ALIAS DOMENICA
Squallidi, teneri e dannati, gli antieroi di Richard Yates
Narrativa americana. Secondo romanzo dell'autore di "Revolutionary Road", "Sotto una buona stella" racconta l'odissea isterica di una scultrice mancata e la vita in guerra di suo figlio
Ciò che rende Richard Yates uno scrittore così singolare benché
non esibisca segnali stilistici clamorosi, ha a che vedere con la
sua ricorrente capacità di appassionarci a personaggi perdenti, ma
non fino al punto di proporsi quali figure esemplari della miseria umana;
come se una naturale discrezione tenesse le pagine dello scrittore americano
lontane dagli eccessi, e il suo pudore si traducesse nella abilità di
trovare la giusta misura del pathos. Per di più, Yates sa rendere attraenti
le vicissitudini davvero poco eclatanti di personaggi senza particolari
caratteri distintivi, non disegna scene memorabili, e le trame dei
suoi romanzi si snodano in buona parte prevedibili, senza mai sbilanciarsi
in brusche virate, mentre tutta la riserva di suspence si alimenta, in
fondo, a niente altro se non le ricadute in quella autodistruttività
che ciclicamente e indefettibilmente guida le gesta dei suoi personaggi.
Certo, anche gli eventi esterni spesso infieriscono, ma ciò che determina il
destino degli uomini e delle donne cari a Yates proviene dalla struttura
della loro personalità, dalle loro organizzazioni difensive contro una
vita che sembra averli previsti con le spalle al muro.
Quasi
tutto ciò che lo scrittore americano inventa ha solide radici nella sua biografia,
sulla quale domina, come una costellazione sinistra, la figura della madre,
che si chiamava Ruth e era una scultrice proprio come Alice Prentice,
anima principale del secondo romanzo di Yates, Sotto una buona stella,
scritto nel 1969 e tradotto solo ora da Andreina Lombardi Bom (minimum
fax, introduzione di Francesco Longo, pp. 411, euro 14,50). Otto anni
prima, l’unico vero successo dello scrittore statunitense, Revolutionary
Road, sembrò fissare la soglia delle aspettative troppo in alto per essere
di nuovo raggiunta, e dunque agì retroattivamente a mo’ di maledizione,
oscurando la fama di altri romanzi che avrebbero meritato di venire valutati,
se non altro, come una conferma. Il fatto è che nulla di quanto Yates
avrebbe poi raccontato risultò tanto coinvolgente quanto i litigi
e le frustrazioni dei giovani Wheeler, gli abitanti di Revolutionary
Road insoddisfatti e idiosincratici rispetto allo stereotipo borghese
anni ’50, che loro malgrado si trovano a incarnare.
Quella che
Yates interpretò con i suoi romanzi sarebbe passata alla storia come
l’età dell’ansia. Tre anni dopo la sua nascita cominciò la Grande depressione,
poi venne la guerra, possibile teatro di riscatto per uomini come quelli che
lo scrittore americano mette in scena. Proprio uno di loro è il protagonista
di Sotto una buona stella: si chiama Robert J. Prentice, viene arruolato
a diciotto anni come fuciliere e destinato, subito dopo lo sfondamento
tedesco nelle Ardenne belghe, a raggiungere la Normandia, poi
l’Alsazia sotto il comando della Prima Armata francese. Sempre meno capace di
captare il senso di ciò che gli succede intorno, Prentice avverte le scene
che la guerra offre alla sua inesperienza come una sequenza di riprese montate
a casaccio: le poche azioni belliche in cui è coinvolto rivelano
la sua goffaggine ma al tempo stesso il suo coraggio e il desiderio
quasi disperato di farsi valere. Deve la propria insicurezza al fatto di
essere cresciuto lontano dal padre, un brav’uomo che provvede al suo sostentamento
e a quello della madre scialacquatrice, verbosa e manicale nel
suo ottimismo fuori luogo, il cui umore sale a misura delle illegittime
fantasie di grandezza che le derivano dal suo lavoro di scultrice.
Da bambino
Prentice posava nudo per lei, sfidando il sarcasmo dei compagni di scuola
e la noia delle lunghe giornate passate immobile con il braccio piegato
e un grappolo d’uva a sfiorargli la bocca. Da grande scrive alla
madre lettere dal fronte, ma prima ancora – quando il romanzo prende avvio –
sfrutta la breve licenza che lo separa dalla guerra che combatterà in Europa
per andarla a trovare. Ed ciò che il suo occhio registra a fornire
al lettore il primo ritratto di Alice. A dispetto delle sue fantasie di
grandeur, gli interni della casa che ora abita si presentano sciatti, arredati
con mobili sbilenchi, imbrattati di cenere di sigaretta. E quando
porta il figlio a mangiare fuori gli dice la stessa identica frase che
ripeterà quattrocento pagine dopo alla amica di turno, ossia che tutti
i ristoranti della zona sono orrendi ma lei ne ha trovato uno decente,
anzi proprio simpatico e poco caro, come a significare che il
suo fiuto e il suo indubbio buon gusto bastano a dissolvere lo
squallore in cui le tocca vivere.
