La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

domenica 28 dicembre 2014

Nei soldi un prezzo per la solitudine

da il manifesto
ALIAS DOMENICA

Nei soldi un prezzo per la solitudine

Storia americana . Nella sua rassegna della recente, George Packer dimostra come all’origine del dissesto ci siano soldi facili e una vorticosa sparizione di ogni idealismo politico

Si rac­conta che prima di diven­tare famosa Oprah Win­frey avesse una cita­zione attac­cata allo spec­chio, una frase da lei attri­buita a Jesse Jack­son: «Se posso pen­sarlo, e se il mio cuore ci crede, signi­fica che posso farlo». A cosa pen­sasse il reve­rendo Jack­son è sto­ria nota. Pen­sava di cor­rere per la Casa Bianca e dovette cre­derci con tutto il cuore, ma non riu­scì mai nell’intento mal­grado abbia par­te­ci­pato per ben due volte alle pri­ma­rie del par­tito demo­cra­tico. Il suo fal­li­mento è stato però com­pen­sato dal suc­cesso della con­dut­trice tele­vi­siva. Il jet pri­vato di Oprah, il suo patri­mo­nio miliar­da­rio, l’impero d’immagine che que­sta donna del Mis­sis­sippi ha costruito con la sola forza della per­so­na­lità, dimo­strano che il prin­ci­pio di con­ce­pire un obiet­tivo e cre­derci fino in fondo è valido. Valido nella misura in cui può essere valido per un ame­ri­cano, ovvio. Il che è come dire: valido come può esserlo un sogno o una bella favola. In effetti, è anche qual­cosa di più.
Nella ver­sione ovvia­mente agio­gra­fica e poco atten­di­bile che Oprah dà della sua infan­zia, in prin­ci­pio c’era una bam­bina dalla pelle neris­sima e così povera che nes­suno dei suoi vestiti era com­prato in un nego­zio. Per ani­mali dome­stici aveva un paio di sca­ra­faggi allog­giati in un barat­tolo. Illu­mi­nata dalla lugu­bre luce di inizi tanto infe­lici e sco­rag­gianti, la sto­ria di Oprah non è più sol­tanto la bella favola. Mat­ta­trice indi­scussa della tele­vi­sione. Amba­scia­trice della let­tura presso il grande pub­blico. La donna che dà del tu a chiun­que, Pre­si­dente incluso, è la dimo­stra­zione che ascen­dere dalla stalle alle stelle è ancora pos­si­bile.
La para­bola straor­di­na­ria di Oprah è inol­tre un dito pun­tato con­tro le per­sone che usano i pro­dotti sca­denti che lei recla­mizza ma che mai si sogne­rebbe di acqui­stare. Fa sen­tire in colpa le per­sone che non pos­sono chia­mare «amico» John Tra­volta. Quale opi­nione potrà mai avere di sé la per­sona che non pos­siede nem­meno una casa, quando Oprah, la bam­bina che gio­cava con gli sca­ra­faggi, ne ha addi­rit­tura nove? Insomma, l’esistenza di Oprah non sol­tanto dimo­stra che il sogno ame­ri­cano esi­ste; priva di ogni scu­sante coloro che non ci hanno cre­duto, che non ce l’hanno fatta. L’assunto che restare un per­dente è dovuto soprat­tutto a una man­canza di fidu­cia in sé stessi, a una scarsa deter­mi­na­zione nel con­qui­sta della pro­pria feli­cità, è da sem­pre un tratto distin­tivo del pen­siero ame­ri­cano, se non il tratto per eccel­lenza, quello dal quale tutti gli altri discendono.
Per quanto possa appa­rire falsa o reto­rica agli occhi di noi euro­pei, que­sta con­vin­zione ha costi­tuito il punto di forza della nazione, una risorsa morale cui attin­gere nei momenti deci­sivi. Non per nulla l’espressione «Sogno Ame­ri­cano» divenne popo­lare durante la Grande Depres­sione, a par­tire dal 1931, gra­zie allo sto­rico James Tru­slow Adams che la usò non lesi­nando sull’enfasi, in un libro dal titolo che era tutto un pro­gramma, Epic of Ame­rica. Pec­cato però che da qual­che decen­nio a que­sta parte il mito evi­denzi crepe impor­tanti. I Fran­tumi dell’America, vin­ci­tore del Natio­nal Book Award per la sag­gi­stica (Mon­da­dori, tra­du­zione di Sil­via Rota Sperti, pp. 489, euro 25,00), rac­conta que­sto declino ormai tren­ten­nale intrec­ciando i per­corsi di varie persone.
Alcune di esse non sono che brevi ritratti, meda­glioni di cele­brità, quali appunto Oprah Win­frey, stelle che fanno da fon­dale a cin­que sto­rie più oscure o per­lo­meno non illu­mi­nate dai riflet­tori. Il figlio impren­di­tore di un col­ti­va­tore di tabacco caduto in disgra­zia. La figlia di un eroi­no­mane afroa­me­ri­cano cre­sciuta nella deso­la­zione della Rust Belt dein­du­stria­liz­zata. Un col­la­bo­ra­tore di John Biden che smar­ri­sce pre­sto i suoi begli ideali. Il ricco fon­da­tore di Pay­Pal. Per finire, non una per­sona ma un luogo della Flo­rida: Tampa, cen­tro nodale di una furiosa spe­cu­la­zione immo­bi­liare e di quanto sca­turì dal quel furore ovvero il feno­meno del Tea Party.
