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lunedì 30 giugno 2014
Attraverso la grande acqua di Beppe Corlito
Un festival del giornalismo a Trieste per il Premio Luchetta
Un festival del giornalismo a Trieste per il Premio Luchetta
Redazione LsDi
Il Premio Luchetta 2014, di cui Lsdi ha parlato qui, organizza un festival del giornalismo con incontri e proiezioni che si terranno a Trieste dal 1° al 3 luglio presso il Palazzo della Giunta Regionale, nella centrale Piazza Unità d’Italia.
Gli incontri di Antepremio, tutti ad ingresso libero, saranno un’occasione non solo per conoscere meglio i vincitori dell’edizione 2014 del premio internazionale, ma anche per parlare di giornalismo e approfondire le tematiche legate al mondo della comunicazione.
Si inizierà martedì 1° luglio con una giornata dedicata al telecineoperatore Miran Hrovatin, assassinato a Mogadiscio nel 1994 con la collega Ilaria Alpi: in anteprima assoluta verrà proiettato il documentario prodotto da Videoest e diretto da Giampaolo Penco, Saluti da Miran.
Un lavoro biografico per ritrovare l’uomo e il giornalista Miran Hrovatin attraverso interviste, ricordi, testimonianze di chi gli è stato vicino, con immagini inedite girate da Miran Hrovatin nei suoi reportage di guerra in Bosnia, Sahara e Somalia.
In omaggio a Miran anche il percorso espositivo I nostri angeli. Le migliori 10 foto nel ricordo di Miran Hrovatin, curato da Prandicom per la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin con gli scatti che, dal 2004 al 2014, hanno vinto al Premio Luchetta nella sezione Miran Hrovatin per la migliore immagine fotografica. Concluderanno la prima giornata l’incontro Il caso Alpi-Hrovatin: finalmente la verità?, condotto dal vicedirettore del Tg3 Giuliano Giubilei, alla quale prenderanno parte il presidente del Premio Ilaria AlpiFrancesco Cavalli con la moglie di Miran, Patrizia Hrovatin, e il regista Giampaolo Penco e, alle 19.00, l’incontro – aperitivo con il corrispondente Rai, e cantautore, Antonio Di Bella e il conduttore di Caterpillar Massimo Cirri: una conversazione – concerto per viaggiare insieme fra musica e cronaca, con sguardo sorridente.
Rai, Ucraina e Cristicchi
Molto interessanti gli appuntamenti per la seconda giornata, mercoledì 2 luglio: sull’informazione del servizio pubblico e sulla Spending Raiview si confronteranno l’ex presidente dell’azienda Roberto Zaccaria e Beppe Giulietti, portavoce di articolo 21, insieme al direttore del Tg1 Fabrizio Ferragni, della Tgr Vincenzo Morgante, al segretario dell’ Usigrai Vincenzo Di Trapani e al presidente dell’Ordine dei Giornalisti Fvg Cristiano Degano.
Il portavoce Unicef Andrea Iacomini e il fotografo Niclas Hammarström, vincitore del Premio Luchetta 2014con un avventuroso e drammatico reportage proprio ad Aleppo, parleranno invece della “professione reporter” dall’inferno siriano mentre Toni Capuozzo intervisterà le vincitrici del Premio Luchetta 2014 Flavia Paone, Lucia Goracci e Lucia Capuzzi.
Spazio al giornalismo calcistico con Samba Mundial, una conversazione con il direttore di Rai Sport Mauro Mazza, il presidente del Palermo calcio Maurizio Zamparini e l’attore Sebastiano Somma, per poi passare a Simone Cristicchi, artista eclettico, interprete e autore di Magazzino 18, Premio Speciale Luchetta 2014, intervistato dalla giornalista Rai Marinella Chirico.
Cultura e Lilli Gruber
Con la cultura si mangia? aprirà l’ultima giornata, giovedì 3 luglio: un confronto tra Gianni Torrenti, Assessore alla cultura della Regione FVG, e i curatori dei festival vicino/lontano, èStoria, Mittelfest,pordenonelegge e del Premio Luchetta. Al fotoreporter Andy Rocchetti è dedicato l’ incontro sulla crisi ucraina con Sergio Canciani, a lungo corrispondente Rai da Mosca, Barbara Gruden, inviata Tg3 nei paesi dell’Est e Pino Scaccia, inviato storico del Tg1.
Gran finale di Antepremio 2014 con Lilli Gruber, vincitrice del Premio FriulAdria Testimoni della Storia 2014, promosso dal Premio Luchetta con i festival pordenonelegge ed èStoria, su impulso di Banca Popolare FriulAdria – Gruppo Cariparma Crédit Agricole. Il riconoscimento le sarà consegnato «per aver raccontato da giornalista e inviata le svolte cruciali del nostro tempo». In serata, infine, l’undicesima edizione de I Nostri Angeli al politeama Rossetti con le premiazioni.
Ecco i vincitori edizione 2014:
Premio Luchetta sezione TV per il miglior servizio giornalistico trasmesso su un emittente europea della durata di 5 min: Flavia Paone – Tg3, Campo Rom Giuliano.
Premio Ota per il miglior servizio di approfondimento trasmesso su un emittente europea della durata di 45min: Lucia Goracci – Rai 3 DOC3, Le bambine non vanno a scuola.
Premio Luchetta sezione quotidiani e periodici: Lucia Capuzzi – Avvenire, Bolivia, la rivolta dei baby operai.
Premio Dario D’Angelo per il miglior articolo pubblicato su un quotidiano o periodico europeo: Harriet Sherwood – The Guardian weekend magazine, Behind the wire.
Premio Hrovatin per la miglior fotografia pubblicata su un periodico o quotidiano internazionale: Niclas Hammarstroem – Aftonbladet, Aleppo.
Un riconoscimento, infine, a Simone Cristicchi che ha saputo entrare nelle pieghe più nascoste di una tragedia rimasta inascoltata per anni.
Fili intrecciati per “Ricucire il mondo”
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Fili intrecciati per “Ricucire il mondo”
Maria Lai protagonista di una grande retrospettiva in tre sedi: il Palazzo di città di Cagliari, il Man di Nuoro e Ulassai
di Nicoletta Castagni
ROMA. Fiabe cucite e libri, lavagne e presepi, Pupi di pane, telai e geografie, le memorabili azioni ambientali, come “Legarsi alla montagna” immortalata negli scatti in bianco e nero di Piero Berengo Gardin, ma anche lo straordinario corpus di disegni dei primi decenni in cui emerge chiara la lezione di Arturo Martini: l'universo di Maria Lai (1919-2013), una delle figure femminili più importanti della storia dell'arte italiana della seconda metà del Novecento, è protagonista dal 10 luglio al 2 novembre di una grande retrospettiva che in tre sedi (il Palazzo di città di Cagliari, il Man di Nuoro e Ulassai) attraverserà la Sardegna, radice di costante, profondissima ispirazione.
