I fratelli Bandiera
Il Risorgimento in Calabria
una pagina dimenticata.
1. Cosenza – Cronaca della
sommossa del 15 Marzo1844
conclusasi con 4 Caduti, 5
fucilati e un suicidio.
2. Nel giugno 1844 lo sbarco
dei Fratelli Bandiera neutralizzato
dalla polizia borbonica. Altri 2
Caduti e 9 fucilati.
Il sacrificio ebbe una larga eco
in tutta Europa e guadagnò nuovi
proseliti alla causa italiana.
di Maddalena Arnoni
Gli
avvenimenti di Cosenza del 15 marzo 1844 furono il primo germe di tutte
le successive agitazioni che portarono all'Unità italiana ed ebbero
vasta risonanza. Videro protagonisti e fautori della sommossa Nicola
Corigliano e Francesco Salti, patrioti cosentini.
Pertanto
vorrei ricordare la cronaca di quella giornata servendomi dei documenti
esistenti, riannodandoli in una narrazione semplice, non senza prima
rivolgere uno sguardo al clima storico che rese possibile la genesi di
quella coraggiosa iniziativa.
Negli
anni che precedettero la sommossa, le condizioni di Cosenza e della
provincia erano tristi sotto il governo borbonico:erano stati aboliti la
bandiera e l'esercito; il lavoro mancava, l'indigenza, il malcostume,
l'ignoranza e il brigantaggio dilagavano. Le fonti di ricchezza erano
inaridite.
Il
procuratore generale Dalia più volte nei suoi rapporti ai ministri
parlava della miseria in cui versava tutta la provincia; e, nonostante
ciò, nel 1843 venne ad inasprire gli animi della popolazione il decreto
del 31 marzo che dichiarava in modo inappellabile “Demanio dello Stato”
l`agrosilano, riducendo ad un terzo il compenso degli usi dovuti ai
cittadini di Cosenza e dei Casali, i quali si videro costretti a subire
le ingiuste decisioni.
Ecco
allora un gruppo di giovani colti, amanti di novità, intolleranti di
giochi imposti in mezzo ad una massa inerte, abbrutita dall'ozio, dalla
miseria, che si sforzava d'infondere in quella massa un po' di vita, di
dirigerla verso una meta luminosa.
Dopo
una lunga preparazione in casa Laurelli, alla Giostra Vecchia, nella
farmacia Salfi e Anastasio, un primo tentativo fallì. In seguito, Nicola
Corigliano e Francesco Salti del comitato cosentino della Giovane
Italia, avuta notizia che altre province, tra cui quelle abruzzesi,
erano pronte a proclamare un governo costituzionale, stabilirono, con un
programma preciso, di condurre la sommossa il giorno 15 marzo 1844.
Gli
accordi furono presi nell'antico caffè Gallicchio con Italo-albanesi
dei paesi circonvicini, per la realizzazione del seguente piano
d'azione: nella mattina del 15 marzo si dovevano riunire tutti i
cospiratori nella Piazza dell'Intendenza (poi Prefettura), per dare I
'assalto al palazzo e obbligare l’Intendente a riconoscere il nuovo
governo costituzionale e a far cedere le armi alla gendarmeria reale.
Una
colonna di italo-albanesi, aderenti alla Giovane Italia,c apitanata dal
cosentino Francesco Salfi domiciliato a San Benedetto Ullano, avrebbe
dovuto recarsi nella contrada “Coda di Volpe” nella notte del 14 marzo
ad aspettare l’alba.
Un`altra
colonna,al comando di Nicola Corigliano, si sarebbe radunata la stessa
sera su Montechierico nei pressi della casa di compagna di Rosa
Puntieri, moglie del Corigliano, da dove era visibile una parte della
Giostra Nuova e della Piazza dell’Intendenza, nella quale sarebbero
accorsi al sopraggiungere della colonna Salfi.
