Cagliari domenica 12 maggio alle 17
stazione ferroviaria di piazza Matteotti
I racconti di Monumenti Aperti
I racconti di Monumenti Aperti, nasce nel maggio del 2009 all’interno dell’esperienza Cagliari Monumenti Aperti. Dalla manifestazione “madre” desume il suo ambito, quello legato alla sfera del racconto: in Cagliari Monumenti Aperti affidato alle migliaia di volontari provenienti prevalentemente da scuole e associazioni, ne I racconti a scrittori, sardi ma non solo. Ed è anche con il desiderio di “intercettare” questo movimento, di chiamarlo a raccolta attorno all’esperienza virtuosa di Monumenti Aperti, chiedendo di farsi testimone della città, che nasce questa idea.
Nell’edizione 2013 anche questa iniziativa partecipa alla commemorazione del settantesimo anniversario dei bombardamenti sulla città. E lo farà dedicando a quei drammatici giorni un racconto scritto per l’occasione dal giornalista e scrittore Gianni Zanata. Il luogo scelto è la stazione ferroviaria di piazza Matteotti, uno dei luoghi simbolo della Cagliari sotto le bombe.
Gianni Zanata
Nel buio e nel vento
Musiche di Francesco Bachis
Sei personaggi, sei microstorie che si intrecciano a Cagliari il pomeriggio del 13 maggio 1943, giorno in cui i bombardieri alleati distrussero ciò che restava della città, già pesantemente colpita a febbraio. Nel buio e nel vento è un racconto corale, un tessuto di paure, tormenti e speranze che si mescolano in una cantata a più voci, sullo sfondo di una Cagliari stremata dalla guerra.
Gianni Zanata è nato, vive e lavora a Cagliari. Fa il giornalista, scrive storie, romanzi, racconti. Adatta i testi di narrativa anche per performance letterarie, teatrali e musicali. Tra le ultime pubblicazioni: il romanzo “Dettagli di un sorriso” (Quarup) e i racconti all’interno delle antologie “La cella di Gaudì” (Arkadia) e “Piciocus” (Caracò). Nelle precedenti quattro edizioni hanno scritto Marcello Fois, Gianluca Floris, Michela Murgia, Enrico Pau, Massimiliano Medda e Mario Gelardi, Vito Biolchini, Armando Serri, Paolo Maccioni e Giorgio Todde, Paolo Fresu, Davide Catinari e Rossella Faa.
A cura di Giuseppe Murru
Coordinamento scrittori Francesco Abate
Nel buio e nel vento, di Gianni Zanata
Maria
cammina, si guarda attorno.
Occhi
azzurri ha questo bambino, pensa. Occhi belli e grandi, mi scrutano, mi fanno
sentire persino un po’ a disagio.
Occhi
che mi ricordano quelli di Raffaele, l’amore mio. L’amore mio che vedrò stasera,
se avrò fortuna e se il buon Dio vorrà.
Occhi
azzurri e belli ha questo bambino che fissa ancora il suo sguardo al mio,
mentre mi viene incontro, la mano stretta nella mano della madre, il passo
ciondolante e strascicato dei bambini che han poca voglia di camminare.
Sorrido
al bimbo, sorrido alla madre, ché di sorrisi non ce n’è mai abbastanza in
giornate come queste, gonfie di miseria e lutti, intanto che restiamo appesi
allo sconforto, nel buio di una guerra che sembra senza fine.
È
guerra anche adesso, benché non paia, dentro una stazione, tra il vociare, gli
annunci, lo sferragliare dei vagoni, la gente che si affretta e i fischi dei
capotreni. È guerra nonostante i sorrisi e questa mamma e questo bimbo con gli
occhi del colore che a Cagliari ha il cielo di maggio, luce che sgocciola dai
bordi delle finestre e dai lucernari dell’atrio dove aspetto il convoglio che
mi porterà in paese.
Non
arrendiamoci Maria, non arrendiamoci. Prendiamo il mondo, facciamolo sorridere.
Così
l’amore mio mi dice sempre. Come quel bimbo ha gli occhi azzurri e belli,
Raffaele che vedrò stasera, se avrò fortuna e se il buon Dio vorrà.
Non
arrendiamoci, prendiamo il mondo, facciamolo sorridere. Il nostro canto danzerà
sull’acqua. La libertà sarà la nostra forza; con lei il coraggio, la pace e
l’onestà.
Così
l’amore mio mi dice sempre. Raffaele, che il fascismo non l’ha mai potuto
soffrire. Figurarsi le armi, la guerra.
Siam
nati nel posto sbagliato al momento sbagliato, gli dico io. Ma lui s’arrabbia a
sentir questi ragionamenti.