Intitolata “Ricucire il mondo”, la rassegna è un progetto espositivo ideato dai Musei Civici di Cagliari e dal Man di Nuoro per celebrare l'artista che alla luce dell'Arte Povera e dell'Informale ha saputo genialmente rileggere le tradizioni, i miti, le leggende della sua terra natale. A raccontare questa meravigliosa produzione, i curatori hanno riunito nelle tre mostre oltre trecento opere provenienti da raccolte pubbliche, private e dalla collezione della famiglia. Mentre lo stilista Antonio Marras, amico e collaboratore di Maria Lai, insieme a Claudia Losi ha ideato “Come piccole api operaie”, un omaggio alla poetica dell’artista che, dipanandosi dal primo presepe con una teoria di fili rossi e bordeaux, collega i musei alle vie circostanti e, idealmente, le diverse sedi espositive.
Il Palazzo di città di Cagliari ospiterà la prima parte del progetto (curato da Anna Maria Montaldo), vale a la produzione dell'artista dagli anni Quaranta alla metà degli anni Ottanta. Il percorso, articolato in aree tematiche, muove dal cospicuo corpus di disegni, realizzati a penna o matita, per arrivare alle tempere dedicate al tema del lavoro femminile, alla produzione ispirata alla tessitura (lavagne, libri cuciti, geografie), fino ai Paesaggi, le Terrecotte, i Pani, i Presepi e i Telai degli anni Settanta, centrali nella produzione dell'artista. Importante anche la parte documentaria, interviste e filmati d'archivio che permetteranno di ricostruire le tappe più significative del percorso creativo dell'artista. In particolare, il video della performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata a Ulassai nel 1981, lavoro chiave nello sviluppo dei linguaggi dell'artista, identificato come possibile elemento unificante le tre sedi del progetto.
Il Museo Man (dall'11 luglio al 12 ottobre), con la curatela di Barbara Casavecchia e Lorenzo Giusti, si incentrerà sulla produzione di Maria Lai successiva ai primi Ottanta, un momento di particolare intensità, vissuto in sintonia con gli sviluppi delle ricerche artistiche internazionali del tempo. Attraverso opere, materiali documentari, foto e video, saranno documentati i principali interventi ambientali (da “La disfatta dei varani” a “Essere è Tessere”). Una serie di lavori, tra cui Lenzuoli, Libri cuciti e d'artista, Geografie e Telai, racconterà infine la relazione dell'artista con il mondo dell'infanzia e della didattica.
A Ulassai infine dal 12 luglio si potrà ammirare sia la mostra allestita nella Stazione per l'arte, il Museo d'Arte Contemporanea dedicato all'artista sia gli interventi ambientali nel paese, diventato dagli anni Ottanta un vero e proprio museo a cielo aperto con opere quali “La strada delle capre cucite”, “Il gioco del volo dell'oca”, il “Telaio soffitto del lavatoio”.
COLLEGA di plz
Collega di plz
Ieri ho pranzato con mia moglie in una trattoria, con pretese di ristorante, ad Anguillara, cittadina deliziosa che si affaccia sul lago di Bracciano, quello dove ci si dà la mano e un bacin d' amore...forse... sbaglio località.
Pietanze da trattoria, non segnalata, con pretese di ristorante di gran lusso con tre stelle Michelin.
Conto da ristorante di gran lusso.
Al momento di pagare chiedo se posso avere uno sconto.
- Per quale motivo, scusi? domanda il titolare.
- Sono un suo collega.
- Ah! Certo, allora le faccio il 10 per cento di sconto.
Mentre sto per uscire, il ristoratore mi raggiunge e chiede
- E scusi, dove è il suo ristorante? Dall' accento lei non è di queste parti...
- Ristorante? Ma io non ho nessun ristorante.
- E perché mi ha detto che era un mio collega?
- Oh! Volevo solo dire che sono un ladro anch' io!
- A li mortacci....
Ieri ho pranzato con mia moglie in una trattoria, con pretese di ristorante, ad Anguillara, cittadina deliziosa che si affaccia sul lago di Bracciano, quello dove ci si dà la mano e un bacin d' amore...forse... sbaglio località.
Pietanze da trattoria, non segnalata, con pretese di ristorante di gran lusso con tre stelle Michelin.
Conto da ristorante di gran lusso.
Al momento di pagare chiedo se posso avere uno sconto.
- Per quale motivo, scusi? domanda il titolare.
- Sono un suo collega.
- Ah! Certo, allora le faccio il 10 per cento di sconto.
Mentre sto per uscire, il ristoratore mi raggiunge e chiede
- E scusi, dove è il suo ristorante? Dall' accento lei non è di queste parti...
- Ristorante? Ma io non ho nessun ristorante.
- E perché mi ha detto che era un mio collega?
- Oh! Volevo solo dire che sono un ladro anch' io!
- A li mortacci....
Devil · Il cane del diavolo di Graziano Mantiloni
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domenica 29 giugno 2014
ALIAS DOMENICA Genova 2001: «Ciò che ci insegna Bolzaneto», un capitolo di storia della tortura
da il manifesto
ALIAS DOMENICA
ALIAS DOMENICA
Genova 2001: «Ciò che ci insegna Bolzaneto», un capitolo di storia della tortura
— Adriano Prosperi
G8 2001. «Ciò che ci insegna Bolzaneto»: un capitolo di storia della tortura tratto dai faldoni processuali arrivati davanti alla Corte d’appello
Una scena del film Diaz di Daniele Vicari
Scuola Diaz, caserma di Bolzaneto: nomi che spiccano nelle
pagine più nere della recente storia italiana. Basta una sigla, G8,
a ricordarci come fu celebrato in Italia il primo anno del nuovo millennio:
l’evento, il grandioso teatro del potere preparato a Genova per accogliere
gli «Otto grandi» e celebrare così le magnifiche sorti di un’Italia
entrata nel club, fu un giorno di battaglia: ci fu un morto, il giovane
Carlo Giuliani ucciso da un carabiniere. La sera, mentre nella città si
alzavano ancora nuvole di lacrimogeni e della festa dei potenti restava
una scena di squallore e di devastazione, si scatenò la vendetta notturna
delle forze cosiddette di sicurezza. Quello che avvenne fu definito «macelleria
messicana».
