Ricordando Benjamin
"C'è
un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un
angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha
fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le
ali sono dispiegate. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha
il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di
avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente
macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben
trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso
soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte
che l'angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge
inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce
verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi
chiamiamo il progresso, è questa bufera."
Scriveva
così Walter Benjamin nelle sue tesi sul concetto di storia. Leggerlo ci
aiutò a elaborare il lutto del fallimento politico, ad accettare il
nostro essere parte di una generazione di sconfitti e ci rese di nuovo
capaci di guardare avanti. Per questo lo amiamo. Benjamin, ebreo
suicidatosi nel 1940 per non cadere nelle mani della Gestapo, è una
delle vittime della Shoah.
Benjamin in punta di penna
“Was
Ist Aura?”. Sono queste le uniche parole che riesco a decifrare. Si
leggono in apertura di un documento non datato e manoscritto di Walter
Benjamin. Tra i supporti più disparati utilizzati da Benjamin per
prendere appunti mi colpisce quello che tenta di definire l’aura, uno
dei concetti benjaminiani più indeterminati: una carta intestata “Acqua
di S. Pellegrino. La migliore da tavola”. Il logo – una sorta di sponsor
dell’Italian Style sul pensiero di Benjamin – non è cambiato: una
stella rossa a cinque punte, con l’immagine della bottiglia disposta al
centro oppure, come recitavano le pubblicità dei primi del secolo
scorso, “la marca stella rossa” da esigere, l’acqua “battericamente
pura” rispetto alle altre, che possono contenere “i germi del tifo,
della dissenteria e di altre gravi infezioni”. “Was Ist Aura” è
riportato giusto sotto l’insegna “S. Pellegrino”, quasi che Benjamin
fosse indotto a interrogarsi sulla decadenza e la frantumazione
dell’aura a partire non dall’opera d’arte e dalla fotografia
contemporanea ma da un marchio pubblicitario. Siamo in piena
fantasmagoria della merce: la stella rossa è una materializzazione
dell’aura che irradia dal prodotto reclamizzato, un’aureola trasmigrata
dal capo dei santi al collo della bottiglia, dall’icona e dalla mistica
alla società dei consumi. Forse la sua iconicità funziona per Benjamin
anche come un’immagine dell’infanzia, una delle tante che la sua
scrittura ha recuperato dal cafarnao della storia.
“Was
Ist Aura?” è uno dei documenti esposti nella bellissima mostra Walter
Benjamin Archives al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi
(fino al 5 febbraio), una raccolta di quello che Benjamin avrebbe
chiamato “kitsch onirico”. Di quale altro filosofo del XX secolo sarebbe
pensabile una mostra del genere? L’aura dell’opera d’arte e della
pubblicità ha infine coinvolto Walter Benjamin, oggi vera e propria
figura allegorica. Lo dimostrano bene le testimonianze di quanti lo
hanno conosciuto, snocciolate nel percorso della mostra: Benjamin come
mago, con cappello a punta e bacchetta magica (Theodor Adorno), con la
fronte spaziosa (Scholem), la capigliatura folta (Adorno) e brizzolata
prima dell’età (Jean Selz); Benjamin con i suoi occhiali rotondi come
piccoli proiettori (Asja Lacis) e il suo inconfondibile modo di
camminare, sbilanciato verso l’avanti (Scholem); Benjamin con il suo
modo di parlare, di usare la voce come fosse scrittura, di avanzare
lentamente nel discorso, “come scrutando le parole” (Adrienne Monnier);
Benjamin intellettuale distinto ma imbranato e maldestro, con i
pacchetti che gli cadono dalle mani (Asja Lacis).
Ma
ancor più che nelle foto, l’aura benjaminiana irradia nei suoi
documenti manoscritti, nelle didascalie riportate sul retro delle
fotografie della sua collezione, nei carnets, ognuno diverso dall’altro
per copertina, formato, carta e foliazione. Sono impregnati di una
scrittura microscopica e appuntita di difficile decifrazione, come una
lingua sconosciuta o un messaggio prodigioso indirizzato a un lettore
ignoto e da non disvelare alla prima occhiata. In una pagina presa a
caso, non la più fitta, conto 55 righe sottili come un filo. La
scrittura di Benjamin crea sulla pagina un muro di parole che non lascia
al bianco alcuno spazio di manovra. Il bianco non deve insinuarsi ai
margini della pagina, nella maglia tra un paragrafo e l’altro, tra una
parola e l’altra, tra una lettera e l’altra. Non bisogna lasciare al
vuoto, all’insensato, la possibilità di aprire una crepa nel mondo
costruito dall’uomo. E i margini non sono necessari perché il testo è
già una glossa sul mondo, un tentativo di parafrasarlo, di renderlo
leggibile.
