Troppo grande per il suo tempo. "Lettere di un povero diavolo"
Un libro fondamentale per comprendere una delle voci "europee" della poesia italiana del '900. Un poeta troppo grande per il suo tempo che non gli perdonò la potenza visionaria e sovversiva dei versi e della vita.
Paolo Mauri
Psico Campana. "Ladri, insulsi, lecchini". Un poeta contro i letterati
"Era
matto e solo matto, è stato scambiato da molti per un vero poeta".
Questo giudizio senza appello su Dino Campana e sulla sua poesia è
firmato Umberto Saba. Piero Santi, uno scrittore fiorentino che lavorava
alla radio, una volta con Saba ci litigò. Campana, gli disse, «è il
maggior poeta italiano moderno». Era un colpo basso, una classifica
improvvisata per umiliare Saba. Si sa che i poeti o si amano molto o non
si amano affatto. Campana, per esempio, detestava Palazzeschi: «Questa
lettera è insulsa come una poesia di Palazzeschi», scrisse al
giornalista Aldo Orlandi nel novembre del '17, ma già altre volte era
stato velenoso. In una letteraccia del maggio 1913 scritta su carta da
pacchi color lilla indirizzata a Papini dopo la lettura di un numero di
Lacerba (la rivista che Papini dirigeva) lo invitava a licenziare
l'intera redazione. «Il vostro giornale è monotono, molto monotono:
l'immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici» e lo invitava a chiedere
qualcosa a Marinetti «che è un ingegno superiore» non senza avergli
ricordato di aver inviato al giornale un suo «bozzetto meraviglioso di
un'arte veramente nuova» cestinato certo per invidia. Ma poche righe
prima aveva scritto: «La vostra speranza sia: fondare l'alta coltura
italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze delle città
elettriche, sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero
popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie,
saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze». Del resto
scrivendo a Emilio Cecchi nel marzo del 1916, Campana riassume la
vicenda della perdita del prezioso manoscritto, per cui aveva minacciato
di accoltellare i responsabili, e dichiara: «Posso provare che Papini e
Soffici sono ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto. Questo l'ho
scritto a loro 4 o 5 volte e parlando di loro ordinariamente non uso mai
altri termini». E Cecchi replica: «Chi ha avvicinato Papini è sempre
rimasto colpito... dalla commercialità e dal cinismo del suo tratto».
Non
le mandava a dire Dino Campana. Ma bisogna leggere il Carteggio
1903-1931 ora pubblicato da Polistampa col titolo Lettere di un povero
diavolo (pagg. 496, euro 30) per rendersi conto dell'intelligenza e
della irrequietezza del poeta di Marradi. Un caso davvero singolare, che
il curatore del volume, Gabriel Cacho Millet, studia da oltre
trent'anni senza nulla trascurare, neppure il segnale o l'interlocutore
più remoto, nella speranza di aggiungere un tassello ad una biografia
tormentata e straordinaria, al punto da sembrare, certe volte,
un'invenzione decadente. D'altra parte Carlo Pariani, lo psichiatra che
ebbe in cura Campana nel manicomio di Castel Pulci fu indotto anche lui a
scrivere, come si sa, una biografia "non romanzata" del poeta, frutto
dei colloqui avuti con il suo non facile paziente, che del resto
soffriva da tempo di crisi nervose e di eccitazione. Scrivendo al
direttore del manicomio di Imola, dove Campana era stato ricoverato nel
1906, il padre, il maestro elementare Giovanni Campana, dopo aver
ricordato d'essere ricorso anche lui alle sue cure per disturbi
nevrastenici, raccontava che il figlio Dino aveva cominciato fin dal
1900 «a dare prova d'impulsività brutale, morbosa» specialmente nei
confronti della madre. Il direttore del manicomio, Raffaele Brugia,
rispose al padre, dicendogli che dopo due mesi di assidua osservazione
gli confermava che Dino è "uno psicopatico grave" e tuttavia
acconsentiva a dimetterlo su richiesta del padre stesso che però doveva
assumersi ogni responsabilità su quello che poteva accadere. Molte di
queste lettere si conoscevano e mancano qui le lettere del bollente
carteggio d'amore con Sibilla Aleramo, più volte ristampato. Ma vi sono ,
per esempio, alcune lettere inedite degli anni Cinquanta di Manlio
Campana, il fratello minore di Dino, dalle quali veniamo a sapere che
quando Dino era andato in Argentina, doveva lavorare presso una
farmacia, essendo studente del quarto anno in quella disciplina. Appena
sbarcato, però, fece perdere le sue tracce e il farmacista scrisse al
padre di Dino, rammaricandosi dell'accaduto. Una prova in più che
testimonia la veridicità di quel viaggio che a qualcuno (per esempio
Ungaretti) era sembrato un'invenzione.
Le
lettere consentono anche di seguire l'attività letteraria di Dino,
presto entrato in contatto con Mario Novaro, direttore della Riviera
Ligure, una rivista liberty nata in seno all'industria dell'olio Sasso e
da foglio pubblicitario presto trasformata in rivista di letteratura.
Rispetto a quasi tutte le riviste italiane, la Riviera aveva un pregio:
pagava e dunque poté presto vantare collaboratori illustri. Ma Novaro,
che era anche lui poeta, come il fratello Angiolo Silvio, era aperto
alle esperienze dei giovani e dunque Campana approdò su quelle pagine,
scrivendo anche lettere al signor Geribò. Geribò era un'invenzione di
Novaro: per togliersi d'impiccio s'era inventato un amministratore con
questo nome, ma ad un certo punto dichiarò che forse era meglio farlo
morire. A Novaro, Campana chiedeva anche aiuto per andarsene in Francia.
L'andar via, l'altrove sarà sempre un segno distintivo del vagabondare
del poeta: lo troviamo a Genova, in Svizzera, in Francia, in
Argentina... Sapeva diverse lingue e in più occasioni si era offerto
come traduttore. Non ebbe, neppure all'estero, vita facile: fu
arrestato, messo in carcere e in manicomio.
C'è
il rischio, qualcuno obietterà, che tutto questo materiale biografico
faccia prevalere il personaggio Campana sul poeta Campana, ma è un
rischio che ormai corriamo da un secolo buono. Parecchi anni fa, era il
1984, Sebastiano Vassalli scrisse un romanzo, La notte della cometa,
ispirato a Dino Campana, «il mio babbo matto». «Sono quattordici anni»,
scriveva Vassalli, «che ricerco la verità della vita di Dino Campana».
Compito non facile: e lo sanno i suoi lettori. Nel 1960 Enrico Falqui
pubblicò presso Vallecchi gli inediti del Taccuinetto faentino che erano
stati ritrovati dal fratello Manlio e trascritti da Domenico De
Robertis. All'inizio degli anni Settanta dalla carte Soffici saltò fuori
il famoso manoscritto dei Canti Orfici perduto mezzo secolo prima, poi
ricostruito a memoria e variato da Campana stesso per la pubblicazione.
Insomma, con Campana il conto è sempre aperto e ogni volta lo si rilegge
con doloroso piacere.
(Da: La repubblica del 7 dicembre 2011)
Dino Campana
Lettere di un povero diavolo
Polistampa, 2011
30 Euro
da vento largo
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