Non il Messico,
altri luoghi e altre macellerie erano nelle menti degli agenti di polizia
e dei carabinieri. Quando i fermati scesero dai cellulari
all’ingresso della caserma, dalla fila degli agenti di polizia e dei carabinieri
che li aspettavano si levò il grido: «Benvenuti ad Auschwitz». A partire
da quel momento fu nei nomi di Hitler e di Mussolini che si scatenò una
mattanza, una sistematica opera di sadismi, crudeltà, umiliazioni
e torture per centinaia di persone inermi, esposte senza difesa
alcuna alla violenza illimitata di quei corpi di «uomini dello Stato».
Alcuni di
quegli uomini, condannati da sentenza di primo grado nel luglio 2008,
fecero ricorso in appello. Il compito di riesaminare tutta la documentazione
venne affidato a Roberto Settembre: di quella storia aveva dovuto occuparsi
come giudice in una causa precedente nella quale erano stati accusati
e condannati i membri del «Black Bloc», causa scatenante del
disastro della giornata genovese del G8. Quello che poi gli venne affidato
era un compito diverso: un compito simile a quello dello storico, come
osserva in apertura del libro di riflessioni nato da quella esperienza,Gridavano e piangevano La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (Einaudi, pp. 260,
euro 18,00).
In appello
si lavora su ciò che è scritto, non si ascoltano di nuovo testimonianze,
non si vedono comparire accusatori e accusati. Davanti alla Corte ci
sono solo i grossi faldoni con gli atti del processo di primo grado:
molte migliaia di pagine che il giudice relatore deve scorrere per formarsi
un libero convincimento in materia. Quel convincimento prese poi forma
in una sentenza. Ma qui, nel libro che ha scritto, il giudice si è fatto
storico. Ha pensato che questa vicenda dovesse essere conosciuta al pubblico
dei lettori. È a loro che ha voluto sottoporre le convinzioni
e le proposte che ne ha ricavato.
Si deve
essere grati al giudice Roberto Settembre per questo libro: le sue pagine
guidano il lettore lungo un percorso di ricerca mettendo a fuoco via
via situazioni, persone e comportamenti, affrontando e risolvendo
dubbi, cercando la verità dei fatti ma anche, alla fine, ponendosi il problema
di come, perché, da quanto lontano si sia potuti arrivare a quegli
esiti. Non si può che essere d’accordo con lui sul punto centrale: questa
è una storia che deve essere conosciuta, deve essere meditata, perché
c’è in essa, al di là delle vicende narrate, degli orrori di violenza
e delle sofferenze umane delle vittime, un segnale importante per
l’intero paese, un segnale che non è stato ancora colto nella sua gravità.
Per
capirne la natura bisogna conoscere quel che avvenne, allora, dentro la
caserma di Bolzaneto. Bisogna leggere le deposizioni, collocare volti
e storie negli spazi di quella caserma, seguire quel che vi sperimentarono
le vittime. L’autore sembra aver fatto proprio la strategia di ricostruzione
interiore che Ignazio di Loyola definì come «composizione di luogo»:
vedere la scena («ver el lugar»), ascoltare le voci, entrare mentalmente
nelle situazioni.
Questo
significa ad esempio immaginare di essere al posto dell’arrestato Alfredo
B. mentre l’agente di polizia Gian Luca M. gli afferra con le due mani le
dita della mano sinistra e le divarica con violenza lacerando la mano
fino all’osso. Significa anche cogliere il valore di piccoli dettagli, come
quello che affiora nella testimonianza dell’arrestato Alfio P.: il quale, mentre
racconta che nell’infermeria della caserma il medico «non si è comportato
come solitamente si comporta un medico», ricorda incidentalmente che lui,
il paziente, forse ancora in manette, era nudo, disumanizzato.
L’insieme
delle storie qui ricostruite alla fine fa emergere nella mente del giudice
e in quella del lettore una convinzione «al di là di ogni ragionevole
dubbio»: qui non si tratta degli eccessi di uomini trasformati in bestie
assetate di sangue, inebriate dal piacere sadico dell’umiliazione
e del dolore delle vittime. Quello che accadde allora a Bolzaneto –
scrive Roberto Settembre – «va al di là di ogni singola storia». Siamo
davanti alla costruzione deliberata di un universo concentrazionario.
Poliziotti e carabinieri hanno in mente il modello dei campi di sterminio
nazisti. Per loro gli arrestati sono tutti ebrei e comunisti. La
sub-cultura dei torturatori si esprime nelle canzoni fasciste, nel costringere
gli arrestati a gridare «Viva Mussolini» e a fare il saluto
romano, nel considerare «troie» tutte le donne perché di sinistra, nel
minacciarle di stupri, nel vessarle e terrorizzarle, nel far gravare
su tutti la paura della morte.
C’è un
mito di fondazione di quell’universo da incubo che si materializza nella
caserma di Bolzaneto, un mito necessario e sempre pronto a rinascere
quando si cerca legittimazione ideologica a un sistema di sopraffazione,
di umiliazione spinta fino all’estremo degrado fisico e mentale delle
vittime. Questo sistema, che si materializzò per ore e per giorni
nello spazio concentrazionario di Bolzaneto, lo avevano predisposto
e lo governarono uomini dello Stato. Gli atti processuali permettono
di seguirne i passaggi: le foto mostrano i volti marchiati da croci
tracciate a pennarello, i corpi contusi, le teste sanguinanti.
Una violenza fredda e illimitata è scritta nel volto incerottato
di Gudrun, nei punti sulla gengiva e sul labbro, nella sua mandibola
fratturata con sette denti buttati giù. Da allora sono passati tanti anni,
quei giovani torturati si sono ricostruiti una vita. Roberto Settembre
racconta con quanta difficoltà abbiano ritrovato esistenze normali
e come a lungo abbiano dovuto lottare col peso di incubi e terrori,
con la perdita di fiducia nell’umanità tutta.
Rimane al
lettore la domanda di quale incubo di odio e di violenza abitasse le
menti di tutti dei torturatori. Di quegli uomini e donne, di
quell’insieme di poliziotti, carabinieri, operatori sanitari abitualmente
definiti «servizi di sicurezza» colpisce la definizione che vollero
dare di se stessi. A Paul, una delle loro vittime, fu chiesto di rispondere
alla domanda: «Chi è il tuo governo»; e la risposta che si fecero
dare in coro fu: «Polizia è il governo».