Tutti
i cospiratori quella notte convennero nella contrada Settimo dove
comincia il bosco dei Magdalone denominato Coda di volpe.
C'era la gente venuta da Castrolibero ,da Marano Marchesato, da Gesuiti, da Cerzeto, da San Benedetto Ullano.
Un`ora
prima dell'alba bussarono ad una tavema e bevvero del vino, indi si
avviarono alla volta di Cosenza non senza avere prima sparato sul ponte
di Emoli quattro razzi luminosi in una notte di novilunio ed in
condizioni atmosferiche favorevoli, per segnalare l'inizio della marcia
ai cosentini radunati sotto la guida di Nicola Corigliano.
Appena
il chiarore del giomo si diffuse nella clan, dalla casa Puntieri si
udirono grida e spari: era infatti la colonna Salfi, all'insegna di una
bandiera tricolore retta da un contadino albanese, che aveva percorso
indisturbata tutta la città che giaceva ancora nel sonni della
schiavitù.
I
cosentini, secondo l'intesa, scesero dalie pendici di Montechierico e,
raggiunta la Piazza, si unirono agli altri. Ma si aprì un imprevisto
conflitto a fuoco perche la polizia aveva avuto sentore della sommossa
ed era riunita nel Palazzo dell'Intendenza,
Caddero Francesco Salfi, Giuseppe De Filippis , Francesco Coscarella e Michele Musacchio, mentre dall'altra parte perse la vita it
tenente della gendarmeria Galluppi, figlio del celebre filosofo di
Tropea. Cominciarono subito dopo numerosi arresti, persecuzioni e
confessioni. Il 10 luglio, da una Commissione militare, ventuno furono
condannati a morte , dieci a trent'anni di carcere , dodici a pene
minori.
La
pena capitale, per ordine pervenuto da Napoli, doveva essere eseguita
solo per sei designati della Commission , e i sei designati furono:
Nicola Corigliano e Antonio Raho di Cosenza, Pietro Villacci di Napoli,
Raffaele Camodeca di Castroregio, Giuseppe Franzese di Cerzeto, Sante
Cesareo di San Fiti ,
Antonio
Raho si avvelena prima dell' esecuzione . L' 11 Luglio alle ore 22 i
cinque giovani mostrando molta rassegnazione , furono giustiziati . Lo
Storino racconta che arrivati nel Vallone di Rovito , Nicola Corigliano
notò che il Vitlacci tentava di non mettere i piedi nudi in una pozza
d'acqua e scherzosamente gli chiese :"Hai paura di prendere un
raffreddore?" , dimostrando con quella sovrumana battuta tutto il suo
distacco e il suo coraggio di fronte alla morte.
Di
questi avvenimenti hanno trattato Raffaele Conflenti, Stanislao De
Chiara, Romeo Paone e Giuseppe Storino. I Martiri Cosentini sono poco
noti e poco ricordati
Lo sbarco dei Fratelli Bandiera in Calabria
ITINERARIO
Foce
del flume Neto, localita detta Lagonetto (a nord di Crotone tra Punta
Alice e Capo Colonna) - Crotone (Masseria Poerio) - Santa Severina
(pressi) - Belvedere Spinello - Gipso (ansa del Neto) - Cerenzia -
Caccuri (localitci Vordò) - Stragola (canale) - S. Giovanni in Fiore
(Monte Gimmella)- Cosenza (Carcere e Tribunale Mititare - Vallone di
Rovito - Chiesa di S. Agostino - Duomo).
Attilio
ed Emilio Bandiera, nati dal barone Francesco, alto Ufficiale della
Marina austriaca, e da Anna Marsich (Attilio a Spoleto il 24 maggio
1810, Emitio a Venezia it 20 giugno 1819), furono avviati alla carriera
militare e formati nell'Accademia della Imperiale Regia Marina in
Venezia.