La carriera
artistica di Alice è «una odissea isterica», resa sopportabile dalla convinzione
di trovarsi comunque sotto quella buona stella che dà il titolo al libro,
e soprattutto confortata dalla solidarietà incrollabile, sebbene
non acritica, del suo bambino, che cresce sentendosi l’unico senza un
padre, l’unico a avere statue nel garage invece di una macchina, il solo
a essere alloggiato in una casa che sa di escrementi di gatto
e rimasugli di plastlina. Tutto ciò che Alice chiederà al figlio in
partenza per la guerra è di convenire con lei su quanto ha bisogno di
pensare: che la sua vita non è stata un fallimento.
Come molti altri personaggi di Yates, Alice Prentice deve elemosinare dallo sguardo dell’altro ciò che le serve per sentirsi una persona meritevole di esistere. Ha avuto un marito ma era per lei troppo modesto: litigavano e ha divorziato. Ha ceduto alle lusinghe passeggere di altri uomini, e quando ormai le speranze sembravano perdute era arrivato l’incontro che avrebbe inaugurato la sua nuova vita. Fin dalla prima frase – «Ho saputo che lei è un’artista» – Sterling Nelson si era annunciato come l’uomo perfetto. Ma era scritto nel destino di Alice che se ne sarebbe andato, sebbene non avesse previsto l’onta di scoprirlo in fuga dai suoi debitori. Perciò ancora una volta lei resterà sola con il figlio, disorientata nella grande casa vuota, fra oggetti preziosi la cui origine e il cui valore le sono inintellegibili, pronta a un nuovo trasloco.
Come molti altri personaggi di Yates, Alice Prentice deve elemosinare dallo sguardo dell’altro ciò che le serve per sentirsi una persona meritevole di esistere. Ha avuto un marito ma era per lei troppo modesto: litigavano e ha divorziato. Ha ceduto alle lusinghe passeggere di altri uomini, e quando ormai le speranze sembravano perdute era arrivato l’incontro che avrebbe inaugurato la sua nuova vita. Fin dalla prima frase – «Ho saputo che lei è un’artista» – Sterling Nelson si era annunciato come l’uomo perfetto. Ma era scritto nel destino di Alice che se ne sarebbe andato, sebbene non avesse previsto l’onta di scoprirlo in fuga dai suoi debitori. Perciò ancora una volta lei resterà sola con il figlio, disorientata nella grande casa vuota, fra oggetti preziosi la cui origine e il cui valore le sono inintellegibili, pronta a un nuovo trasloco.
Non era
difficile per Yates, immedesimarsi in quella provvisorietà eletta
e regola di vita, né descrivere i gesti rivelatori di una donna
modellata su sua madre, anche lei una artista mancata al seguito della quale
aveva fatto le valigie almeno una volta l’anno. Nel ricordo che Richard Price
gli dedicò, l’autore di Revolutionary Road appare come un uomo indignato,
pieno di amarezza e di rancori. Di sicuro lo era, ma l’esperienza di una
vita tanto avara di soddisfazioni – benché avesse guadagnato una notorietà
sufficiente a fargli commissionare la stesura dei discorsi di
Robert Kennedy quando era ministro della difesa – rese al tempo stesso più
spietato e più commosso il suo sguardo di scrittore. Tutta una serie di
riverberi si aprono, infatti, a illuminare, ma anche a giustificare,
la debolezza dei suoi personaggi, le piccole miserie, la bramosia di
venire innalzati a una più nobile condizione sociale grazie alla frequentazione
delle persone «giuste».
Alcune tra
le pagine più belle di questo secondo romanzo di Yates colgono Alice Prentice
nel salotto dei grandi possidenti terrieri dai quali vorrebbe ottenere un
affitto, poi nella casa dei suoi nuovi spregiudicati vicini: in entrambe le
situazioni, tremante di disagio o di ammirazione, contempla quelli
che fino a un minuto prima le sarebbero sembrati difetti, e li converte
in virtù. Il distacco, la sciatteria, l’incuranza della più rudimentale gentilezza,
la casualità del vestire, tutto le appare come un segno di distinzione, di
rilassata libertà dei costumi, a fronte della sua convenzionalità
borghese.
Le pagine
che Yates dedica a Alice si alternano a quelle dove è protagonista
il giovane Robert, che dal fronte passa in ospedale per curarsi una polmonite,
proprio mentre la prima Armata attraversa il Reno e nel Pacifico
i marines sbarcano a Iwo Jima. L’uccisione dell’unico compagno
d’armi al quale Prentice si era affezionato gli fa cercare una occasione
per espiarne la morte, ma per quanto si affanni quella occasione non gli
verrà data.
Anche in
Cold Spring Harbor Yates attingerà alle sue personali esperienze di
inviato sul fronte – prima in Francia, poi in Germania con le forze di occupazione
– e proietterà sul personaggio di Evan le lusinghe che la guerra fornisce
alla formazione della personalità di un ragazzo; ma subito dopo ritira
quella promessa di dignitosa virilità, e anche di Evan fa un candidato
al fallimento. Qui, per la verità, il personaggio di Robert gode di qualche
luce in più, ma proprio quando il lettore sembra legittimato
a nutrire una speranza sulle sue sorti, proprio quando la guerra
è ormai finita e il giovane Prentice è pronto a andare
per il mondo, un finale brusco taglia il fiato del romanzo, come se Yates non
avesse saputo risolvere altrimenti il suo imperativo a lasciare il lettore
con l’amaro in bocca.
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