Si
è tentati di respingere nel passato la minaccia a cui dettero corpo
allora quei poliziotti e quei carabinieri. Ma sarebbe sbagliato. Le
tare antiche dello Stato italiano, fin dalle sue origini sospettoso
e ostile nei confronti dei governati, la sub-cultura fascista che alligna
nei luoghi di formazione dei corpi di sicurezza sono solo la parte affiorante
in superficie. Il deposito del passato non è sufficiente a chi
vuole capire il presente. Qualcuno – come qui si accenna – ha accostato il
G8 genovese all’11 settembre americano: lo ha fatto il documentario The Summit di Massimo Lauria e Franco Fracassa
proponendo la tesi di un complotto, di un coordinamento tra servizi stranieri
e polizia italiana per dare un segnale definitivo ai contestatori
dei summit internazionali.
La poesia di Libra - Mark Strand, Così dici
La poesia di Libra - Mark Strand, Così dici
E' tutto nella mente, dici,
e non ha nulla a che vedere con la felicità.
Il freddo che viene, il caldo,
la mente ha tutto il tempo che vuole.
Mi prendi sottobraccio e mi dici
che qualcosa accadrà,
qualcosa di insolito
per cui siamo sempre stati pronti,
come il sole che arriva dopo un giorno in Asia,
come la luna che si accomiata
dopo una notte con noi.
Mark Strand, Così dici
sabato 28 giugno 2014
Viaggio nell’isola che ama leggere
Viaggio nell’isola che ama leggere
Comincia la stagione dei festival letterari: tutti gli ospiti di Gavoi, l’Argentiera e Perdasdefogu
di Fabio Canessa
Estate e libri, un binomio che non vuol dire solo romanzo sotto l'ombrellone. In Sardegna è anche la stagione dei principali festival letterari, diventati ormai appuntamenti fissi per migliaia di appassionati come dimostra l'aumento costante delle presenze nelle ultime edizioni. Già pronti ad ospitare scrittori e lettori alcune delle più note manifestazioni isolane come quelle di Gavoi, dell'Argentiera e di Perdasdefogu.
Gavoi. Già annunciato nei dettagli il programma dell'XI edizione del festival organizzato dall'associazione l'Isola delle Storie, eccellenza tra le rassegne isolane (e non solo) che si svolgerà dal 4 al 6 luglio. Il classico incontro dal balcone della mattina sarà quest'anno tutto al femminile con le scrittrici Caterina Bonvicini, Dolores Savina Massa, Paola Soriga ed Elvira Serra. Sul palco degli incontri di mezzogiorno saliranno invece Riccardo Chiaberge insieme al celebre fotografo Mario Dondero, il designer Flavio Manzoni con lo stilista Antonio Marras, le due giovani voci Chiara Valerio e Vincenzo Latronico. Protagonisti dei reading pomeridiani saranno l'attore Gioele Dix e gli scrittori Marco Vichi e Matteo B. Bianchi. Sempre nel pomeriggio, per l'appuntamento altre prospettive, da segnalare tra gli ospiti Fabio Stassi e l'autore romeno Cezar Paul-Bedescu. Da non perdere gli incontri serali con altri tre importanti scrittori internazionali: la tedesca Katja Lange-Muller, l'islandese Auður Ava Ólafsdóttir e il francese Romain Puertolas. Gli appuntamenti dedicati all'attualita, in chiusura delle giornate, vedranno invece tra i protagonisti Walter Siti, lo scrittore lituano Sigitas Parulskis e la giornalista e scrittrice austriaca Susanne Scholl.
L'Argentiera. Non è stata ancora presentata ufficialmente la sesta edizione, ma anche il festival dell'Argentiera promette di regalare al pubblico giornate intense, condite con quello spirito di leggerezza che caratterizza la manifestazione già nel nome, "Sulla terra leggeri", ripreso dai versi di Sergio Atzeni. Ad anticipare qualcosa sul programma è Paola Soriga che con il fratello Flavio è in prima fila nell'organizzazione della rassegna: «Saremo dal 25 al 27 luglio all'Argentiera - spiega la scrittrice - ma faremo come sempre delle anticipazioni in posti vicini nei giorni precedenti: a Sassari, Alghero e Olmedo. Inoltre per la prima volta ci sarà un preludio particolare, una serata a Uta. È il nostro paese, non abbiamo mai fatto niente e volevamo portare una cosa anche là». L'appuntamento nel paese del Campidano è fissato per sabato 19 luglio e come ospiti sono già confermati Marino Sinibaldi e Giovanni Floris. «Per quanto riguarda esattamente i tre giorni dell'Argentiera - continua Paola Soriga - possiamo già annunciare la presenza di Walter Siti e Francesco Piccolo. Inoltre siamo molto felici del ritorno anche quest’anno di Pif».
Perdasdefogu. Sta crescendo come festival anche "Sette sere, sette piazze, sette libri" che animerà Perdasdefogu dal 28 luglio al 3 agosto. L’inaugurazione sarà con Gian Antonio Stella. Nei giorni successivi saranno invece protagonisti, Alessandro De Roma, Massimo Dadea, Natalino Piras, Alberto Maria Delogu, Savina Dolores Massa, Elvira Serra. «Il nostro impegno è portare gli autori a casa dei lettori non abituali,perché difficilmente chi non legge va fuori casa a sentir parlare di un libro - sottolinea Giacomo Mameli, direttore artistico del festival organizzato dal Comune e dalla Pro Loco - E farlo con libri di interesse immediato, che coinvolgano, con autori che sappiano comunicare concetti importanti con linguaggio semplice. Questa "mission" era stata apprezzata anni fa in una conferenza a Foghesu da Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan». Durante una sorta di pre-festival troveranno spazio nelle settimane precedenti autori locali come Ennio Cabitza e Manfredi Podda. Mentre seguirà, l’8 agosto, una serata dal titolo “Aspettando San Lorenzo” dove ognuno sarà libero di leggere le poesie che ama e di commentarle.
Una società ad alto tasso conflittuale di Albert G. Keller
da il manifesto
Una società ad alto tasso conflittuale di Albert G. Keller
— Fabrizio Denunzio
Saggi. «Diversità e selezione nel mutamento socioculturale» di Albert G. Keller. Gli scritti del sociologo conservatore statunitense, che analizzò gli Usa a partire dalle lotte operaie degli anni dieci del Novecento
Dal 1914 fino al 1919
la società americana fu sconvolta da un primo ciclo di lotte operaie che
portò, nel 1918, alla nascita del «National War Labor Board» (Nwlb),
un’agenzia federale preposta alla soluzione dei conflitti del lavoro.
A fronte delle rivendicazioni avanzate con le armi dello sciopero
nell’arco di un quinquennio, e proprio mentre gli Stati Uniti erano
impegnati, a partire dal 1917, nella Prima guerra mondiale, la classe
operaia americana, con l’avallo del Nwlb, ottenne per sé: sindacati, contrattazioni
collettive, salario minimo garantito, parità di trattamento economico
per le donne. Finita la guerra, a queste conquiste non seguì più nulla,
se non i roaring twenties, i «ruggenti anni venti», che si conclusero
con il crollo di Wall Street nel 1929 e l’inizio della Grande Depressione.