Insofferenti
verso il regime austriaco, nutrirono presto sentimenti di ribellione e
iniziarono a cospirare durante la guerra di Siria nel 1840, nella
squadra navale comandata dal padre. Nel 1841 fondarono la società
segreta Esperia (dall’antico nome che divenne poi una filiazione della "Giovine Italia", ispirata alle idee di libertà e unita
nazionale). Si misero in corrispondenza con il Mazzini e credettero nel
1843, quando scoppiarono i primi moti, che il tempo per insorgere fosse
maturo; ma traditi da un certo Vespasiano Micciarelli, infiltrato nella
Esperia, furono richiamati a Venezia quali principali cospiratori,
disertarono e si rifugiarono a Corfù dove erano già numerosi i rifugiati
politici.
Per
intercessione della madre, recatasi a Corfù, e della rnoglie morente di
Attitio, avrebbero potuto ottenere it perdono imperiale, ma
rifiutarono nobilmente "per non tradire la patria e l'umanità”,
A
Corfù vissero la vita stentata degli esuli, profondendo gli ultimi beni
nell'acquisto di armi e mezzi per una eventuale spedizione. Benché
dissuasi dal Mazzini che non vedeva nella loro impresa possibità di
successo, abbandonata anche I'idea di una spedizione nell' Italia
centrale suggerita da Nicola Ricciotti che pure si trovava tra i
profughi, decisero di sbarcare in Calabria per aiutare i fratelli
liberali calabresi. Da quella regione infatti erano giunte notizie
confortanti: Cosenza, Paola, S. Giovanni in Fiore erano insorte. Ma la
rivolta cosentina, che quasi coincise con Ia loro partenza dall'isola,
era come sappiamo, purtroppo, miseramente fallita.
Nella notte tra il 13 e il 14 giugno 1844 i Fratelli Bandiera partirono da Corfù con Ia nave da pesca e trasporto, il San Spiridione, comandata dal pugliese Mauro Caputi, già affiliato della Giovine Italia.
Con
i fratelli Bandiera si imbarcarono altri prodi: Domenico Moro, Nicola
Ricciotti, Anacarsi Nardi, Tommaso Massoli, Giovanni Manessi, Paolo
Mariani, Francesco e Giuseppe Tesei, Carlo Usmani, Giuseppe Miller,
Pietro Piazzali, Giovanni Venerucci, Luigi Nanni, Giuseppe Pacchioni,
Francesco Berti, Giacomo Rocca, Domenico Lupatelli, Pietro
Boccheciampe, Giuseppe Meluso detto anche Nivaro, che 12 anni prima si
era rifugiato nell'Isola col nome di Battistino Belcastro essendosi
macchiato di uxoricidio e di altri delitti. E proprio costui, poichè
aveva conoscenza dei luoghi dove si sarebbe svolta l'impresa, si offri
come guida al drappello e la proposta fu naturalmente accolta, poiché
s'ignorava tutto il passato dell'uomo.
Cosi
sull'umlle "trabiccolo", con i larghi fianchi rabberciati di pece,
stivato di segale e veleggiante per il mare Ionio, la presenza. tra
quelle anime accese, di Boccheciampe che si rivelerà il traditore, e del
brigante Nivaro, simboleggiava in quel viaggio fatale e nel forte
contrasto le due Italie di allora: quella della insidia e della servitù,
e quella sognata dai poeti, dall'Alfieri in poi, e vaticinata dalla
prosa severa di Giuseppe Mazzini.
Nativi
di Venezia, di Bologna, di Perugia, del Lazio, della Romagna e delle
Marche, quei cospiratori si sentivano comunque figli della Terra
Calabra, perché terra italiana. Era la prima volta che Italiani venivano "per offrire aiuto e dare coraggio e sollievo, senza nulla chiedere".
Al tramonto del 16 giugno 1844, sbarcarono alla foce del Neto, a nord di Crotone, fra Punta Alice e Capo Colonna.
