VISIONI
John Sinclair: sono comunista, ma non dogmatico
Intervista a John Sinclair. «Sono stati anni grandiosi eravamo un movimento di massa e lo diventammo soprattutto grazie al rock’n’roll. L’obiettivo primario era uscire dal Vietnam, una volta raggiunto tutto si sgonfiò»
‘’Ho sviluppato il mio attivismo scoprendo Max Roach
e Charles Mingus. Quando mi resi conto che tutta la musica che ascoltavo
da piccolo era suonata da neri, cominciai a chiedermi: «Come mai sono
sempre loro a produrre buona musica, mentre tutto il resto è così
blando e scadente?». Sarà anche logora – perennemente affibbiata
a fotomodelle, scarpe da ginnastica, calciatori e macchinette
per il caffè – ma è definizione che gli si attaglia perfettamente:
John Sinclair è un’icona.
Classe
1938, poeta beat, storico e filologo del jazz, autore di libri e di
infinite note di copertina di dischi, attivista antiproibizionista,
promoter, manager ed eminenza grigia degli MC5 — la band di Detroit che
alla fine degli anni Sessanta, assieme agli Stooges di Iggy Pop, innescò l’accecante
autocombustione del punk quasi un decennio prima del punk – Sinclair
è stato un formidabile motore della controcultura hippie e [/ACM_2]radical americana. Autentico hipster e white
negro, come definìNorman Mailer il cultore bianco del jazz
degli anni Quaranta, bestia nera del FBI e di Nixon, caustico agitatore
politico, cresciuto nel culto dei maestri del Be-Bop, fondò le White Panthers,
partito rivoluzionario di studenti bianchi solidale con le pantere
nere e unica formazione politica scaturita da una band rock’n’roll.
Il loro «totale assalto alla cultura» piccolo-borghese, perbenista
e segregazionista americana dell’epoca fu fiammata effimera quanto
epica, culminata nel suo arresto per possesso di marijuana (condanna
a dieci anni per aver offerto una canna a una poliziotta in
borghese).
Il suo
rilascio avvenne dopo quasi due anni e mezzo con l’organizzazione
dell’imponente raduno-concerto «John Sinclair Freedom Rally» alla Crisler Arena
di Ann Arbor, in Michigan, il 10 dicembre 1971, quando una impressionante
schiera di artisti, fra gli altri John Lennon e Yoko Ono, Stevie Wonder,
Allen Ginsberg e Phil Ochs parlarono e suonarono per otto ore
davanti a 15 mila persone. Finito il Vietnam, mandato a casa
Nixon, dal 1975 in poi, mentre il rock diventava il monumento ingordo
e megalomane di sé stesso, l’America sarebbe tornata al proprio business as usual.
«John Lennon?
Mi ha tirato fuori di prigione, dalle fauci della morte, dalla carcassa di
un’auto in un incidente. Se ne esci vivo non ci pensi più all’incidente. Io
ero illeso. È stato un periodo terribile e non penso più alla
galera. Se mi punti una pistola alla tempia e mi dai diecimila dollari,
forse ci ripenso. Certo che mi piace la canzone che ha cantato per me.
È più bella di Imagine!»
Sa di mentire
Sinclair, il cui ultimo album di spoken word, Mohawk, è appena uscito.
Oggi vive ad Amsterdam, è una specie di gran sacerdote dell’erba nella
scena coffe shop della capitale, ha un programma
culto a Radio Free Amsterdam, ma non ha mai smesso di scrivere ed esibirsi
nei suoi spettacoli, dove declama versi che bruciano di eterna passione per
il jazz e i suoi maestri: Monk, Coltrane, Parker, Gillespie, Mingus.
L’album è prodotto da Steve Fly, batterista, Dj e producer
inglese. «Mi piacerebbe poter dire di essermi imbattuto in John a New
Orleans, ma in realtà l’ho conosciuto via radio, ascoltando uno dei suoi programmi,»
dice Steve, che potrebbe tranquillamente esserne il figlio, mentre gira un
sapido joint, il primo di una serie.