A una situazione storico-politica del genere come reagì la sociologia americana? Possiamo iniziare a farcene un’idea grazie alla pubblicazione di Diversità e selezione nel mutamento socioculturale. Una sociologia darwiniana (a cura di D. Maddaloni, Ipermedium, pp. 158, euro 14) di Albert G. Keller, professore di Sociologia a Yale dal 1909 al 1942, successore del suo noto maestro William G. Sumner. Il libro che viene presentato per la prima volta al lettore italiano con questo titolo, in realtà è una sorta di antologia che il curatore ha ricavato dal testo kellerianoL’evoluzione delle società, uscito in prima edizione nel 1915 e poi riedito in forma rivista e accresciuta nel 1931.
Ci sono tre motivi per cui diciamo che questo testo ha inscritte in sé le cicatrici del ciclo di lotte portate avanti dalla classe operaia dal 1914 al 1919, fino alla tragica implosione del 1929. In primo luogo, per le date di pubblicazione (1915 e 1931); poi, per il modo in cui l’autore pensa il conflitto sociale; infine, per il semplice fatto che alla concretezza storica della lotta di classe che Keller ha costantemente di fronte a sé, non si fa mai esplicito riferimento, indice questo di una trasposizione della battaglia dal piano concreto della storia a quello astratto della teoria.
Il quadro interpretativo che proponiamo di Diversità e selezione è molto diverso da quello in cui lo colloca il suo curatore, il quale ha a cuore che il testo venga recepito e discusso nelle sue evidenze empiriche più ovvie, cioè: da un punto di vista epistemologico, nel solco di quella tradizione del pensiero sociale che si rifà al paradigma evoluzionistico di matrice darwiniana (da Herbert Spencer a Sumner, fino agli esiti antropologici di un contemporaneo come Marvin Harris) e, da un punto di vista politico, rispetto alla sua dimensione più ambigua e controversa, ossia, la necessità di una «selezione razionale» della specie umana, sarebbe a dire, l’eugenetica (nella parte finale del testo il sociologo americano sembra fare sue le teorie di fondatori e sostenitori: Francis Galton e Wilhelm Schallmayer).
Dal nostro punto di vista, però, è solo in funzione della storia e della teoria del movimento operaio che la sociologia generale fa precipitare i suoi più riposti significati politici. Senza riportarlo al ciclo di lotte operaie americane (1914–1929)Diversità e selezione rimane solamente un prezioso documento di storia del pensiero sociologico, al contrario, una volta messo nella loro prospettiva, si illumina di una potenza inedita.
È solo perché ha visto gli operai lottare e ottenere ciò che volevano in un momento così difficile come quello rappresentato dalla Prima guerra mondiale, e conquistarlo per sé come classe mentre il Capitale combatteva in quanto Nazione, che Keller può forgiarsi un’immagine del conflitto sociale di questa portata: «Tutti questi gruppi lottano per una posizione, nella struttura societaria, che consenta ad essi di perseguire e sostenere le proprie specifiche iniziativa in materia economica e sociale, che possono ottenere riconoscimento e guadagnare influenza o al contrario essere eliminate ancor prima di prendere forma. In tutti questi casi è evidente che la selezione è all’opera, e cioè la lotta tra le classi, nella misura in cui verte sul conseguimento di una posizione di influenza da parte di questo o di quel gruppo, si traduce in una posizione di vantaggio per uno o per l’altro tipo di regole sociali».
Quando si arriva formulare un’immagine del genere poca conta che l’autore storicamente si sia schierato con i repubblicani e abbia avversato il New Deal di Roosevelt (così è andata per Keller, come ci ricorda il curatore), a valere è la concezione di una società che, abbandonate le ipocrisie piccolo borghesi di pacifica convivenza e di felice autorealizzazione personale, si scopre animata ovunque dallo scontro: «Considerata da questo punto di vista, una società complessa è un’arena ribollente di conflitti, industriali, commerciali, politici, religiosi, morali».
Mentre lo scienziato sociale non faticherà a riconoscere in argomentazioni di questo tipo una sociologia del potere weberiana, il dirigente politico, molto più concretamente, vedrà in esse la potenza di agire e lo spazio di manovra tipico di ogni soggetto rivoluzionario. E riprenderà il lavoro dove l’ha lasciato la classe operaia americana.
A una situazione storico-politica del genere come reagì la sociologia americana? Possiamo iniziare a farcene un’idea grazie alla pubblicazione di Diversità e selezione nel mutamento socioculturale. Una sociologia darwiniana (a cura di D. Maddaloni, Ipermedium, pp. 158, euro 14) di Albert G. Keller, professore di Sociologia a Yale dal 1909 al 1942, successore del suo noto maestro William G. Sumner. Il libro che viene presentato per la prima volta al lettore italiano con questo titolo, in realtà è una sorta di antologia che il curatore ha ricavato dal testo kellerianoL’evoluzione delle società, uscito in prima edizione nel 1915 e poi riedito in forma rivista e accresciuta nel 1931.
Ci sono tre motivi per cui diciamo che questo testo ha inscritte in sé le cicatrici del ciclo di lotte portate avanti dalla classe operaia dal 1914 al 1919, fino alla tragica implosione del 1929. In primo luogo, per le date di pubblicazione (1915 e 1931); poi, per il modo in cui l’autore pensa il conflitto sociale; infine, per il semplice fatto che alla concretezza storica della lotta di classe che Keller ha costantemente di fronte a sé, non si fa mai esplicito riferimento, indice questo di una trasposizione della battaglia dal piano concreto della storia a quello astratto della teoria.
Il quadro interpretativo che proponiamo di Diversità e selezione è molto diverso da quello in cui lo colloca il suo curatore, il quale ha a cuore che il testo venga recepito e discusso nelle sue evidenze empiriche più ovvie, cioè: da un punto di vista epistemologico, nel solco di quella tradizione del pensiero sociale che si rifà al paradigma evoluzionistico di matrice darwiniana (da Herbert Spencer a Sumner, fino agli esiti antropologici di un contemporaneo come Marvin Harris) e, da un punto di vista politico, rispetto alla sua dimensione più ambigua e controversa, ossia, la necessità di una «selezione razionale» della specie umana, sarebbe a dire, l’eugenetica (nella parte finale del testo il sociologo americano sembra fare sue le teorie di fondatori e sostenitori: Francis Galton e Wilhelm Schallmayer).