Il
Neto, "Neathos", con chiaro richiamo etimologico a navi incendiate,
secondo una leggenda riportata da Strabone, scaturisce dalle falde
nord-orientali dell'imponente monte Sorbella (1.850 m
slm.), mai povero di acque, si allarga tra i boschi ed i folti canneti
decantati da Teocrito, e dopo settantaquattro chilometri sbocca nel mare
Ionio,
Il
gruppo marciò nella notte risalendo il corso del fiume, fino a giungere
alla masseria Poerio sulla sponda destra del Neto, di proprietà di
Filippo Albani, a circa dieci chilometri da Crotone. Era l'alba del 17
giugno. Già strada facendo da alcuni contadini ebbero notizie poco
rassicuranti sui moti già spenti, confermate anche da Girolamo Calojero
fittavolo degli Albani, sopraggiunto con altri due contadini per la
imminente mietitura.
Nonostante
tutto, con nel cuore le tenebre di un sogno fallito, decisero di
marciare alla volta di Cosenza, dove i recenti moti liberali del 15
marzo lasciavano bene sperare in una sollevazione generale che avrebbero
potuto e dovuto essi stessi suscitare, soffiando sulle ceneri ancora
calde.
Il
popolo calabrese, che non conoscevano da vicino, per antica tradizione
era detto fiero e bellicoso, perciò sarebbe stato facile guadagnarlo
alla causa italiana.
Con tali speranze,
attesero la sera, cibandosi con una povera zuppa di fave e dissetandosi
con acqua. A sera, poi, partirono lungo le sponde del Neto, procedendo
con buona lena, guardinghi nella notte, fin quando, ad un certo punto,
si accorsero che Boccheciampe era letteralmente svanito nel nulla.
Soltanto dopo si capì che era ritornato sui suoi passi premuroso di
avvertire di quanto stava avvenendo le Autorità borboniche della vicina
città di Crotone. Gli altri andarono innanzi tutta la notte e all'alba
sostarono in un burroncello nei pressi di Santa Severina, ancora nel
distretto di Crotone, territorio montuoso ricco di boschi e pascoli.
Rimasero nascosti tutto quel giorno martedì 18 giugno e prima di sera
ripresero il cammino. Dovevano guadare il fiume e, in contrada
Belvedere, affrontare le balze dell'Appennino per raggiungere
l'Altopiano silano.
Ma
già, in tutti quei luoghi, i Capi Urbani avevano dato l'allarme e
attendevano al varco la gente "sbarcata". Ecco perché nella notte tra
il 18 e il 19, a Gipso, un'ansa del fiume Neto, la spedizione s'imbatteva nell'agguato di forze superiori che attendevano nascoste nell'ombra.
Sotto
la guida del Meluso che conosceva quei luoghi passo per passo, perché
nativo di S. Giovanni in Fiore, i giovani ardimentosi riuscirono ad
eludere l'attacco e a ripararsi attraverso il territorio di Cerenzia e
Caccuri, in località "Vordò" di proprietà della famiglia Lopez da S.
Giovanni in Fiore.
C'era
una dimora di campagna, una volta antico monastero di frati che, con
l'incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici, era stato
acquistato dai Lopez. Sulla
spianata antistante la casa, all'aperto, in mezzo ad un uliveto, fu
offerto loro del vino da un certo Polibio. Subito dope ripresero il
cammino in provincia di Cosenza, nel territorio di San Giovanni in
Fiore, grosso centro agricolo bagnato dal corso dell'alto Neto e del sue
affluente Ampollino. In una bettola, in località Stragola, sostarono
per consumare un pasto frugale di pane, formaggio ed alcune cipolle.
Proseguirono
il loro cammino e quando giunsero al Canale della Stragola,
Improvvisamente furono assaliti da un'orda furibonda di popolo urlante "Eccoli! Eccoli! Arrendetevi.Viva il nostro Re! Viva Ferdinando , scambiando
i prodi per stranieri armati. Accerchiati, assaliti, fu inevitabile lo
scontro, durante il quale rimasero feriti alcuni, mentre Tesei e Mitler
caddero.