È un terso
pomeriggio primaverile a Lewisham, in casa di loro amici, qualche
giorno dopo il concerto nello storico 12 Bar Club di Denmark Street. Il laptop
di Sinclair ulula free jazz stridente e incazzato. «Amo molto Amsterdam,
è un posto ancora molto cool,»
dice John in un morbido rantolo dalla forte cadenza del Midwest. «Ci siamo
incontrati in un coffe
shop di Amsterdam
dove io ero poeta in
residence. Per me il mondo dell’erba e quello dell’arte sono
la stessa cosa. Mi muovo tranquillamente in entrambi.»
Mohawk si compone
di dieci brani costruiti sul suo poema always
know: a book of monk. «Scrivo versi da cinquant’anni, ma per
me è sempre la stessa cosa; ieri, oggi, 30 anni fa.» Un percorso cominciato
appena adolescente, «La prima volta che ascoltai Ray Charles e Wynonie
Harris. Mi diedero il senso di qualcosa di grande e così è rimasto.
Rimasi pietrificato da quella bellezza. Per Steve, che appartiene alla MTV
generation, «È stato un percorso più intellettuale, attraverso
i libri. Ma quando ho ascoltato la prima volta Miles Davis, negli anni
Novanta, mi sembrava musica del futuro.»
Chiedere
a Sinclair cosa pensi oggi del debito della musica pop nei confronti del
jazz e del blues è un vicolo cieco. «Musica popolare è un termine
senza senso per me. Monk non è musica popolare, come non lo sono Sun Ra
e Muddy Waters. Non ha alcuna profondità emotiva o intellettuale,
per questo non la seguo. Mi piaceva il rock and roll negli anni Sessanta,
pensavo fosse l’antesignano di qualcosa di diverso. Ma da metà degli anni Settanta
in poi l’hanno spento, è diventata musica di — e per — ricchi.»
Alla
domanda se ritiene possibile oggi produrre qualcosa di davvero controculturale,
lui che è un vero hipster in un’epoca in cui questa parola descrive individui
ossessionati dal passato da un punto di vista puramente estetico
e formale e le cui foto patinate appaiono su riviste
pseudo-alternative ribatte sarcasticamente. «La controcultura americana
non è affatto morta, fiorisce! Si vende a peso, al dettaglio: un
tatuaggio duecentocinquanta dollari, centocinquanta per dei jeans
strappati o un paio di stivali. È storia vecchia. Già On the Road fece vendere milioni di paia di
Levi’s.» Sta citando, senza alcuna amarezza, William Burroughs.
Steve non
condivide il pessimismo del maestro. «Esistono realtà che rifiutano questa
logica rigorosa, che confondono i piani. Wikileaks, Snowden, esprimono
una reazione. Più cerchi di ingabbiare e di controllare qualcosa,
più questo sfugge, è quasi un principio. Tutto è tenuto insieme dal
linguaggio ed è da lì che bisogna partire per reagire. Per questo il
jazz è importante: sfalsa i piani e introduce una dimensione
alternativa grazie alla distruzione della struttura.»
C’è stato
Occupy Wall Street, per esempio. «E ora dove sono?» chiede retoricamente
Sinclair. «Hanno fatto cose buone ma non è durato. Per fare davvero qualcosa
devi per prima cosa spegnere la televisione, uscire dalla realtà della comunicazione.
Non si può stare nel e contro il mondo allo stesso tempo.» Chiudersi
a riccio, insomma. «Non mi interessa la cultura contemporanea
o la celebrity culture. Non conosco
un attore, non guardo video o ascolto musica pop, per me Madonna
o Lady Gaga o 50 Cents sono figure caricaturali. L’unica mia frivolezza
è il baseball. Sono un fan dei Detroit Tigers.» Già, Detroit. Immensa
città industriale abbandonata, un luogo ormai al di là della più scatenata
immaginazione cyberpunk. «Ero lì appena dieci giorni fa. Quel posto
è un relitto, ha cominciato a decadere già quarant’anni fa,
i neri sono stati buttati fuori, due, tre generazioni di giovani non
hanno mai saputo nemmeno cosa fosse un lavoro.»