Tuttavia,
come si procede verso la fine degli anni trenta, questi minuscoli segni
grafici stipati sulla pagina assumono un altro senso: Benjamin scrive
nel timore che ogni pagina possa essere l’ultima o che i suoi carnets
siano composti da una sola pagina, come i giornali pubblicati in tempo
di guerra. L’aria allarmata del tempo è restituita in Walter Benjamin
Archives dalla selezione delle lettere degli ultimi anni, quelli
dell’esilio francese e del tentativo di mettersi in salvo fuggendo in
Spagna, Portogallo, Stati Uniti. È esposto anche l’affidavit di
Horkheimer, necessario per ottenere il visto d’ingresso per gli Stati
Uniti, per una New York in cui non metterà mai piede. Le lettere di
Benjamin sono spesso redatte in francese anche quando i destinatari sono
tedeschi come lui – il francese diventa così la lingua franca in cui
comunicare per uno scrittore che, nel maggio 1939, si vede tolta la
cittadinanza tedesca.
Mi
viene in mente il destino di un altro intellettuale tedesco le cui
vicende esistenziali sono state segnate da un’esperienza bellica che ha
visto il mondo andare in rovina e che, per questa ragione, ha concepito
la sua opera come un immenso archivio: Kurt Schwitters e il suo Merzbau.
Guardiamo l’ultima foto che conosciamo di lui, presa in Inghilterra il
20 giugno 1947, in occasione del suo sessantesimo compleanno. Dalla
tasca della giacca fuoriesce l’estremità stropicciata di una lettera. È
datata 16 giugno e proviene dal Museum of Modern Art di New York. Il
museo comunica a Schwitters il conferimento di una borsa di $1,000 ($
2,000 verranno aggiunti in un secondo momento) per restaurare il Merzbau
di Hannover o quello di Oslo o, ancora, per ricostruirne uno ex novo.
Schwitters non ne usufruirà mai: morirà sei mesi dopo, e i fondi del
MoMA saranno impiegati per coprire le spese del suo funerale.
Di
ultime lettere di Benjamin, la mostra parigina è piena, da quella a
Gretel Adorno (Lourdes, 19 luglio 1940) a quella ad Adorno del 2 agosto
1940 dove si legge dell’“assoluta incertezza su ciò che porterà il
prossimo giorno, la prossima ora”. In un momento in cui l’esperienza
quotidiana si fa carica di presagi e minacce incombenti, persino le
emissioni radiofoniche sembrano annunciare a Benjamin “la voce del
messaggio di sventura”. La situazione sembra precipitare nel giro di
pochissimi mesi. Risale all’anno precedente, al 1939, una foto scattata a
Pontigny da Gisèle Freund (su cui si tiene in contemporanea un’altra
mostra parigina alla Fondation Pierre Bergé - Yves Saint Laurent).
Benjamin cammina lungo un fiume, con il profilo di una chiesa sullo
sfondo; la postura è raccolta, lo sguardo assorto e obliquo verso il
basso, rivolto al passato, se non fosse che tiene tra le dita una
margherita. Che si tratti del “fiore azzurro nella terra della
tecnologia” di cui parlava Benjamin pensando al “blaue Blume” di
Novalis, immagine romantica di un’età dell’oro in cui l’uomo era
tutt’uno con la natura e che, nelle mani di Benjamin, si fa immagine di
speranza, di redenzione messianica?
L’ultimissima
lettera di Benjamin è scritta il 25 settembre 1940 da Port-Bou e
indirizzata a Henny Gurland e Theodor Adorno – un documento
sorprendente, assolutamente diverso dagli altri. È l’unico manoscritto,
il più conciso in mostra con le sue cinque righe, che riesco a decifrare
senza l’ausilio delle didascalie. È redatto su un foglio poco più
piccolo di un A4, gigante in confronto agli altri documenti di Benjamin.
Diversa anche la calligrafia: piana, rotonda e non più ispida, la
stesura ferma. Non traspare alcuna inquietudine del filosofo a un passo
dalla fine e in bilico tra Francia e Spagna, tra Europa e Stati Uniti,
tra il tedesco e il francese. “La mia vita terminerà in un paesino dei
Pirenei in cui nessuno mi conosce”, leggo, e resto interdetto nel non
riuscire a mettere insieme il pensiero e la sua iscrizione grafica.
Chi
conosce bene le vicende benjaminiane e le ipotesi più o meno fondate
sorte attorno al suo decesso – emorragia cerebrale, suicidio con
assunzione di morfina, persino assassinio per mano di guardie staliniste
o della Gestapo – starà ora scuotendo la testa, consapevole che ho
preso un grosso abbaglio. In realtà l’originale dell’ultima lettera di
Benjamin fu distrutto da Henny Gurland dopo averla mandata a memoria. Fu
lei stessa a ricostruirne il contenuto una volta al sicuro in Spagna,
per comunicarne il contenuto ad Adorno. In fondo è quello che ci insegna
Walter Benjamin Archives: il vincolo indissolubile tra esperienza e
ricordo, che questo passi attraverso delle foto, degli oggetti
collezionati, delle note, dei disegni o, come nel caso dell’ultimo
pensiero di Benjamin, attraverso la penna di un testimone.
(Da: http://ciaomondoyeswecan.myblog.it/)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.