Riscriveremo
il nostro destino, combatteremo la nostra battaglia. Esseri liberi, esseri
giusti: saremo uomini, nello scacciare l’arroganza della guerra. Ché un giorno
i nostri figli ci ringrazieranno, per aver dato loro un mondo senza affanni.
Così
l’amore mio mi dice sempre. Raffaele, che adesso mi aspetta in paese, dove
siamo sfollati a marzo, giorni freddi e bui, in fuga dagli spettri della città,
vuota e triste come la pancia di un cane affamato. Raffaele, che andrò a
cercare nel rifugio di campagna, nell’ovile in cui da disertore si sottrae alle
milizie, riempiendo di sogni e di ottimismo l’angoscia della contumacia.
Ma che
succede? Di nuove le sirene.
Cos’altro
ancora c’è da bombardare?
Sguardi
impauriti. Un ferroviere che si avvicina, mi fa cenno di seguirlo. Corriamo,
dice. Corriamo al rifugio.
Aldo
cammina e si guarda attorno.
Ancora
un’ora e smonto, pensa, un’ora ancora.
Ferroviere,
un lavoro che con questi chiari di luna è come avere un tesoro sotto il
materasso. Così mi dicono gli amici. Un lavoro che non parti per il fronte, che
non vai a far la guerra.
Ferroviere,
mestiere di cui andar fieri, mi dicono gli amici, ché da quando c’è lui, il
Cavaliere, i treni sì che arrivano in orario.
Così
mi dicono gli amici. Che sanno un bel niente.
Sanno un
bel niente dei treni in orario. Ché noi ci facciamo un mazzo così, turni da
schiattare, e disciplina da caserma. Vengano, signori, vengano pure a
controllare. Ne muore di gente sulle rotaie, per far arrivare i treni in
orario. Condizioni di lavoro disumane: più aumentano le ore di servizio, più
diminuiscono i salari. Ecco com’è.
Sa
proprio un bel niente, la gente, dei treni in orario. Adesso, poi, in guerra,
sotto le bombe, è già molto che ci siano, i treni. Altro che orari.
E poi,
a dirla tutta, io il ferroviere non lo volevo nemmeno fare. Se avessi potuto
scegliere, avrei fatto il romanziere.
Raccontar
storie: questo il mio diletto. Raccontar storie, d’amore e d’avventura. Come i
romanzi di quei tali americani, che la censura li ha fatti sparire subito dalla
circolazione. Ché se gli italiani avessero letto quei romanzi, secondo me si
sarebbero resi conto, avrebbero intuito che la cultura del mondo non finisce
mica coi fasci. Magari avrebbero persino detto no alla guerra.
Scrivo
la notte, di giorno, quando capita. La gente non lo sa che ci vuol tempo, a
scrivere storie. È lavoro di pazienza e di sudore, non è mica come scendere e
salire dalle carrozze. Anche se a scendere e salire dalle carrozze s’incontrano
certi tipi che ne avrebbero tante, di storie da raccontare. A pensarci, ognuno
di noi è una storia silenziosa, un racconto nomade. Mi viene da pensare a
Luigi, mio cognato, carabiniere, che ogni giorno, chiusa la caserma, si fa
venti chilometri, a piedi, per tornare a casa dalla moglie, a Serdiana. Anche
lui è una storia nomade e silenziosa.
Ma che
succede? Di nuovo le sirene.
Cos’altro
ancora c’è da bombardare?
Sguardi
impauriti. Una donna che mi viene incontro. Le faccio cenno di seguirmi.
Corriamo, dico. Corriamo al rifugio.
Luigi
socchiude gli occhi, distende le gambe sotto la scrivania.
La
libertà è preziosa, la libertà è rara. La libertà va strappata dalle mani degli
oppressori. Quando gli ho detto così, al piccolo Piero, lui ha sgranato gli
occhi, è rimasto a bocca aperta. Chissà che cosa gli è passato per la testa, a
sentir quelle parole. E non è vero che a tre anni i bambini non capiscano.
Capiscono eccome.
Babbo,
la guerra è brutta. Mi ha detto dopo una lunga pausa, la mano sulla fronte per
ripararsi dal sole di maggio.
L’altra
mattina, seduti su un muretto lungo la strada che da Dolianova porta a
Serdiana, nemmeno mi pareva vero di poter stare con mio figlio, un paio d’ore,
prima di rientrare in caserma, in città.
Certo
che la guerra è brutta, gli ho detto. La guerra è inutile, la guerra è folle,
la guerra è solo sete di potere. L’umanità purtroppo s’è smarrita. Nel buio e
nel vento è l’odore del sangue, e della sconfitta.
Ma tu
sei un soldato, mi ha detto Piero, riccioli ribelli dietro la nuca.
Non
proprio ma quasi. Gli ho carezzato il viso con dolcezza. Non proprio ma quasi.