Dal nostro punto di vista, però, è solo in funzione della storia e della teoria del movimento operaio che la sociologia generale fa precipitare i suoi più riposti significati politici. Senza riportarlo al ciclo di lotte operaie americane (1914–1929)Diversità e selezione rimane solamente un prezioso documento di storia del pensiero sociologico, al contrario, una volta messo nella loro prospettiva, si illumina di una potenza inedita.
È solo perché ha visto gli operai lottare e ottenere ciò che volevano in un momento così difficile come quello rappresentato dalla Prima guerra mondiale, e conquistarlo per sé come classe mentre il Capitale combatteva in quanto Nazione, che Keller può forgiarsi un’immagine del conflitto sociale di questa portata: «Tutti questi gruppi lottano per una posizione, nella struttura societaria, che consenta ad essi di perseguire e sostenere le proprie specifiche iniziativa in materia economica e sociale, che possono ottenere riconoscimento e guadagnare influenza o al contrario essere eliminate ancor prima di prendere forma. In tutti questi casi è evidente che la selezione è all’opera, e cioè la lotta tra le classi, nella misura in cui verte sul conseguimento di una posizione di influenza da parte di questo o di quel gruppo, si traduce in una posizione di vantaggio per uno o per l’altro tipo di regole sociali».
Quando si arriva formulare un’immagine del genere poca conta che l’autore storicamente si sia schierato con i repubblicani e abbia avversato il New Deal di Roosevelt (così è andata per Keller, come ci ricorda il curatore), a valere è la concezione di una società che, abbandonate le ipocrisie piccolo borghesi di pacifica convivenza e di felice autorealizzazione personale, si scopre animata ovunque dallo scontro: «Considerata da questo punto di vista, una società complessa è un’arena ribollente di conflitti, industriali, commerciali, politici, religiosi, morali».
Mentre lo scienziato sociale non faticherà a riconoscere in argomentazioni di questo tipo una sociologia del potere weberiana, il dirigente politico, molto più concretamente, vedrà in esse la potenza di agire e lo spazio di manovra tipico di ogni soggetto rivoluzionario. E riprenderà il lavoro dove l’ha lasciato la classe operaia americana.
Carla Lonzi e la potenza delle relazioni. Cronaca di una fertile riscoperta
da il manifesto
Carla Lonzi e la potenza delle relazioni
— Laura Fortini
Carla Lonzi. Un saggio di Maria Luisa Boccia invita a fare i conti con l’eredità della teorica femminista e il possibile uso della sua elaborazione per «inventare» nuove forme della politica. Le pratiche femministe in una realtà dove è frequente l’olocausto della propria vita sull’altare del profitto
Fare della propria vita la propria opera è cosa
complessa e meravigliosa, tanto più quando ciò assume il carattere di
un taglio imprevisto al punto di divenire politica: è quanto accadde negli
anni Settanta con il movimento femminista che mise al centro della sfera
pubblica altre modalità di fare politica, è quanto mise a fuoco
con lucida autonalisi Carla Lonzi, insieme al gruppo di «Rivolta femminile»:
a Carla Lonzi Maria Luisa Boccia dedica un libro che non vuole costituire
un ritorno alle origini del pensiero e delle pratiche femministe,
ma un colloquiare con lei a partire dal presente (Con Carla Lonzi. La mia vita è la
mia opera, Ediesse, pp. 149, euro 12).
Dalla critica d’arte militante, infatti, al nodo sessualità e politica, dall’ancora scandaloso «sputiamo su Hegel» alla donna clitoridea, al «taci anzi parla» del diario di una femminista, le questioni che Carla Lonzi affrontò nella sua scrittura sono tante e tali che ci si volge a lei oggi in cerca di elementi utili per trovare radicalità efficaci per questo presente in cerca di nominazione. Radicalità che sono anche radici di una crisi delle pratiche politiche: si potrebbe osservare che questo libro è rivolto al senso della fine di un’esperienza per ribadirne il continuo inizio. Maria Luisa Boccia volge infatti il proprio sguardo alla fine degli anni Settanta e con loro a Carla Lonzi per ribadire la radice prima della politica , che riguarda donne e uomini: lo aveva già fatto con il libro dedicato a Carla Lonzi nel 1990, L’io in rivolta (pubblicato da Tartaruga e riproposto dalla stessa casa editrice nel 2011 con una nuova prefazione), e il libro allora aveva il sapore tessuto e meditato di un ragionamento che anticipava questioni che sarebbero poi divenute nodali, come quello della critica alle forme dell’agire politico e quello dell’autocoscienza, su cui si torna in modo rinnovato come emerge dagli interventi dedicati a ciò dall’ultimo numero di Alfabeta, che la reinterroga attraverso la narrazione di Daniela Pellegrini. Più forte oggi la necessità di spezzare la complicità femminile con il potere, anche quando essa si palesa in termini di competenza e merito, parole molto usate nell’attuale dibattito pubblico senza che ciò faccia la differenza, anche quando si esprime sotto l’aspetto ingannevole dell’emancipazione.
Dalla critica d’arte militante, infatti, al nodo sessualità e politica, dall’ancora scandaloso «sputiamo su Hegel» alla donna clitoridea, al «taci anzi parla» del diario di una femminista, le questioni che Carla Lonzi affrontò nella sua scrittura sono tante e tali che ci si volge a lei oggi in cerca di elementi utili per trovare radicalità efficaci per questo presente in cerca di nominazione. Radicalità che sono anche radici di una crisi delle pratiche politiche: si potrebbe osservare che questo libro è rivolto al senso della fine di un’esperienza per ribadirne il continuo inizio. Maria Luisa Boccia volge infatti il proprio sguardo alla fine degli anni Settanta e con loro a Carla Lonzi per ribadire la radice prima della politica , che riguarda donne e uomini: lo aveva già fatto con il libro dedicato a Carla Lonzi nel 1990, L’io in rivolta (pubblicato da Tartaruga e riproposto dalla stessa casa editrice nel 2011 con una nuova prefazione), e il libro allora aveva il sapore tessuto e meditato di un ragionamento che anticipava questioni che sarebbero poi divenute nodali, come quello della critica alle forme dell’agire politico e quello dell’autocoscienza, su cui si torna in modo rinnovato come emerge dagli interventi dedicati a ciò dall’ultimo numero di Alfabeta, che la reinterroga attraverso la narrazione di Daniela Pellegrini. Più forte oggi la necessità di spezzare la complicità femminile con il potere, anche quando essa si palesa in termini di competenza e merito, parole molto usate nell’attuale dibattito pubblico senza che ciò faccia la differenza, anche quando si esprime sotto l’aspetto ingannevole dell’emancipazione.
