Raramente negli scaffali delle
librerie dedicati alla saggistica capita di trovare qualche volume
davvero essenziale. Sicuramente un libro essenziale è il recentissimo “
Ricatto allo Stato”, scritto da
Sebastiano Ardita
e pubblicato da Sperling & Kupfer. Ardita, magistrato catanese,
è, dal 2002, uno dei più importanti dirigenti del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria (Dap), a capo del delicatissimo
Ufficio detenuti e trattamento.
Oltre a essere poggiato su una prosa nitida e su un’apprezzabile
struttura narrativa (che, circolarmente, muove dall’ingresso in carcere
di
Bernardo Provenzano all’esito
dell’ultraquarantennale latitanza e dal biennio 1992/94 – con
l’introduzione del 41 bis per i mafiosi, le stragi mafiose in Sicilia e
poi nel continente e l’anomala gestione del carcere duro nel passaggio
fra la Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica – per poi proseguire
con l’esperienza personale di Ardita al Dap e, infine, chiudere con un
capitolo il cui titolo è proprio “
La trattativa”), il libro
di Ardita si fa apprezzare particolarmente perché enuclea a ogni
pagina fatti, dati documentali e riferimenti certi, fuori da ogni
dogmatismo. In poche parole, con questo libro il magistrato catanese
espelle dal dibattito pubblico leggende metropolitane, falsità e
mistificazioni che hanno spesso ammorbato l’informazione sulla realtà
carceraria e sulle più che probabili deviazioni istituzionali che nel
secondo semestre del 1993 accompagnarono il rapporto fra Cosa Nostra e
il 41bis.
A proposito di informazione tossica, segnalo le pagine dedicate ai primi
mesi di carcerazione del boss Provenzano, durante i quali quasi
quotidianamente vennero divulgate menzogne a mezzo stampa per tentare di
condizionare la destinazione carceraria del capomafia corleonese
(allo scopo di consentirgli un contatto col boss
Piddu Madonia di Caltanissetta). Il tutto in un clima torbido che induce Ardita, pur con la prudenza che tutti gli riconoscono, a scrivere: “
Qualcuno evidentemente ci stava monitorando o aveva infiltrato degli informatori”.
Magari meno appassionanti rispetto ai grandi misteri della Trattativa e
delle derive provenzaniane dello Stato, i capitoli relativi
all’operato dell’autore al Dap a partire dal 2002 forniscono però una
testimonianza diretta sull’evoluzione normativa e organizzativa dello
strumento del 41bis e anche delle strutture carcerarie ordinarie. In
questo caso è mirabile vedere come quello che era stato per anni un
eccellente pubblico ministero (Ardita per quasi dieci anni aveva
prestato servizio alla Procura di Catania), essendo prima di tutto un
fedele servitore dello Stato, ha saputo cogliere l’essenza del suo
ruolo al Dap, quello di chi deve garantire il rispetto delle regole e,
contemporaneamente (anzi, ancor prima), garantire il rispetto della
dignità a ogni singolo detenuto. Ardita lo spiegò a muso duro a
Provenzano: “
La sua vita adesso è nelle mani della legge, che tutti
noi abbiamo l’obbligo di far rispettare. Noi non conosciamo nessuno
che abbia un potere che sta al di sopra della legge”. Ma al
contempo lo dimostrò nella pratica quotidiana e anche nelle situazioni
straordinarie, come in occasione del suo intervento tempestivo in
favore dei detenuti ospiti al carcere dell’Aquila, terrorizzati dallo
sciame sismico che precedette il disastroso terremoto del 6 aprile
2009.
Il clou del libro, però, nella prospettiva di chi scrive, è la
ricostruzione, corredata da puntuali citazioni documentali, di quel che
avvenne nel 1993, a cavallo delle stragi di Firenze, Milano e Roma e
prima della programmata strage allo Stadio Olimpico: in particolare di
quel che avvenne al Dap nel 1993. Si scoprono circostanze
incredibilmente inedite a distanza di diciotto anni dai fatti:
circostanze che smentiscono molte falsità ammannite dagli organi di
informazione al servizio del potere (del potere deviato,
ça va sans dire) e che sottraggono al silenzio alcuni fatti che si voleva rimanessero ignoti ai cittadini di questo paese.