Piero
mi ha sorriso. Crescerlo in guerra costerà fatica. Ma ce la faremo, appena
quest’inferno passerà. Gli altri due figli son già grandi, e Nina, mia moglie,
è una donna che Dio solo sa quant’è bella e forte e coraggiosa, che a dodici
anni sapeva domare gli asini, cavalcare a pelo ed eseguire acrobazie con il
cavallo lanciato al galoppo. Bella e forte come questa terra che ringrazio la
provvidenza per avermela fatta conoscere. Ché dal Veneto alla Sardegna di
strada ce n’è tanta, ma ne è valsa la pena di arrivare sin qua.
La
libertà è preziosa, la libertà è rara. Ripeto ad alta voce, come se davanti a
me avessi Piero, e non questo ladro patentato, vestito di tela grezza, toppe,
scarpe senza lacci. Sciacalli: così li chiamano, quelli come lui. Gente senza
scrupoli che entra nelle case degli sfollati, a far razzia, a rubar le poche
cose ancora rimaste nei palazzi, abbandonati da chi è fuggito dalla città dopo
le bombe di febbraio. Sciacalli li chiamano, quelli come Paolo, che margianeddu
fa di soprannome. Trent’anni già compiuti, il delinquente. Fedina da provetto
farabutto: quattr’anni di galera, sei condanne. In stato di flagranza è stato
colto. Ceppi ai polsi e sguardo menzognero, sbircia e sorride, fa finta di non
saperne niente. La refurtiva dentro un sacco lurido, merce da scambiare con
formaggi, pasta, forse un pollo, che è tutta roba da mercato nero, che si
compra a sa martinica, come dicono i cagliaritani, settecento lire per un
fiasco d’olio, o cento lire per due chili di patate.
Ma che
succede? Di nuovo le sirene.
Cos’altro
ancora c’è da bombardare?
Guardo
Paolo che guarda me. Un gendarme e brigante. In guerra la paura di morire è la
stessa.
Paolo
ha solo voglia di scappare. Si guarda attorno e sospira.
È
stato Gavino, pensa.
È
stato cussu scimpru di Gavino, una sera mentre fumavano in cella, a mettermi
questo soprannome. Siccome sono piccolo e furbo, dice che margianeddu mi calza
a pennello. Gli stavo per dare una sussa, ma di quelle brutte, il giorno che
m’ha detto questa cosa. Ché anche se sono piccolo e magrolino, uno alto e
grosso come Gavino ne manco lo temo, ché ne ho buttato giù di più alti e di più
grossi di lui.
La
vita è furto e amore. Mi hanno detto che questa cosa qui l’ha scritta un poeta,
un sacco di tempo fa. E io ai poeti ci credo, anche se a scuola ci sono andato
poco o nulla. Però so leggere e scrivere, la terza elementare l’ho fatta due
volte.
Che
mondo sarebbe, se non credessimo ai poeti. Loro hanno un dono: vedono ciò che
tutti noi vediamo, ma lo vedono in modo più nitido, da ogni lato, da ogni
prospettiva. Alcuni lo chiamano talento, altri semplicemente genio. Io non lo
so, non saprei spiegarlo. Non sono un poeta, e il mio talento non l’ho mai
trovato.
La
vita è furto e amore. Diceva così anche Mariano, che di furti e d’amori era uno
che se ne intendeva, che la sapeva lunga. Donne e denari, hai voglia a cercar
talenti, mi diceva. Se hai donne e denari, nient’altro ti occorre.
Ora è
in Argentina, Mariano. Qui non posso stare, m’aveva detto una mattina al porto.
Non gli avevo chiesto perché. Ma avevo intuito, non sono come cussu scimpru di
Gavino, che gli devi spiegare sempre tutto. E comunque sapevo. I crastuli hanno
gambe veloci.
L’aveva
combinata grossa, Mariano. Che se l’intendeva con la moglie del vice podestà, e
all’occorrenza persino con la figlia. Furto d’amore, non senza rischi. Tant’è
che una sera il vice podestà, una merdona stontonara, rientrando a casa senza
preavviso li aveva colti sul più bello, si fa per dire. Faccenda delicata.
Sulla quale, temendo scandali di certo inopportuni per la sua carriera
politica, il cornuto aveva imposto il massimo riserbo. A suon di bigliettoni.
È così
che Mariano s’è fatto un bel gruzzolo. Con l’obbligo di levar le tende dalla città,
s’intende. E un bel giorno è partito. Senza dir nulla, senza nemmeno salutare.
La
vita è furto e amore, maresciallo. Ma glielo giuro, non ce la faccio più.
Voglio cambiare. Se lei mi aiuta, se lei mi lascia libero, glielo assicuro, non
ruberò mai più.