UN DISPERANTE ETERNO
PRESENTE
Centrale la tensione alla libertà e al come
farla propria in un esercizio di pensiero e di esperienza che riesca
ad avere un carattere simbolico efficace per questo presente: cosa niente
affatto facile, se non si ripercorre come fa Maria Luisa Boccia, passo passo
e con mano lieve ma assai ferma e determinata, quanto allora venuto
alla luce con Carla Lonzi. Ovvero la necessità di mutare «vita in radice»,
insieme ad una pratica di scrittura come agire comunicativo, interrogazione
e osservazione di sé e delle altre aperta all’interlocuzione sempre
in divenire, forma essa stessa del pensare.
Il che significa qualcosa di diametralmente opposto all’astratto linguaggio pubblico, assertivo e predeterminato per come si presenta ancora attualmente in una sorta di eterno presente storico disperante, pure quando risulta vincente, tanto più quando apparentemente lo è. All’astrattezza del linguaggio politico si contrappone infatti, almeno superficialmente, una politica del fare che consegna nelle mani di uomini e donne dell’apparato politico istituzionale il fare della politica. Rispetto la soverchiante materialità delle vite di donne e uomini il fare diviene macchina di potere apparentemente neutra e oggettiva: che cosa contrapporre alla crisi, alla recessione, alla mancanza di lavoro? In realtà questi sono termini appartenenti a un ordine discorsivo intriso di quell’olocausto di sé di cui scrive Rosa Luxemburg in una lettera a Leo Jogiches, fatta propria poi efficacemente da Carla Lonzi nel corso della sua riflessione. Di fronte a un mercato capitalistico che in maniera sempre più selvaggia fa olocausto delle nostre vite, che cosa ci dicono Carla Lonzi e Maria Luisa Boccia che aiuti a trovare modi per vivere il presente utili per decostruirlo, cambiarlo, modificarlo in modo radicale?
Se il criterio principe del potere è quello dell’efficacia dei fatti – e l’attuale governo, come per altro quelli precedenti, si ammanta in continuazione di ciò – cosa opporre ad un principio apparentemente oggettivo e universale? La differenza femminile è taglio che smaschera innanzitutto l’universalità presunta e oggettiva proprio a partire dalla finitezza della singolarità di ognuno. Il discorso pubblico che agita l’oggettività dei fatti fa sì che ogni differenza diviene marginalità da soccorrere e quindi da contenere collocandola nel ruolo di vittima, ruolo che conferma l’astrattezza universale ed oggettiva del discorso pubblico invece che rimetterla in discussione. Scomporre l’identità sessuale come fa Carla Lonzi, in altri termini scomporre il genere invece di farne categoria superficialmente utile a ogni evenienza, permette di scardinare e di far venire alla luce l’atto di cura femminile, e anche maschile perché ormai attraversa tutti i generi e le generazioni, che sta supplendo in modo innominato alla mancanza di cura pubblica.
Il che significa qualcosa di diametralmente opposto all’astratto linguaggio pubblico, assertivo e predeterminato per come si presenta ancora attualmente in una sorta di eterno presente storico disperante, pure quando risulta vincente, tanto più quando apparentemente lo è. All’astrattezza del linguaggio politico si contrappone infatti, almeno superficialmente, una politica del fare che consegna nelle mani di uomini e donne dell’apparato politico istituzionale il fare della politica. Rispetto la soverchiante materialità delle vite di donne e uomini il fare diviene macchina di potere apparentemente neutra e oggettiva: che cosa contrapporre alla crisi, alla recessione, alla mancanza di lavoro? In realtà questi sono termini appartenenti a un ordine discorsivo intriso di quell’olocausto di sé di cui scrive Rosa Luxemburg in una lettera a Leo Jogiches, fatta propria poi efficacemente da Carla Lonzi nel corso della sua riflessione. Di fronte a un mercato capitalistico che in maniera sempre più selvaggia fa olocausto delle nostre vite, che cosa ci dicono Carla Lonzi e Maria Luisa Boccia che aiuti a trovare modi per vivere il presente utili per decostruirlo, cambiarlo, modificarlo in modo radicale?
Se il criterio principe del potere è quello dell’efficacia dei fatti – e l’attuale governo, come per altro quelli precedenti, si ammanta in continuazione di ciò – cosa opporre ad un principio apparentemente oggettivo e universale? La differenza femminile è taglio che smaschera innanzitutto l’universalità presunta e oggettiva proprio a partire dalla finitezza della singolarità di ognuno. Il discorso pubblico che agita l’oggettività dei fatti fa sì che ogni differenza diviene marginalità da soccorrere e quindi da contenere collocandola nel ruolo di vittima, ruolo che conferma l’astrattezza universale ed oggettiva del discorso pubblico invece che rimetterla in discussione. Scomporre l’identità sessuale come fa Carla Lonzi, in altri termini scomporre il genere invece di farne categoria superficialmente utile a ogni evenienza, permette di scardinare e di far venire alla luce l’atto di cura femminile, e anche maschile perché ormai attraversa tutti i generi e le generazioni, che sta supplendo in modo innominato alla mancanza di cura pubblica.
L’OBBLIGO ALLA CURA
Se infatti prendersi cura delle vite è atto propriamente
femminile, occorre «ripulire lo spazio» – sono parole di Carla Lonzi –
dall’atto di sacrificio di sé richiesto in modo non poi tanto implicito
a donne e uomini in Italia come in Europa: rispetto a ciò varrà
riprendere e discutere quanto scritto al proposito dal «Gruppo del mercoledì
di Roma su un’altra Europa» della cura, quando osserva che pensare alla «cura»
è una pratica che riapre il conflitto tra capitale e vita
e che occorre svelare la dicotomia patriarcale tra il buon padre che
si prende cura di tutta la famiglia e facendo ciò esercita potere
e le donne il cui lavoro di cura diventa mero dato biologico.
E come articolare ciò in un momento storico in cui la dicotomia
patriarcale si rappresenta come uomini e donne di governo che esercitano
potere sulle vite di tutti in nome del buon padre di famiglia e donne
e uomini che si prendono cura della vita individuale in vario modo,
senza che ciò diventi privatizzazione delle vite materiali? Maria Luisa
Boccia osserva come «pensare e nominare, quindi praticare e vivere, altrimenti la realtà –
è il primo, imprescindibile gesto di libertà. Si tratta insomma di
andare non solo oltre i limiti di una condizione imposta alle donne, ma
anche oltre i limiti di una società, di una cultura, di una storia dominate
da uomini»: questo lo sguardo lucido, il taglio di Carla Lonzi e si può
dire con certezza che a questo sono stati dedicati il pensiero
e le riflessioni del femminismo della differenza, certo non essenzialista
se non nella misura in cui la donna – volutamente singolare nella scrittura
di Maria Luisa Boccia così come in quella di Lonzi – diviene figura simbolica
di un esercizio conflittuale radicale che di fatto si è congedato
da quanto ci ha portato fino a qui, ovvero il patriarcato, le sue leggi
astratte, il suo potere, il suo dover essere, apparentemente oggettivo
e indiscutibile.
