da il manifesto
La vita è forma e si genera vivendo
Filosofia. Da vent’anni Giorgio Agamben ha esibito, e poi sciolto, le relazioni fondamentali dell’ontologia politica. Qui, dove vita e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere sono tutt’uno, l’opera coincide con l’inoperosità
Chiudendo nel 2011 Altissima povertà (il volume IV,
1 della grande opera Homo sacer), Giorgio Agamben evidenziava la grandezza
e i limiti della regola francescana: una forma di esistenza che situandosi
fuori dal diritto, rifiutando la proprietà in nome dell’uso, definiva tuttavia
l’uso ancora rispetto al diritto, in maniera unicamente negativa. Era
infatti mancata al francescanesimo «una definizione dell’uso in se
stesso», che veniva infine concepito dai suoi difensori come una serie di
atti di rinuncia. Agamben si congedava dunque dal lettore lasciando
aperta la duplice domanda: «Come potrebbe davvero un uso tradursi in un ethos
e in una forma di vita? E quale ontologia e quale etica corrisponderanno
a una vita che, nell’uso, si costituisce come inseparabile dalla
sua forma?».
L’altro
libro del 2011, Opus dei (Homo sacer, II, 5), un’indagine archeologica del
paradigma operativo, dell’ufficio e (nella loro intima connessione) della
volontà e del comando – ossia di quell’apparato concettuale che da Aristotele
a Kant ha informato l’intera cultura occidentale – accennava, nelle
battute finali, al prossimo orizzonte di ricerca: «Il problema della filosofia
che viene è quello di pensare un’ontologia al di là dell’operatività
e del comando e un’etica e una politica del tutto liberate dai
concetti di dovere e volontà». Le indicazioni dei due libri erano dunque
rigorosamente convergenti: l’ethos finalmente affrancato dalla volontà
e dal dovere coincide con la forma di vita, e questa non è che
uso, può essere cioè concepita solo elaborando un’ontologia della non operatività.
Già in Homo sacer, I (1995), d’altra parte, Agamben usava i trattini per
scrivere forma-di-vita, nominando così un «essere che è solo la sua nuda
esistenza, una vita che è la sua forma e resta inseparabile da
essa», e che si potrebbe pensare al di là della distinzione aristotelica
fra potenza e atto, della partizione classica fra zoè e bios,
o del bando sovrano che separa e detiene la nuda vita. La ricerca ventennale
poteva ora giungere a compimento, coincidere cioè con la «definizione
dell’uso in se stesso».
L’uso dei
corpi. Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, pp. 366, euro 18,00) risponde alle attese
con la forza dirimente del capolavoro. È, questo nono e ultimo volume,
un libro con cui sarà d’ora in poi necessario – anche se non facile – misurarsi,
non solo perché, per ricchezza, erudizione e chiarezza speculativa
si impone nel panorama filosofico di questo tempo, ma perché davvero
dischiude una nuova dimensione del pensiero mentre restituisce – con buona
pace della «potenza costituente», cioè delle istituzioni e del governo
– tutta la serietà dell’anarchia (intesa in senso filosofico e politico
insieme).
Quella vita che è solo la sua nuda esistenza, la vita che appunto il diritto esclude e cattura, la vita bandita e sacra (insacrificabile, spiegava già Agamben andando oltre Kerényi, nel senso che può essere uccisa senza commettere omicidio), si presenta all’inizio del nuovo lavoro in una frase di Guy Debord: «cette clandestinité de la vie privée sur laquelle on ne possède jamais que des documents dérisoires». È la vita corporea, separata da noi come lo è un clandestino e insieme inseparabile, proprio come non si separa da noi colui che «condivide nascostamente con noi l’esistenza». Certo, rispetto all’ultimo Foucault, che aveva pensato la sottrazione del corpo, in nome del piacere, ai meccanismi di potere della sessualità, Agamben aveva espresso le proprie riserve osservando che il corpo è per noi «già sempre preso in un dispositivo … già sempre corpo biopolitico e nuda vita».
Quella vita che è solo la sua nuda esistenza, la vita che appunto il diritto esclude e cattura, la vita bandita e sacra (insacrificabile, spiegava già Agamben andando oltre Kerényi, nel senso che può essere uccisa senza commettere omicidio), si presenta all’inizio del nuovo lavoro in una frase di Guy Debord: «cette clandestinité de la vie privée sur laquelle on ne possède jamais que des documents dérisoires». È la vita corporea, separata da noi come lo è un clandestino e insieme inseparabile, proprio come non si separa da noi colui che «condivide nascostamente con noi l’esistenza». Certo, rispetto all’ultimo Foucault, che aveva pensato la sottrazione del corpo, in nome del piacere, ai meccanismi di potere della sessualità, Agamben aveva espresso le proprie riserve osservando che il corpo è per noi «già sempre preso in un dispositivo … già sempre corpo biopolitico e nuda vita».