Il brigante Nivaro ormai riconosciuto dai suoi ex paesani sfuggì alla cattura e si diede alla macchia.
Dodici
furono catturati e condotti al Corpo di Guardia di S. Giovanni in
Fiore, presso il quale fu redatto un primo verbale relativo all'arresto.
Descrivere
le condizioni del Mezzogiorno d 'Italia di quei tempi richiederebbe una
lunga digressione. Basti dire che i Bandiera erano giunti improvvisi e
inattesi senza accordi precisi con coloro che potevano comprendere e
condividere le loro idee. Pochi esercitavano un'arte o un mestiere: o
servivano o coltivavano i campi o per miseria rubavano coprendosi anche
di altri delitti. Così diventavano briganti. Solo più tardi il popolo
conobbe la nobiltà del martini; infatti, durante la prigionia e ll
processo cominciò ad amarli e poi li venerò come martiri.
Lo
stesso Giudice del Circondario, avido di ricompense e riconoscimenti,
volle far credere che coloro i quali erano guidati dal brigante Nivaro fossero suoi degni compagni "spregevoli e pericolosi", come scrisse in data 19 giugno 1841 in un comunicato regio riportato dal De Chiara.
II giorno seguente a quella cattura, il 20 giugno, furono portate in paese le salme del caduti Miller e Tesei e, dopo
essere rimaste esposte in piazza per un giomo, furono pietosamente
sepolte nella Chiesa del Monastero, oggi monumento nazionale,
dell'ordine florense fondato da Gioacchino da Fiore. Intanto venivano
curati i feriti e il 23 giugno, secondo gli ordini pervenuti dalle
autorità distrettuali, furono condotti per la via della Sila, su
cavalli e muli, a Cosenza, direttamente al Palazzo dell'Intendenza. Solo
Attilio Bandiera fu interrogato, poi raggiunse i compagni nelle
carceri centrali. "Era questo un gran fabbricato che riunisce ancora i Tribunali, il Commissariato di polizia e un deposito) di armi" (Riccardo Pierantoni, Milano 1909).
II Memoriale di Marsiglia riferisce che era permesso accostarvisi e che infinite furono le prove di simpatia e di affetto che i prigionieri poterono ricevere dalla popolazione cosentina.
II
processo fu indubbiamente influenzato dall'autorità politica.
L'imputazione principale era di cospirazione ed attentato all'ordine
pubblico per far cambiare il Governo e far insorgere i sudditi contro
l'autorità reale. Seguivano le accuse di sbarco
furtivo commesso a mano armata nel Regno con bandiera Tricolore;
d'infrazione alle leggi sanitarie; di resistenza ed attacco alla forza
pubblica dei comuni di Belvedere Spinello e di S. Giovanni in Fiore;
dio detenzione di materiale propagandistico sovversivo.
Avvocati
difensori di ufficio furono nominati Cesare Marini, Tommaso Ortale e
Gaetano Bova, tre giganti del Foro cosentino. L'incarico doveva servire
come apparato scenico, mentre il verdetto era già stato formulato dalla
Giuria e prevedeva la morte dei congiurati
Nella
foga appassionata della difesa, gli avvocati avrebbero poi sorpassato i
limiti della prudenza, rivelando gli intimi convincimenti della loro
fede politica. Quasi un’autoaccusa.
Il
16 luglio incominciò il processo dinanzi ai giudici militari.
L'intendente, il commissario di Polizia ed il colonnello Zola
informavano il De Carretto, ministro di polizia, dei progressi del processo. Il governatore Dalla riferiva al Ministro di Grazia e Giustizia.
