ALIAS DOMENICA
Genova 2001: «Ciò che ci insegna Bolzaneto», un capitolo di storia della tortura
G8 2001. «Ciò che ci insegna Bolzaneto»: un capitolo di storia della tortura tratto dai faldoni processuali arrivati davanti alla Corte d’appello
Una scena del film Diaz di Daniele Vicari
Scuola Diaz, caserma di Bolzaneto: nomi che spiccano nelle
pagine più nere della recente storia italiana. Basta una sigla, G8,
a ricordarci come fu celebrato in Italia il primo anno del nuovo millennio:
l’evento, il grandioso teatro del potere preparato a Genova per accogliere
gli «Otto grandi» e celebrare così le magnifiche sorti di un’Italia
entrata nel club, fu un giorno di battaglia: ci fu un morto, il giovane
Carlo Giuliani ucciso da un carabiniere. La sera, mentre nella città si
alzavano ancora nuvole di lacrimogeni e della festa dei potenti restava
una scena di squallore e di devastazione, si scatenò la vendetta notturna
delle forze cosiddette di sicurezza. Quello che avvenne fu definito «macelleria
messicana».
Non il Messico,
altri luoghi e altre macellerie erano nelle menti degli agenti di polizia
e dei carabinieri. Quando i fermati scesero dai cellulari
all’ingresso della caserma, dalla fila degli agenti di polizia e dei carabinieri
che li aspettavano si levò il grido: «Benvenuti ad Auschwitz». A partire
da quel momento fu nei nomi di Hitler e di Mussolini che si scatenò una
mattanza, una sistematica opera di sadismi, crudeltà, umiliazioni
e torture per centinaia di persone inermi, esposte senza difesa
alcuna alla violenza illimitata di quei corpi di «uomini dello Stato».
Alcuni di
quegli uomini, condannati da sentenza di primo grado nel luglio 2008,
fecero ricorso in appello. Il compito di riesaminare tutta la documentazione
venne affidato a Roberto Settembre: di quella storia aveva dovuto occuparsi
come giudice in una causa precedente nella quale erano stati accusati
e condannati i membri del «Black Bloc», causa scatenante del
disastro della giornata genovese del G8. Quello che poi gli venne affidato
era un compito diverso: un compito simile a quello dello storico, come
osserva in apertura del libro di riflessioni nato da quella esperienza,Gridavano e piangevano La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (Einaudi, pp. 260,
euro 18,00).
In appello
si lavora su ciò che è scritto, non si ascoltano di nuovo testimonianze,
non si vedono comparire accusatori e accusati. Davanti alla Corte ci
sono solo i grossi faldoni con gli atti del processo di primo grado:
molte migliaia di pagine che il giudice relatore deve scorrere per formarsi
un libero convincimento in materia. Quel convincimento prese poi forma
in una sentenza. Ma qui, nel libro che ha scritto, il giudice si è fatto
storico. Ha pensato che questa vicenda dovesse essere conosciuta al pubblico
dei lettori. È a loro che ha voluto sottoporre le convinzioni
e le proposte che ne ha ricavato.
Si deve
essere grati al giudice Roberto Settembre per questo libro: le sue pagine
guidano il lettore lungo un percorso di ricerca mettendo a fuoco via
via situazioni, persone e comportamenti, affrontando e risolvendo
dubbi, cercando la verità dei fatti ma anche, alla fine, ponendosi il problema
di come, perché, da quanto lontano si sia potuti arrivare a quegli
esiti. Non si può che essere d’accordo con lui sul punto centrale: questa
è una storia che deve essere conosciuta, deve essere meditata, perché
c’è in essa, al di là delle vicende narrate, degli orrori di violenza
e delle sofferenze umane delle vittime, un segnale importante per
l’intero paese, un segnale che non è stato ancora colto nella sua gravità.
Per
capirne la natura bisogna conoscere quel che avvenne, allora, dentro la
caserma di Bolzaneto. Bisogna leggere le deposizioni, collocare volti
e storie negli spazi di quella caserma, seguire quel che vi sperimentarono
le vittime. L’autore sembra aver fatto proprio la strategia di ricostruzione
interiore che Ignazio di Loyola definì come «composizione di luogo»:
vedere la scena («ver el lugar»), ascoltare le voci, entrare mentalmente
nelle situazioni.