Ancora intatto nella sua capacità di significare il presente quanto scritto a proposito del lavoro nel Manifesto di Rivolta femminile nel 1970: «Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata. La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già ore di lavoro domestico alle spalle? Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria. Dare alto valore ai momenti “improduttivi” è un’estensione di vita proposta dalla donna». Sono termini che riescono con proprietà ancora oggi a ribaltare la forbice schiavistica del lavoro/non lavoro e che mettono al centro modi di pensare come stare al mondo e di pensarsi che scardinano i termini con cui si presenta la questione nell’opinione pubblica: cosa significa precarietà economica ed esistenziale per donne e uomini di tutte le età e come farne qualcosa di diverso dal ruolo della vittima o del marginale necessitante di pubblico soccorso, un’emergenza sociale si usa definirla?
Ancora intatto nella sua capacità di significare il presente quanto scritto a proposito del lavoro nel Manifesto di Rivolta femminile nel 1970: «Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata. La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già ore di lavoro domestico alle spalle? Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria. Dare alto valore ai momenti “improduttivi” è un’estensione di vita proposta dalla donna». Sono termini che riescono con proprietà ancora oggi a ribaltare la forbice schiavistica del lavoro/non lavoro e che mettono al centro modi di pensare come stare al mondo e di pensarsi che scardinano i termini con cui si presenta la questione nell’opinione pubblica: cosa significa precarietà economica ed esistenziale per donne e uomini di tutte le età e come farne qualcosa di diverso dal ruolo della vittima o del marginale necessitante di pubblico soccorso, un’emergenza sociale si usa definirla?
L’ORDINE DEL POTERE
Cosa significa, alla luce delle parole del Manifesto di Rivolta femminile, essere in cassaintegrazione, i contratti di
solidarietà, l’abbandono della forma identitaria del lavoro per donne
e uomini? Altre le modalità di fare politica nell’esperienza femminista
individuate e perseguite da allora, indubitabilmente diverse da
quelle dei partiti e della rappresentanza: quelle che approfittano
della differenza per farne atto creativo, per «coniugare principio di piacere
e principio di realtà», osserva Maria Luisa Boccia, notando come in
assenza di autorità il «potere può fare male, molto male, ma non fa ordine»:
questo si è potuto notare in molteplici occasioni in questi anni
e sta a noi fare ordine, per ripartire da un principio discorsivo
desiderante che nell’emergenza della miseria materiale delle vite pare
essersi smarrito. Ma vi è una forza che ha origine dal piacere delle
relazioni che hanno vita nelle occupazioni delle case abbandonate, nelle
proteste in difesa del posto del lavoro condivise, nella messa a tema
di scacchi anche ragionati ma non rimossi, grazie alla quale è possibile
non smarrire il senso d’un fare politica che è tutto nelle nostre mani
e che dalla differenza femminile può trarre solo che guadagno
e sostanza.
Carla Lonzi, cronaca di una fertile riscoperta
— L. F.
Carla Lonzi. Le ristampe delle sue opere e i convegni a lei dedicati
Si registra un
ritorno a Carla Lonzi: anche se per molto tempo gli «Scritti di Rivolta
femminile» hanno continuato a stampare i suoi libri, la riproposizione
delle sue opere per i tipi della et al./ edizioni ha avuto una funzione
certa di volano di volumi quali Sputiamo
su Hegele altri scritti, Taci, anzi parla. Diario di
una femminista, Autoritratto, Vai pure. Dialogo
con Piero Consagra,Scritti
sull’arte (pubblicati tra il 2010 e il 2012), altrimenti
di difficile reperibilità. Numerosi sono stati i convegni
e seminari a lei dedicati nel corso di questi anni, a partire
da quello promosso alla Casa internazionale delle donne di Roma nel marzo
2010, intitolato «Taci, anzi parla. Carla Lonzi e l’arte del femminismo»
(video e audio interamente scaricabili sul sito del Server Donne di
Bologna), insieme a molti altri che stanno ripercorrendone vari
aspetti e che hanno dato origine a volumi come Carla Lonzi: la duplice radicalità.
Dalla critica militante al femminismo di Rivolta, a cura di Lara Conte, Vinzia Fiorino,
Vanessa Martini (Edizioni ETS) e Ti darei un bacio. Carla
Lonzi, il pensiero dell’esperienza, a cura di Marinella Antonelli e Stefania Calzolari
(Scuola di cultura contemporanea di Mantova).
A «Femminismo e libertà» è dedicata una sezione del recente numero di Alfabeta2(aprile-maggio 2014), con interventi di Cristina Morini, Nicoletta Poidimani, Beatrice Busi e Simona De Simone, Daniela Pellegrini, Alessandra Ghimenti, Pamela Marelli, a partire dalla «spinta a cercare una pratica vivente che vada oltre il livello simbolico indicato dal presente» (Morini). Il documento «Che accade se l’Europa si prende cura?» a firma del gruppo delle femministe del mercoledì di Roma (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) è stato pubblicato sul manifesto il 9 maggio 2014 e discusso pubblicamente alla Città dell’Altra Economia il 10 maggio 2014 con Andrea Bagni, Alisa Del Re, Ida Dominijanni, i cui materiali saranno pubblicati sul prossimo numero di Leggendaria.
A «Femminismo e libertà» è dedicata una sezione del recente numero di Alfabeta2(aprile-maggio 2014), con interventi di Cristina Morini, Nicoletta Poidimani, Beatrice Busi e Simona De Simone, Daniela Pellegrini, Alessandra Ghimenti, Pamela Marelli, a partire dalla «spinta a cercare una pratica vivente che vada oltre il livello simbolico indicato dal presente» (Morini). Il documento «Che accade se l’Europa si prende cura?» a firma del gruppo delle femministe del mercoledì di Roma (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) è stato pubblicato sul manifesto il 9 maggio 2014 e discusso pubblicamente alla Città dell’Altra Economia il 10 maggio 2014 con Andrea Bagni, Alisa Del Re, Ida Dominijanni, i cui materiali saranno pubblicati sul prossimo numero di Leggendaria.
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