La
Commissione si dichiarò competente a procedere al giudizio per i
fuoriusciti esteri, riservandosi all’esito di tale giudizio di discutere
la competenza per gli arrestati calabresi. Furono ascoltati tutti i
testimoni di accusa. Non si voleva I'imbarazzo di prove difensive che
vennero respinte.
Così
nell'aula della Gran Corte Criminale la voce dell'accusa risonò sola.
Il Commissario del Re dette le sue conclusioni: tutti colpevoli di Lesa
Maestà e per tutti pena capitale. All'ultimo minuto tre ottennero la
grazia, perché l'esecuzione doveva essere limitata solo a nove degli
arrestati esteri compresi tutti i capi e coloro che avevano avuto più
influenza nella rivolta.
La sentenza, emessa con un certo ritardo per dare la parvenza di ponderata giustizia, fu data ii 24 luglio 1844 in
nome di Ferdinando II ed in cinquecentocinquanta copie nei giorni
successivi, fu diffusa nel Regno ad ammonimento degli animi indocili.
I
prigionieri, ammanettati per udire la sentenza, furono condotti ad uno
ad uno davanti al Capitano relatore nella stretta corte della prigione.
Nelle
ore precedenti l'esecuzione furono assistiti dall'abate Beniamino De
Rose e s'intrattennero sui destini dell'Italia, sull'immortalità
dell'anima secondo it Clarke; scrissero le ultime lettere alla
famiglia. Giuseppe Pacchioni ritrasse i compagni in quelle ultime ore.
All'alba
del 25 luglio furono spalancati i cancelli del carcere e comparve il
triste corteo che si dispose ad uscire per recarsi al luogo del
supplizio fra due doppie file di soldati armati di moschetto. I
condannati indossavano un nero camiciotto e le teste erano coperte con
veli bruni che ricadevano sulle spalle.
Il corteo usciva dall'abitato e procedeva lentamente per la via della campagna, verso il Vallone di Rovito.
I
balconi, le terrazze, i poggi, le colline adiacenti brulicavano di
gente alle sei del mattino, muta e oppressa da un cupo dolore.
Passarono
dinanzi alla Chiesa di Sant'Agostino e Domenico Moro, additandola,
domandò all'abate De Rose se colà avrebbero trovato riposo le loro
salme: e cosi era stato deciso.
Poi nell'aria nitida mattutina, un canto erompe ad un tratto, alto e chiaro, vibrante di passione:
Chi per la patria more
vissuto è assai;
La fronda dell'allor
non langue mai.
Piuttosto che languir
sotto i Tiranni,
è meglio di morir
sul fior degli anni........
Erano i Martini che intonavano un coro dell'opera "Donna Caritea" del
Mercadante, con qualche variazione ai versi. I liberali avevano
cambiato due versi, e il coro divenne popolarissimo in Italia.
Dopo I'esecuzione un grave silenzio scese non
solo su Cosenza, ma sull'Italia. Ebbero degna sepoltura nella vicina
Chiesa dei Frati Agostiniani e si dice che I'abate De Rose collocò all'
interno delle bare una bottiglia contenente un foglio di carta con le
complete generalità di ciascuno. Ciò, successivamente, quando ne fu
fatta l'esumazione, rese possibile identificare i resti dei martini con
la massima precisione. A Parigi, a Londra, gli esuli coniarono una
medaglia commemorativa e Giuseppe Mazzini, Laura Beatrice Oliva Mancini,
Gabriele Rossetti, Giuseppe Ricciardi ed altri celebrarono il martirio
di Cosenza con prose e poesie. A Cosenza ai Fratelli Bandiera è stato
innalzato un semplice sacrario nel Vallone di Rovito. Dopo
l'unificazione d'Italia le loro salme furono traslate nei paesi
d’origine. Le salme di Attilio ed Emilio Bandiera il 16 giugno 1867
vennero portate a Venezia, accolte dalla madre distrutta dal dolore, e
tumulate nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, tra le tombe gloriose
dei Dogi.
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