È un arazzo del disfa­ci­mento quello ordito da George Pac­ker, firma di punta del «New Yor­ker» che nel 2005 aveva dato alle stampe The Assas­sins’ Gate, inchie­sta ad ampio spet­tro sulla disa­strosa occu­pa­zione dell’Iraq da parte dall’amministrazione Bush. Per certi versi que­sto nuovo libro può defi­nirsi un pre­quel, una risa­lita alle ori­gini del declino. Pac­kar pre­mette che nes­suno può indi­vi­duare con cer­tezza il momento ini­ziale, per­ché «come ogni grande cam­bia­mento, anche que­sto ini­ziò innu­me­re­voli volte, in innu­me­re­voli modi, fin­ché a un certo punto il paese — sem­pre lo stesso paese — varcò una deter­mi­nata soglia sto­rica e diventò irri­me­dia­bil­mente diverso». A que­sta con­si­de­ra­zione dell’autore va aggiunto che l’eventualità di una grave crisi, di una minac­cia cata­stro­fica se non apo­ca­lit­tica è sem­pre stata parte inte­grante del rac­conto nazio­nale. La potremmo defi­nire la forza oscura di cui il paese ha biso­gno per dimo­strare a se stesso di cosa è capace, quale avver­sità è pronto ad affron­tare per la rea­liz­za­zione e la difesa del suo Sogno. Del resto, non fosse per l’abisso delle stalle, che senso avrebbe la sca­lata alle stelle?
Molte di que­ste minacce sono state soprat­tutto imma­gi­na­rie, spet­tri da sban­die­rare in nome dell’unità nazio­nale, ma non sono man­cati i momenti di auten­tica dram­ma­ti­cità. Tra que­sti il più fune­sto del Nove­cento è stato cer­ta­mente la Grande Depres­sione ed è pro­prio un testo fon­da­men­tale di quell’epoca che Pac­ker ha scelto quale modello nar­ra­tivo per il suo rac­conto: U.S.A. di John Dos Pas­sos. Da quella tri­lo­gia scritta nei dif­fi­cili ’30 I fran­tumi dell’America mutuano il con­ti­nuo alter­nare di campi lun­ghi e sguardi rav­vi­ci­nati, l’incessante sovrap­po­si­zione di piani e tempi diversi, il fre­ne­tico e appa­ren­te­mente scoor­di­nato sus­se­guirsi di fram­menti di sto­rie, fram­menti che a tratti diven­tano sem­plici sem­plici frasi, imma­gini ica­sti­che nelle quali si intra­vede un ordito di qual­che tipo, un livello sot­ter­ra­neo dal quale è pos­si­bile estrarre un filo rosso.
Nel mezzo del suo viag­gio, Pac­ker mostra in ter­mini ine­qui­vo­ca­bili che all’origine del dis­se­sto ame­ri­cano ci sono i soldi facili e la con­se­guente e vor­ti­cosa spa­ri­zione di ogni idea­li­smo poli­tico. Lo fa attra­verso le parole di Jeff Con­naughton, con­si­gliere dell’amministrazione Clin­ton ven­du­tosi alle ragioni del lob­bi­smo. E non senza pro­fitto: «Quando piov­vero van­taggi su Wall Street così come su Washing­ton, quando diventò pos­si­bile fare milioni di dol­lari sul bot­tino azien­dale — io ne ne sono un esem­pio vivente, nes­suno ha mai sen­tito par­lare di me eppure sono uscito da Washing­ton con milioni di dol­lari in tasca -, quando il prezzo di certi com­por­ta­menti dimi­nuì, quando comin­cia­rono a ero­dersi e a scom­pa­rire le norme che se non altro fre­na­vano le per­sone dall’essere sfron­tate nel loro modo di gua­da­gnare, la cul­tura cambiò».
È quella che Con­naughton chiama la «teo­ria uni­ver­sale», teo­ria che dovrebbe spie­gare cosa è diven­tato il denaro nella vita ame­ri­cana a par­tire dagli anni ’80: il segno di un’intera epoca, di un declino. Allo sgre­to­larsi delle regole che face­vano fun­zio­nare le vec­chie isti­tu­zioni, la nazione di un tempo è andata in fran­tumi, lasciando un vuoto riem­pito dal capi­tale orga­niz­zato, «la forza di default della vita ame­ri­cana». Il mito vuole che crolli di tale spe­cie non por­tino sol­tanto disa­stri. I disa­stri rin­no­vano. Non si dice forse che biso­gna vivere i momenti di crisi come occa­sioni da cogliere al volo?
L’America è il paese della libertà e per­tanto Pac­ker non manca di osser­vare che l’occasione offerta dal crollo è stata per l’appunto «una libertà che non si era mai vista prima»; ma in un mondo troppo libero, nel gioco tipi­ca­mente ame­ri­cano del vin­cere o per­dere, «i vin­ci­tori vin­cono come non mai, levan­dosi in alto come enormi diri­gi­bili, men­tre i per­denti pre­ci­pi­tano a lungo prima di toc­care terra, e a volte non la toc­cano mai». Il vero prezzo da pagare non è tut­ta­via il fal­li­mento in sé bensì la soli­tu­dine nella quale ognuno gioca le pro­prie carte. E poco importa allora che la par­tenza sia uno sca­lino di pri­vi­le­gio o uno sca­ra­fag­gio chiuso in un barat­tolo. Nell’era della libertà sfre­nata soprat­tutto una cosa va tenuta a mente: che nes­suno si pre­oc­cu­perà mai di te all’infuori di te.


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.