CULTURA
Le bonifiche innaturali
Scaffale. Il libro «L'Italia dei disastri» ripercorre la storia delle catastrofi avvenute nel nostro paese, a causa della mancata prevenzione e dello sfruttamento dissennato del territorio
All’infuori dei Paesi Bassi,
che hanno dovuto strappare tanta parte del loro territorio al Mare del
Nord, non esiste in Europa un paese più artificiale dell’Italia. Artificiale
nel senso che gli uomini hanno dovuto sovrapporre i loro artefatti al
sostrato naturale originario per potervi vivere. E non mi riferisco
solo a quella «patria artificiale» che Goethe individuava nelle sontuose
rovine romane, testimonianze di una colonizzazione senza precedenti del
suolo italico. Ma anche a qualcosa di più antico e profondo.
Troppo precocemente, infatti, la Penisola si è riempita di popolazioni rispetto alla sua «maturità» geologica. Gran parte delle nostre terre emerse risalgono solo a un miliardo di anni fa, ci ricordano i geologi, una giovinezza che dà la febbre al nostro suolo, con ben 4 vulcani attivi, e una sequela senza fine di terremoti di varia potenza e distruttività. Ma a rendere bisognoso di artefatti il nostro territorio, oltre alla sua giovinezza geologica, contribuisce la sua morfologia. La nostra più grande pianura, la valle del Po, è un immenso catino in cui precipitano centinaia di corsi d’acqua dall’imponente barriera delle Alpi. È il più complesso sistema idrografico d’Europa, a cui le popolazioni hanno dovuto dare ordine con un lavoro oscuro durato millenni. Ancora nel XIX secolo alcuni ingegneri idraulici ricordavano che il Po del loro tempo, con il suo corso unitario e relativamente ordinato, era «opera degli uomini». Una costruzione artificiale, dunque, il risultato di una lotta delle popolazioni che hanno dovuto talora per più generazioni fare i conti con alluvioni disastrose. Come la «rotta di Ficarolo» nel XIII secolo, che sconvolse buona parte della bassa pianura padana per alcuni secoli.
Ma l’Appennino, un vero e proprio caos sotto il profilo della composizione geologica, incombe su tutto lo stivale peninsulare. Come scriveva nel 1919 un gran commis d’etat, Meuccio Ruini, «contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia penisulare è signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». E questa impronta ha pesato in maniera rilevante non solo sulle colline interne, dove si sono concentrate le economie italiche e italiane, ma anche lungo le pianure costiere, impaludate e ridotte a maremme dai materiali appenninici trascinati a valle dai torrenti. L’Italia moderna è il risultato di una immensa, secolare, totalitaria bonifica dei suoi assetti naturali.
Posso portare in proposito – al di là di quello che la ricerca storica ci racconta – una testimonianza singolare. Quando nei primi anni ’80 ho studiato la vicende delle bonifiche italiane – per un testo curato insieme a Manlio Rossia Doria, edito poi da Laterza – ho trovato le mie più originali fonti documentarie nelle relazioni degli ingegneri impegnati sul campo in questo o quel lavoro di bonifica. Sia che si trattasse di lavori nel Bolognese o nella valle del Tevere o nella piana del Volturno, nel XVIII o nel XIX secolo, chi pianificava gli interventi si sentiva in obbligo di far precedere il proprio progetto con una una premessa storica sugli interventi che in quello stesso sito erano stati realizzati uno o due secoli prima da altri bonificatori. Una fonte preziosa di informazione storica e insieme la prova di una trasformazione ininterrotta del territorio attraverso successive generazioni.
Per rendere abitabili le terre, per estendere i suoli destinati alla coltivazione, per tracciare strade e vie di comunicazione le nostre popolazioni hanno dovuto costantemente trasformare l’habitat naturale, perché esso tende naturalmente al disordine idraulico e al caos dei processi erosivi. Dunque, il nostro è un Paese dove, più che altrove, le popolazioni devono fare costantemente manutenzione del suolo, altrimenti gli equilibri precipitano. Una condizione necessaria che si è resa storicamente possibile grazie alla presenza secolare dei contadini sulla terra, in virtù del loro essere manutentori del suolo, oltre che produttori di derrate agricole. Una condizione, com’è noto a tutti, che oggi non si dà più.
Il nostro territorio è rimasto abbandonato, in balia delle forze naturali che tendono al disordine idraulico. Non solo. La storia ci ricorda la fragilità della crosta terrestre su cui viviamo. Negli ultimi 100 anni abbiamo subìto in media un disastro sismico ogni 4–5 anni e dunque abbiamo dovuto investire costantemente risorse nella ricostruzione di abitati e città. Anche i terremoti ci costringono costantemente a ritornare sui nostri passi, a rifare i nostri artefatti su una natura instabile.