Sinclair
ha ricavato la sua visione del mondo dai beatniks.
«On
the road uscì nel settembre
1957, tre settimane dopo compivo sedici anni, lo divorai. Ero cresciuto in
una cittadina di provincia di bianchi: leggendo Kerouac scoprii un mondo
che non credevo esistesse né che potesse esistere, mi dissi «È qui che
voglio vivere.» Poi vennero Ginsberg, Burroughs e tutti gli altri.
«Per tutta la mia vita ho cercato di vivere in quel mondo, dove le persone
parlavano, fumavano erba, ascoltavano jazz. Non avevamo soldi ma non
importava. Al massimo servivano a trovare da fumare, non interessavano
a nessuno. E lì sono rimasto. Non ho ceduto. Anche in galera, mentalmente
ero sempre lì.»
Che la
ribellione si fosse sviluppata proprio negli anni Sessanta in America, il
luogo dove il boom consumista stava raggiungendo livelli stellari, non
è affatto strano. «C’era davvero l’idea di aver trovato qualcosa di
meglio, di diverso. Ero un ragazzino middle
class in una cittadina
di bianchi. Se avessi continuato quel percorso magari sarei diventato il
senatore del Michigan. Odiavo l’università, ma era sempre meglio che lavorare.»
L’impatto del jazz, il suo livello di comunicazione non verbale, serviva
a trascendere gli angusti limiti della logica aristotelica, era un
modello per la critica e la distruzione dell’ordine sociale imposto dal
conformismo e uniformità borghesi. «Viene dall’Africa, un posto dove
le persone comunicavano attraverso le percussioni con la divinità per
ottenere la pioggia. Ancora oggi sento molto più vicino a un mondo del
genere.»
Il colloquio è un otto volante emotivo in cui Sinclair alterna momenti di grande razionalità ad altri di languoroso abbandono.
Il colloquio è un otto volante emotivo in cui Sinclair alterna momenti di grande razionalità ad altri di languoroso abbandono.
«Quegli
anni? Sono stati grandi, vorrei tornassero. Eravamo un movimento di massa,
diventammo enormi, soprattutto grazie al rock and roll. Loro hanno vinto,
certo, ma noi abbiamo cambiato la cultura. L’obiettivo primario era uscire
dal Vietnam: una volta raggiunto, tutto si sgonfiò. Molti di noi avevano
una visione più ampia, eravamo comunisti. Volevamo trasformare Detroit,
abbiamo lottato per sette anni, poi in troppi abbandonarono, tornarono
all’università, a cercarsi un lavoro, a mettere su famiglia
e spostarsi nei sobborghi per evitare i neri. Mentre la destra,
contro la quale lottavamo, non ha mai smesso di lavorarsi la società americana
fino agli anni Ottanta, con l’arrivo di Reagan. Fino a questo poverino
che c’è adesso (Obama, ndr)
circondato, come lo era Carter.»
Oggi, lontano
dalla cacofonia di questo mondo che implode, Sinclair trova rifugio più
che mai nel suo amore di una vita, la musica e la poesia. Adora Amsterdam,
per lui è ancora un luogo libero, nonostante l’avanzata della destra xenofoba
e la commercializzazione imperterrita. La città gli manca. «Ho cercato
di contrastare tutto questo, ma ho perso. Se ti accorgi che non funziona,
sei un idiota a insistere. Alla fine non c’era più un movimento di massa
che giustificasse la lotta. Molti di noi sono passati dall’altra parte
e sono diventati i più grandi figli di puttana del mondo. Non
tutti, ma la maggior parte. La mia generazione era fantastica, ma si
è trasformata in una montagna di merda. Ho imparato la lezione.» Si
dice comunista, «I’m a commie, really,» ma rigorosamente non dogmatico.
«Non ho una teoria, non ho Trotzkij, non ho dei. Ho mille dei. Non esiste un
unico dio, il nostro problema come specie comincia col monoteismo. Ma una
preghiera tutti i giorni la faccio. Perché crolli la borsa. «Kick
out the Jams, motherfuckers!»
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