Questo
significa ad esempio immaginare di essere al posto dell’arrestato Alfredo
B. mentre l’agente di polizia Gian Luca M. gli afferra con le due mani le
dita della mano sinistra e le divarica con violenza lacerando la mano
fino all’osso. Significa anche cogliere il valore di piccoli dettagli, come
quello che affiora nella testimonianza dell’arrestato Alfio P.: il quale, mentre
racconta che nell’infermeria della caserma il medico «non si è comportato
come solitamente si comporta un medico», ricorda incidentalmente che lui,
il paziente, forse ancora in manette, era nudo, disumanizzato.
L’insieme
delle storie qui ricostruite alla fine fa emergere nella mente del giudice
e in quella del lettore una convinzione «al di là di ogni ragionevole
dubbio»: qui non si tratta degli eccessi di uomini trasformati in bestie
assetate di sangue, inebriate dal piacere sadico dell’umiliazione
e del dolore delle vittime. Quello che accadde allora a Bolzaneto –
scrive Roberto Settembre – «va al di là di ogni singola storia». Siamo
davanti alla costruzione deliberata di un universo concentrazionario.
Poliziotti e carabinieri hanno in mente il modello dei campi di sterminio
nazisti. Per loro gli arrestati sono tutti ebrei e comunisti. La
sub-cultura dei torturatori si esprime nelle canzoni fasciste, nel costringere
gli arrestati a gridare «Viva Mussolini» e a fare il saluto
romano, nel considerare «troie» tutte le donne perché di sinistra, nel
minacciarle di stupri, nel vessarle e terrorizzarle, nel far gravare
su tutti la paura della morte.
C’è un
mito di fondazione di quell’universo da incubo che si materializza nella
caserma di Bolzaneto, un mito necessario e sempre pronto a rinascere
quando si cerca legittimazione ideologica a un sistema di sopraffazione,
di umiliazione spinta fino all’estremo degrado fisico e mentale delle
vittime. Questo sistema, che si materializzò per ore e per giorni
nello spazio concentrazionario di Bolzaneto, lo avevano predisposto
e lo governarono uomini dello Stato. Gli atti processuali permettono
di seguirne i passaggi: le foto mostrano i volti marchiati da croci
tracciate a pennarello, i corpi contusi, le teste sanguinanti.
Una violenza fredda e illimitata è scritta nel volto incerottato
di Gudrun, nei punti sulla gengiva e sul labbro, nella sua mandibola
fratturata con sette denti buttati giù. Da allora sono passati tanti anni,
quei giovani torturati si sono ricostruiti una vita. Roberto Settembre
racconta con quanta difficoltà abbiano ritrovato esistenze normali
e come a lungo abbiano dovuto lottare col peso di incubi e terrori,
con la perdita di fiducia nell’umanità tutta.
Rimane al
lettore la domanda di quale incubo di odio e di violenza abitasse le
menti di tutti dei torturatori. Di quegli uomini e donne, di
quell’insieme di poliziotti, carabinieri, operatori sanitari abitualmente
definiti «servizi di sicurezza» colpisce la definizione che vollero
dare di se stessi. A Paul, una delle loro vittime, fu chiesto di rispondere
alla domanda: «Chi è il tuo governo»; e la risposta che si fecero
dare in coro fu: «Polizia è il governo».
Si
è tentati di respingere nel passato la minaccia a cui dettero corpo
allora quei poliziotti e quei carabinieri. Ma sarebbe sbagliato. Le
tare antiche dello Stato italiano, fin dalle sue origini sospettoso
e ostile nei confronti dei governati, la sub-cultura fascista che alligna
nei luoghi di formazione dei corpi di sicurezza sono solo la parte affiorante
in superficie. Il deposito del passato non è sufficiente a chi
vuole capire il presente. Qualcuno – come qui si accenna – ha accostato il
G8 genovese all’11 settembre americano: lo ha fatto il documentario The Summit di Massimo Lauria e Franco Fracassa
proponendo la tesi di un complotto, di un coordinamento tra servizi stranieri
e polizia italiana per dare un segnale definitivo ai contestatori
dei summit internazionali.
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