Ma forse la catastrofe più grave il nostro paese l’ha subita a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Col passare dei decenni, per arrivare ai nostri anni, è venuta affermandosi una classe dirigente fra le più incolte, irresponsabili e predatorie della nostra storia. Il suolo è diventato occasione di profitti, merce da immettere sul mercato. Una cementificazione illimitata e crescente, magnificata talora con la retorica della Grandi opere, rende il territorio del Bel Paese – che avrebbe bisogno di risorse e manutezione costante, alimentate dalla consapevolezza storica dei suoi drammatici caratteri originali – un luogo di disastri e spese senza fondo a fine di riparazione.
Ci ricorda ora questa condizione, con grandissimo merito, il libro a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, L’italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali. 1861–2013 (Bup), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. I curatori che, nel 2011, avevano dato un importante contributo al centenario dell’Unità con Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni, ora ritornano sul centenario con una ricostruzione che racchiude un po’ tutti gli eventi catastrofici che hanno colpito la Penisola. Nel testo, oltre a loro scritti, ospitano un largo ventaglio di studiosi che si è cimentato con una seria ricerca storico-scientifica sugli eventi più disparati: le alluvioni del Tevere e della Nera (P.Camerieri e T.Mattioli); di Roma nel 1870 (M:Aversa), le alluvioni e le frane dal dopoguerra a oggi (G.Botta); il Vajont ( G. B.Vai); le inondazioni del Po dal 1861(F. Luino), l’indagine sulle frane alla luce degli eventi estremi e le aggressioni antropiche (M. Amanti); le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944 ( G.P.Ricciardi) ; i terremoti distruttivi (E.Guidoboni e G. Valensise). Ma l’elenco è più lungo di questi radi cenni.
I curatori, che hanno alle spalle studi rilevanti sulla storia dei terremoti, non solo italiani, mettono il peso della loro competenza e di quella dei numerosi scienziati che collaborano al volume, nel dibattito corrente sulle alluvioni disastrose degli ultimi anni. E mostrano verità assai poco dubitabili, anche se esse tardano a diventare cultura diffusa, politica lungimirante del ceto politico. Probabilmente, il carattere della piovosità in Italia, sotto il profilo quantitativo, non è mutato sensibilmente. Questo sembrano dire le statistiche storiche. Ma forse è mutata l’intensità e la concentrazione temporale delle precipitazioni. È un punto ancora incerto e su cui è aperta la discussione.
Per il resto, la vicenda recente dei nostri paesi che franano e delle città che finiscono sott’acqua costituisce la conferma a una verità storica: l’Italia, paese fragile, aggredito non solo da pressioni antropiche, ma anche da mire speculative, funestato da frequenti terremoti, ha una strada obbligata davanti a sé. È quella della prevenzione. Prevenzione e cura del territorio, la stessa che per secoli ha permesso all’Italia di ospitare una popolazione crescente, economie diffuse, di fondare la sua civiltà.
Troppo precocemente, infatti, la Penisola si è riempita di popolazioni rispetto alla sua «maturità» geologica. Gran parte delle nostre terre emerse risalgono solo a un miliardo di anni fa, ci ricordano i geologi, una giovinezza che dà la febbre al nostro suolo, con ben 4 vulcani attivi, e una sequela senza fine di terremoti di varia potenza e distruttività. Ma a rendere bisognoso di artefatti il nostro territorio, oltre alla sua giovinezza geologica, contribuisce la sua morfologia. La nostra più grande pianura, la valle del Po, è un immenso catino in cui precipitano centinaia di corsi d’acqua dall’imponente barriera delle Alpi. È il più complesso sistema idrografico d’Europa, a cui le popolazioni hanno dovuto dare ordine con un lavoro oscuro durato millenni. Ancora nel XIX secolo alcuni ingegneri idraulici ricordavano che il Po del loro tempo, con il suo corso unitario e relativamente ordinato, era «opera degli uomini». Una costruzione artificiale, dunque, il risultato di una lotta delle popolazioni che hanno dovuto talora per più generazioni fare i conti con alluvioni disastrose. Come la «rotta di Ficarolo» nel XIII secolo, che sconvolse buona parte della bassa pianura padana per alcuni secoli.
Ma l’Appennino, un vero e proprio caos sotto il profilo della composizione geologica, incombe su tutto lo stivale peninsulare. Come scriveva nel 1919 un gran commis d’etat, Meuccio Ruini, «contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia penisulare è signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». E questa impronta ha pesato in maniera rilevante non solo sulle colline interne, dove si sono concentrate le economie italiche e italiane, ma anche lungo le pianure costiere, impaludate e ridotte a maremme dai materiali appenninici trascinati a valle dai torrenti. L’Italia moderna è il risultato di una immensa, secolare, totalitaria bonifica dei suoi assetti naturali.