Ma
l’accento batte qui sull’uso, che si tratta di isolare, strappandolo alla
sua assimilazione all’atto, alla produzione, all’opera. Ora, un puro uso
del corpo era stato concepito dalla cultura classica nella figura
e nell’attività dello schiavo che, spiega Agamben, non è interpretabile
secondo una nozione di lavoro tanto implicita e ovvia per noi quanto
ignota ai Greci. L’operaio potrà anche essere schiavizzato, ma lo schiavo non
è un operaio. Il suo corpo, diceva Aristotele, è uno strumento,
ma non produce come il plettro o la spola un’opera separata dal suo
uso; è piuttosto uno strumento pratico, simile cioè a una veste
e a un letto, che soltanto si usano. Improduttivo, e pressoché
privo di virtù, quest’uomo-suppellettile è così l’escluso dalla vita politica
che rende possibile agli altri di essere liberi, interamente politici,
veramente umani.
Si riconosce
lo schema tipico dell’esclusione includente, o dell’«eccezione» – nel
senso che Agamben ha dato a questo termine. Ma proprio per questo,
secondo un gesto teorico anch’esso tipico e complementare, «lo schiavo
rappresenta la cattura nel diritto di una figura dell’agire umano che ci
resta ancora da delibare».
L’indagine
si stringe dunque sul verbo chresthai: usare (che infatti non può reggere
l’accusativo) indica nel suo significato più proprio (cioè mediale) non una
relazione di un soggetto con un oggetto esteriore ma la relazione che si ha
con se stessi. La differenza da Foucault è ora segnata sottilmente:
è vero infatti che in una lezione famosa del corso del 1982, L’ermeneutica
del soggetto, la nozione platonica, ma anche stoica, di chresis, veniva
restituita al suo senso più ampio e vario (comportamento, contegno,
attitudine) e interpretata nel segno della «cura di sé» e del soggetto:
chi ha cura di sé, insegnava Foucault, si occupa di se stesso come soggetto
della chresis, cioè di comportamenti, attitudini e così via. Ma se
già la chresis, secondo la distinzione acuta di Agamben, è un «rapporto
con sé», essa comporta uno spostamento essenziale al di là della dimensione
del soggetto.
Non c’è
più un soggetto della chresis di cui occuparsi, ma solo uso, solo rapporto
con sé e nessun sé come soggetto. Qui Agamben potrebbe sembrare vicino
a Heidegger, secondo il quale l’espressione Selbstsorge (cura di sé) –
che segna dall’antichità la comprensione pre-ontologica del soggetto –
è solo una tautologia, poiché l’Esserci è già sempre alle prese
con se stesso (Essere e tempo, § 40). Ma mai il suo confronto col maestro
dei seminari di Le Thor è stato così critico e serrato come in questo
libro. Proprio il modo in cui Heidegger privilegia la cura
e descrive l’uso, assimilandolo all’energeia, dimostra secondo Agamben
che egli non è uscito dalla cornice aristotelica. «Definire l’uso in
sé stesso» significa invece pensare un uso della potenza che non è semplice
passaggio all’atto. Significa lavorare sulle nozioni di hexis, habitus,
abitudine, distinguere, oltre la coppia potenza/atto, un «uso abituale»:
se Glenn Gould è un pianista anche quando non suona, non lo è in
quanto «titolare o padrone della potenza di suonare, che può mettere
o non mettere in opera», ma perché non cessa mai di essere colui che ha
l’uso del piano, «vive abitualmente l’uso di sé» come pianista. L’uso non
è un’attività, ma una forma-di-vita.
Per questo la seconda, ricchissima parte del libro, muove nella direzione che Heidegger ha intravisto senza poter seguire: Agamben vi intraprende dapprima una accurata archeologia del «dispositivo aristotelico», ontologico e insieme linguistico, che ogni volta isola il soggetto scindendo essenza ed esistenza, per addentrarsi poi nel campo ancora inesplorato dell’«ontologia modale». Se una volta il pensiero moderno si è spinto fino a questo territorio, è stato nel carteggio tra Leibniz e Des Bosses e con quel concetto a cui Leibniz ha dato il nome («inattendu et énigmatique» dirà Charles Blondel) di vinculum substantiale. Caduto – con l’eccezione notevole di Maine de Biran – in un cono d’ombra per tutto l’Ottocento, il vinculum, che per Leibniz unisce la molteplicità brulicante delle monadi in una sola sostanza, è stato riscoperto nel 1930 appunto da Blondel (in chiave antikantiana), poi dallo storico Alfred Boehm e in tempi più vicini da Gilles Deleuze, che gli ha affidato un ruolo chiave nel passaggio dall’ontologia classica alla sua «filosofia dell’avere».