Punto primo: sotto la sua guida del Dap, Niccolò “
Amato non revocò
neanche un provvedimento di 41 bis. Sta di fatto che … il vertice del
DAP, insieme alla sua squadra, venne avvicendato proprio a ridosso
della decisione sul mantenimento del regime speciale di detenzione”. Commenta Ardita: “
Sarebbe
importante perciò conoscere i tempi e le modalità con cui Amato venne
sollevato dall’incarico, i colloqui che ebbe, le ragioni ufficiali
che vennero addotte e quelle ufficiose che portarono alla sua
rimozione, lasciando campo libero a una nuova gestione. Tutti profili
che non saranno sfuggiti ai magistrati che conducono le indagini”.
Punto secondo: ad Amato successero, ai primi di giugno 1993,
Adalberto Capriotti e il suo vice
Francesco Di Maggio, già pm a Milano e con nessuna esperienza in campo penitenziario. Di Maggio divenne il
dominus del
Dap, seppure la sua nomina a Vicedirettore generale era impossibile,
perché sprovvisto dell’anzianità necessaria. Ma poiché un destino
ineluttabile sembra volesse assegnare a Di Maggio, magistrato
barcellonese di nascita e milanese d’adozione, il controllo del Dap
venne emesso un decreto del Presidente della Repubblica,
Oscar Luigi Scalfaro, con nomina speciale che parificò Di Maggio a un dirigente generale dello Stato. Sì, proprio un decreto
ad personam. Cosicché scopriamo che le norme
ad personam, se vengono emesse a beneficio di Francesco Di Maggio o di
Adriano Sofri,
vengono accolte con plauso bipartisan; quando, invece, sono cucinate
per sottrarre Berlusconi alla giustizia, dal centrosinistra, almeno a
parole, arrivano le contestazioni. Vien da pensare che nella pulsione
illegalitaria i berlusconiani sono più coerenti, mentre altri si
ricordano della Costituzione solo a giorni alterni.
Punto terzo: fu proprio sotto la gestione di Francesco Di Maggio che ai
primi giorni di novembre 1993, infischiandosene delle preoccupate
segnalazioni dei procuratori aggiunti di Palermo Aliquò e Croce, il Dap
fece scadere i famosi 334 41bis, a tutto beneficio di importanti
esponenti di Cosa Nostra. Commenta Ardita: “
Il modo di procedere
pragmatico e spedito della nuova gestione del DAP lasciava intendere che
dietro quella scelta vi fosse una copertura istituzionale forte … ma
probabilmente ispirata da un suggeritore tecnico per una scelta
pragmatica di gestione della crisi”. La scelta pragmatica venne
fatta dal Dap di Di Maggio sul sangue delle vittime delle stragi. Da
quel momento finì lo stragismo mafioso ma si pose anche una pietra
tombale sulla verità delle indecenti interlocuzioni fra Stato e Cosa
Nostra.
Su quest’ultimo argomento, il libro di Ardita andrebbe letto insieme
all’informativa del Gico di Firenze del 3 aprile 1996
su un uomo che pure è stato al centro delle indagini (seppure poi
archiviato) sui mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio,
il pregiudicato barcellonese
Rosario Cattafi, da molti collaboratori di giustizia indicato come
trait d’union
fra Cosa Nostra e servizi segreti. In quell’atto investigativo è
documentata la vicinanza fra Francesco Di Maggio e Rosario Cattafi. Ma
non c’è solo questo. Dal libro di Ardita apprendiamo che in quel
tornante della storia d’Italia andarono via dal Dap numerosi magistrati
(per incompatibilità con la gestione Di Maggio o per altre ragioni) e
ne rimasero in servizio solo tre, il più importante dei quali, a capo
dell’ufficio detenuti, fu il barcellonese
Filippo Bucalo. Il
Gico di Firenze scoprì che nell’estate 1993 Rosario Cattafi ebbe
costanti contatti telefonici con Filippo Bucalo e col fratello del
dirigente del Dap. Cattafi l’8 ottobre 1993 fu arrestato su richiesta
della Procura di Firenze per le vicende dell’autoparco della mafia
milanese. Così oggi sappiamo che quando il Dap di Di Maggio e di Bucalo
fece decadere il 41bis per 334 mafiosi siciliani, all’interno delle
carceri, da detenuto, c’era un amico di Di Maggio e Bucalo, che ben
poteva recepire le reazioni dei capi di Cosa Nostra in quel momento
detenuti.
Prendendo in prestito le parole di Ardita, sono “
tutti profili che non saranno sfuggiti ai magistrati che conducono le indagini”.
Fabio Repici (25 settembre 2011)
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