La
fame è brutta, la fame è cosa orrenda. Sono sciacallo, sì, ma solo per
disperazione. Non tolgo nulla a chi nulla non ha. La guerra, la violenza, la
miseria: queste sì, son cose disumane.
La
prego maresciallo. Sono un ladruncolo, ma di mezza tacca. I delinquenti veri
sono altrove. Gente spietata che non si commuove, che nulla sa di inedia e
carestia. Qui, sotto la casacca, batte un cuore. Se son sciacallo, non è colpa
mia.
La
prego maresciallo. Mia moglie aspetta alla stazione. Abbiamo un bimbo, dieci anni
a giugno deve fare. Guardi la foto: occhi azzurri ha Giulio, il mio bambino.
Occhi grandi che a volte mi scrutano e mi fanno sentire persino un po’ a
disagio.
Ma che
succede? Di nuovo le sirene.
Cos’altro
ancora c’è da bombardare?
La
prego Maresciallo, andiamo via. Gendarmi, briganti: la morte in guerra non fa
differenza. La prego Maresciallo, andiamo via.
Al
suono della sirena Giulio solleva il capo, si guarda attorno.
Lo so
cosa significa, pensa.
Anche
se ho solo nove anni e undici mesi, dieci a giugno, lo so cosa significa, cosa
bisogna fare quando suona la sirena.
Quando
suona la sirena bisogna scappare, correre al rifugio. Ché arrivano gli aerei. E
le bombe.
L’ultima
volta che ha suonato la sirena mi sono preso uno spavento grande così. Uno di
quegli spaventi che anche mamma ha iniziato a tremare. Da quando son cadute le
bombe di febbraio, ogni volta che suona la sirena le viene la tremarella alle
gambe, e ce ne vuole del tempo prima che passi. A volte giorni interi.
Ne è
morta di gente, l’altra volta. Pure zia Bonaria, che poverina quando andavo a
trovarla mi regalava le caramelle e mi portava a fare le passeggiate in
spiaggia. E una volta m’aveva portato a vedere anche il teatro, non da dentro,
ma da fuori, vicino al Bastione. I signori in nero, agghindati a festa, e le
donne con il cappello, i vestiti lunghi ed eleganti. Da fuori, li abbiamo
visti, ché il biglietto per lo spettacolo costa troppo, aveva detto zia Bonaria
con un’espressione sconsolata.
Erano
belli, quei signori agghindati. Ed erano belle le dame. Che se avessi avuti i
soldi per i biglietti avrei fatto un regalo a zia Bonaria, per ringraziarla
delle caramelle e tutto il resto.
Quel
teatro adesso non c’è più, l’han distrutto le bombe, qualche giorno dopo la
morte di zia Bonaria, uccisa pure lei, mentre correva al rifugio di Stampace.
E non
lo so, ma è da quel giorno lì, dal giorno che è venuto giù il teatro, che penso
a una cosa. Da quel giorno lì penso che quando sarò grande, quando la guerra
sarà finita e avrò un lavoro e guadagnerò denaro, quando anche le sirene non
suoneranno più, io, con il denaro guadagnato, farò una cosa che se zia Bonaria
fosse viva, adesso, e le parlassi e le raccontassi i miei pensieri, lei mi
sorriderebbe.
Da
quel giorno lì penso che quando sarò grande, io lo ricostruirò, quel teatro.
Più bello e più grande di prima. Chiunque potrà entrarvi, e dei biglietti non
importerà a nessuno.
Ci
penso sempre, a quando sarò grande. Ci penso anche ora che mamma mi tiene
stretta la mano e mi dice di correre. Anche ora che il ferroviere ci dice di
far presto, ché non c’è tempo da perdere.
Lo so,
gli dico. Anche se ho solo nove anni e undici mesi, dieci a giugno, lo so che
quando suona la sirena bisogna correre al rifugio.
John
cammina a passi misurati verso l’hangar.
Ogni
volta è diverso, pensa, scrutando il cielo mentre un caccia s’alza in volo.
Ogni
volta è diverso. Eppure inspiegabilmente uguale, nella sua diversità: disporre
il rifornimento, controllare la strumentazione di bordo, l’equipaggiamento.
In
guerra ogni nuova azione sembra identica alla precedente. Ogni bomba uguale
all’altra, anche se ognuna andrà per conto suo.
Ogni
volta mi chiedono di mettermi in posa per una foto.
Comandante,
si metta qui. Così. Perfetto. Sorrida. Metta la firma sulla bomba.
Questa è per la tua casa.
Bene.
La pubblicheremo sul giornale.
Ogni
volta è diverso. Ma in guerra no, non è così. Tutto sembra uguale, anche le
foto sui giornali.
Qual è
l’obiettivo di oggi, comandante?
Cagliari,
Sardegna. Il cielo è limpido, c’è il sole. Tutto sarà più facile.
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