribili avversità, il clima, la distruzione della nave, tornò a casa con tutti i suoi. Grill ci proietta nell’impresa narrandone per parole e disegni il finanziamento, l’equipaggio, l’imbarcazione, le provviste, la partenza, il deserto dei ghiacci, le sfide da vincere, il Patience Camp… Rotta immediata verso una libreria.
Oren Lavie/Wolf Erlbruch
L’orso che non c’era (illustrato)
pp. 48, € 9,50, Edizioni E/O
Musicista e drammaturgo israeliano, il quarantenne Lavie si cimenta con una favola disegnata da uno dei maggiori illustratori mondiali per ragazzi, il tedesco Wolf Erlbruch. L’orso cerca nei boschi e negli incontri con altri animali la risposta a quesiti impegnativi: chi sono, sono felice, sono di bell’aspetto? E nella Favolosa Foresta discute nella Favolosa Foresta con la Mucca comoda, il Penultimo pinguino, la Lucertola pigra, la Tartaruga taxi, il significato dei silenzi. Al pari degli altri libri illustrati proposti in queste pagine, il binomio scrittura/illustrazione è molto, molto felice.
Ilaria Bernardini
La fine dell’amore, Graphic Short Stories
pp. 240, € 20, Hop/ISBN Edizioni
Con ISBN, Chiara Bernardini pubblicò nel 2006 tredici racconti sotto il titolo La fine dell’amore. La stessa ISBN, con Hop, li ha consegnati ad altrettanti illustratori, che ne hanno fatto una graphic novel corale, appena uscita in libreria. Volti, persone, interni, esterni, immagini ieri affidati al nero su bianco delle parole, prendono oggi fattezza nelle tavole di Akab, Mabel Morri, Marco Galli, Jacopo Vecchio… Segni e tecniche agli antipodi, durezza del tratto che nelle pagine successive si fa morbida, scenografie di oscurità e di sole urbani. L’amore, si sa, non è mai uguale per tutti.
AAVV
La memoria dell’acqua (Illustrato)
pp. 320, € 20, Iacobelli Editore
Il Tevere non più biondo, le fontane, gli acquedotti (uno di questi è sfondo a una scena de La grande bellezza), i ponti, le terme, l’isola Tiberina. Roma e il Lazio sono terre di acqua su cui l’uomo, attraverso i secoli, ha costruito. Architetture magnifiche, sculture che zampillano, opere di ingegneria idraulica, tombe, ville. I tre autori trasformano i tesori di questo patrimonio liquido in una serie di approfonditi itinerari urbani e regionali. Itinerari in cui la storia, la leggenda, la natura, la fede divengono elementi importanti per comprendere tutto il senso e il fascino del viaggio.
Andrea Carandini
La Roma di Augusto in 100 monumenti (con e book)
pp. 416, € 30, Utet
Il nome dell’archeologo Carandini è legato soprattutto alla scoperta, durante gli scavi del Palatino, a Roma, dei resti di una fortificazione appartenente alla cinta muraria che circondava il colle nell’VIII secolo a.C. Il volume che segnaliamo racconta la Città Eterna durante il principato di Ottaviano Augusto, dal 27 a.C. al 14 d.C. Cento monumenti destinati agli usi più diversi, di cui è centro non solo simbolico laDomus Augustidel Palatino, primo palazzo da dove Augusto governò. Divisa in capitoli, linguaggio chiaro e densità di riferimenti, l’opera merita evidenza sugli scaffali di casa.
Roberto Bosio
Muoiono solo gli stronzi. La straordinaria vita
di Mario Monicelli
pp. 144, € 15, Bradipo Libri
Novantacinque anni, di cui settanta passati con l’occhio, la mente e il cuore dietro la macchina da presa. Novantacinque anni trascorsi in gran parte a inventare non solo per il cinema ma anche nella vita. L’uomo Monicelli era difficile, volubile, mai completamente svelato agli altri, capace di cambiare data e luogo di nascita quando gli pareva. Un gran bugiardo, lo definì la moglie Chiara Rapaccini. Il ritratto che Roberto Bosio ci consegna è un omaggio mai sdolcinato al padre della commedia all’italiana. E al Monicelli passato, per quasi un secolo, attraverso la storia della nostra penisola.
Cavallito/Lamacchia/Iaccarino
I 100 di Milano e Torino
pp. 226, € 12,90, EDT
Nuova edizione per la guida firmata dai trio di gastronomi sabaudi e dai loro collaboratori. In contemporanea anche Roma, Genova e Liguria, Firenze, Bari e Puglia. Torino e Milano sono state accorpate in un unico volume ‘al rovescio’. I cento locali si dividono fra 50 top e 50 pop. Nel primo caso, i prezzi sono da portafoglio capiente. Nel secondo (trattorie e dintorni) l’esborso cala di molto. Accanto a nomi noti nelle rispettive categorie, va dato atto agli autori di grande cura nella scoperta di valide novità. Se Iaccarino evitasse troppi compiacimenti nello scrivere, ciò non guasterebbe.
Giovanni Cesare Pagazzi,
La cucina del Risorto
pp. 64, € 5, Editrice Missionaria Italiana
Gesù, si sa, era capace di miracoli. Ma che li facesse anche in cucina è difficile da immaginare. Non parliamo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, o dell’acqua trasformata in vino. Parliamo di un Gesù chef, con competenze in tema di farina, ortaggi, pesce cucinato alla brace, uso del sale… Così sostiene il piacevole e accurato saggio del teologo lodigiano Pagazzi. Ricorda Pagazzi che Buon Pastore indica colui che serve in tavola il pasto buono, e Gesù amava riunire la sua gente intorno al desco. Il cibo diveniva, così, tramite per prendersi cura dell’anima e delle necessità altrui.
Marco Lombardi
Gustose visioni
pp. 160, € 15, Iacobelli Editore
Giornalista e conduttore radiofonico nell’ambito dei piaceri della tavola, Lombardi ha appena sfornato (il verbo è quanto mai pertinente) un dizionario dedicato al rapporto tra cinema ed enogastronomia. Diciamolo subito: non è la solita sfilza di titoli che vanno da Il pranzo di Babette a Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa. O meglio: la lista c’è, ma divisa in tre sezioni che annunciano analisi impegnate. Ad esempio ‘L’enogastronomia come discorso etico politico’. Nutrita (l’aggettivo è quanto mai pertinente) la parte introduttiva. Nel complesso, un lavoro assai ben… cucinato.