Per questo la seconda, ricchissima parte del libro, muove nella direzione che Heidegger ha intravisto senza poter seguire: Agamben vi intraprende dapprima una accurata archeologia del «dispositivo aristotelico», ontologico e insieme linguistico, che ogni volta isola il soggetto scindendo essenza ed esistenza, per addentrarsi poi nel campo ancora inesplorato dell’«ontologia modale». Se una volta il pensiero moderno si è spinto fino a questo territorio, è stato nel carteggio tra Leibniz e Des Bosses e con quel concetto a cui Leibniz ha dato il nome («inattendu et énigmatique» dirà Charles Blondel) di vinculum substantiale. Caduto – con l’eccezione notevole di Maine de Biran – in un cono d’ombra per tutto l’Ottocento, il vinculum, che per Leibniz unisce la molteplicità brulicante delle monadi in una sola sostanza, è stato riscoperto nel 1930 appunto da Blondel (in chiave antikantiana), poi dallo storico Alfred Boehm e in tempi più vicini da Gilles Deleuze, che gli ha affidato un ruolo chiave nel passaggio dall’ontologia classica alla sua «filosofia dell’avere».
L’originale
strategia di Agamben punta invece sul termine «esigenza»: se il vincolo,
come diceva già Leibniz, esige le monadi, proprio l’esigenza dev’essere ora
sostituita alla sostanza come concetto centrale dell’ontologia. L’essere non
si appropria dei modi d’essere, ma li esige, ossia si dispiega in essi, non
è altro che le sue modificazioni. La vita non è che la sua forma
e la forma – secondo la bella espressione di Vittorino – si genera
vivendo. Tutte le opposizioni (esistenza/essenza; potenza/atto… ) su cui si
era costruita la tradizione metafisica vengono così revocate, e con
esse anche tutte le partizioni su cui, con un progetto corrispondente, la
filosofia politica ha nei secoli innescato e nutrito il dispositivo
della sovranità (nuda vita/ potere; oikos/ polis; violenza/ ordine;
moltitudine/ popolo).
Nella
forma-di-vita, nella vita che si forma o genera vivendo, zoè e bios
non sono più in una relazione oppositiva, ma «si contraggono l’una
sull’altra», entrano in contatto. Agamben riprende questa parola da Giorgio
Colli, e nel suo significato tecnico: il contatto è «un vuoto di rappresentazione»
(dove rappresentazione significa a sua volta, per Colli, «una semplice
relazione»). Ora, Homo sacer, I insegnava che la forma pura del rapporto
è il bando sovrano. Giungere, nell’uso o nel contatto, ad di là
della relazione, vuol dire perciò oltrepassare davvero una soglia
ontologico-politica, pensare insieme l’essere e la politica non più come
rapporto o rappresentanza.
Coerentemente,
quindi, l’ultima parte della ricerca – che è anche una ricapitolazione
dell’intero disegno di Homo sacer – propone una «Teoria della potenza destituente».
Che cos’è infatti l’uso come potenza non più subordinata all’atto, ormai
sciolta dall’energeia ? Senz’opera, senza produzione, non lavoro né paresse,
è la costante disattivazione della macchina ontologica, è la
potenza che svela, espone e neutralizza tutte opposizioni collaboranti.
E se la filosofia, secondo il motto di Kojève che Agamben ama ricordare,
è quel discorso che parlando di qualcosa parla anche del fatto che sta
parlando, destituente è proprio questa ventennale ricerca.
Con
l’acribia del filologo e l’acume del teorico, l’autore di Homo sacer non
ha fatto che esibire e sciogliere, da vent’anni a questa parte, le
relazioni fondamentali dell’ontologia politica. E qui, dove vita
e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere non si distinguono
più, l’opera chiamata Homo sacer coincide con l’inoperosità.
Al di là
del soggetto, e dei principi del dovere, della volontà, al di là del
comando, del bando sovrano o del vincolo tra potere costituente
e potere costituito, lì dove non vi sono più istituzioni né governi,
oltre la bio-politica, si può finalmente nominare la vera anarchia. Modo
o forma-di-vita, questa soltanto «si libera come contatto»: disattivando
il dispositivo che la trattiene, cioè «con la lucida esposizione» della
stessa anomia o «anarchia interna al potere».
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