Posso portare in proposito – al di là di quello che la ricerca storica ci racconta – una testimonianza singolare. Quando nei primi anni ’80 ho studiato la vicende delle bonifiche italiane – per un testo curato insieme a Manlio Rossia Doria, edito poi da Laterza – ho trovato le mie più originali fonti documentarie nelle relazioni degli ingegneri impegnati sul campo in questo o quel lavoro di bonifica. Sia che si trattasse di lavori nel Bolognese o nella valle del Tevere o nella piana del Volturno, nel XVIII o nel XIX secolo, chi pianificava gli interventi si sentiva in obbligo di far precedere il proprio progetto con una una premessa storica sugli interventi che in quello stesso sito erano stati realizzati uno o due secoli prima da altri bonificatori. Una fonte preziosa di informazione storica e insieme la prova di una trasformazione ininterrotta del territorio attraverso successive generazioni.
Per rendere abitabili le terre, per estendere i suoli destinati alla coltivazione, per tracciare strade e vie di comunicazione le nostre popolazioni hanno dovuto costantemente trasformare l’habitat naturale, perché esso tende naturalmente al disordine idraulico e al caos dei processi erosivi. Dunque, il nostro è un Paese dove, più che altrove, le popolazioni devono fare costantemente manutenzione del suolo, altrimenti gli equilibri precipitano. Una condizione necessaria che si è resa storicamente possibile grazie alla presenza secolare dei contadini sulla terra, in virtù del loro essere manutentori del suolo, oltre che produttori di derrate agricole. Una condizione, com’è noto a tutti, che oggi non si dà più.
Il nostro territorio è rimasto abbandonato, in balia delle forze naturali che tendono al disordine idraulico. Non solo. La storia ci ricorda la fragilità della crosta terrestre su cui viviamo. Negli ultimi 100 anni abbiamo subìto in media un disastro sismico ogni 4–5 anni e dunque abbiamo dovuto investire costantemente risorse nella ricostruzione di abitati e città. Anche i terremoti ci costringono costantemente a ritornare sui nostri passi, a rifare i nostri artefatti su una natura instabile.
Ma forse la catastrofe più grave il nostro paese l’ha subita a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Col passare dei decenni, per arrivare ai nostri anni, è venuta affermandosi una classe dirigente fra le più incolte, irresponsabili e predatorie della nostra storia. Il suolo è diventato occasione di profitti, merce da immettere sul mercato. Una cementificazione illimitata e crescente, magnificata talora con la retorica della Grandi opere, rende il territorio del Bel Paese – che avrebbe bisogno di risorse e manutezione costante, alimentate dalla consapevolezza storica dei suoi drammatici caratteri originali – un luogo di disastri e spese senza fondo a fine di riparazione.
Ci ricorda ora questa condizione, con grandissimo merito, il libro a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, L’italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali. 1861–2013 (Bup), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. I curatori che, nel 2011, avevano dato un importante contributo al centenario dell’Unità con Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni, ora ritornano sul centenario con una ricostruzione che racchiude un po’ tutti gli eventi catastrofici che hanno colpito la Penisola. Nel testo, oltre a loro scritti, ospitano un largo ventaglio di studiosi che si è cimentato con una seria ricerca storico-scientifica sugli eventi più disparati: le alluvioni del Tevere e della Nera (P.Camerieri e T.Mattioli); di Roma nel 1870 (M:Aversa), le alluvioni e le frane dal dopoguerra a oggi (G.Botta); il Vajont ( G. B.Vai); le inondazioni del Po dal 1861(F. Luino), l’indagine sulle frane alla luce degli eventi estremi e le aggressioni antropiche (M. Amanti); le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944 ( G.P.Ricciardi) ; i terremoti distruttivi (E.Guidoboni e G. Valensise). Ma l’elenco è più lungo di questi radi cenni.
I curatori, che hanno alle spalle studi rilevanti sulla storia dei terremoti, non solo italiani, mettono il peso della loro competenza e di quella dei numerosi scienziati che collaborano al volume, nel dibattito corrente sulle alluvioni disastrose degli ultimi anni. E mostrano verità assai poco dubitabili, anche se esse tardano a diventare cultura diffusa, politica lungimirante del ceto politico. Probabilmente, il carattere della piovosità in Italia, sotto il profilo quantitativo, non è mutato sensibilmente. Questo sembrano dire le statistiche storiche. Ma forse è mutata l’intensità e la concentrazione temporale delle precipitazioni. È un punto ancora incerto e su cui è aperta la discussione.
Per il resto, la vicenda recente dei nostri paesi che franano e delle città che finiscono sott’acqua costituisce la conferma a una verità storica: l’Italia, paese fragile, aggredito non solo da pressioni antropiche, ma anche da mire speculative, funestato da frequenti terremoti, ha una strada obbligata davanti a sé. È quella della prevenzione. Prevenzione e cura del territorio, la stessa che per secoli ha permesso all’Italia di ospitare una popolazione crescente, economie diffuse, di fondare la sua civiltà.
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