La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

giovedì 26 marzo 2015

Oggi scrivo in un'altra lingua

da l' Espresso Sei in: 
FENOMENI

Oggi scrivo in un'altra lingua

Italiano per Jhumpa Lahiri. Francese per Gilda Piersanti. E il nuovo Moccia è angolano. Ecco perché per gli autori sempre più spesso l'idioma è una scelta e non un destino

DI ANGIOLA CODACCI-PISANELLI
Oggi scrivo in un'altra lingua
Jhumpa Lahiri
A dar voce a chi scrive in italiano è Jhumpa Lahiri . Gli autori anglofoni invece sono rappresentati da Francesca Marciano . È uno degli incontri di chiusura del festival Libri Come, in programma domenica 15 marzo al Parco della Musica di Roma. Il tema è “Come ho scelto una nuova lingua”.

Sul palco si confrontano una scrittrice americana di origine bengalese che, dopo essere arrivata fino al Pulitzer per i suoi primi romanzi, ha deciso di abbandonare l’inglese in favore dell’italiano (un’avventura raccontata nel volume “In altre parole”, Guanda), e una regista e sceneggiatrice romana che, dopo molti anni vissuti in giro per il mondo, ha scelto di scrivere in inglese i suoi romanzi e racconti: il libro più recente si intitola proprio “ The other language ”.

L’incontro di Libri Come accende i riflettori su un fenomeno sempre più frequente nell’editoria. Dove ormai abbondano i romanzieri che hanno scelto di non usare la lingua madre per la loro carriera. Per chi è cresciuto credendo nella frase di Italo Calvino («Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno»), l’idea che la lingua per uno scrittore sia una scelta e non un destino è uno choc. Parlare molte lingue è importante, saperle usare anche per iscritto è necessario, ma davvero è possibile esprimere se stessi, avere uno stile usando parole che non si padroneggiano da sempre?

Eppure quello che ieri era un’eccezione (dall’inglese travolgente del polacco Joseph Conrad allo stile legnoso di Italo Svevo che, ci hanno insegnato a scuola, in tedesco avrebbe scritto più fluidamente, ma ha deciso di essere italiano nello pseudonimo e nella lingua), oggi è una scelta piuttosto comune.

C’è chi cambia lingua per staccarsi da radici ingombranti: Linn Ullmann , figlia di Liv, l’indimenticabile attrice norvegese, e del regista svedese Ingmar Bergman, scrive in inglese. Chi lo fa per motivi politici: Kader Abdolah , scrittore di lingua olandese che andando in esilio si è lasciato l’Iran alle spalle non solo rinunciando a scrivere in farsi ma costruendosi uno pseudonimo con i cognomi di due martiri della resistenza agli ayatollah. Chi lo fa per scelta culturale: Jonathan Littell , americano laureato a Yale, pensava già di vedere tra gli amatissimi libri Gallimard il suo monumentale “Le benevole”, scritto in francese, grazie al quale ha vinto il Goncourt e ha ottenuto la sospirata nazionalità del paese dove ha trascorso l’infanzia.

INGLESE DALLE UOVA D'ORO
Certo, per chi ha la possibilità di pubblicare in inglese, cambiare lingua è una scelta coraggiosa. Perché significa rinunciare a un mercato enorme e per di più refrattario ai libri pubblicati in traduzione. I bosniaci Aleksandar Hemon “Il progetto Lazarus” e “Il libro delle mie vite”, Einaudi) e Prcic Ismet ( “Schegge” , Bompiani), lodatissimi dai critici americani, avrebbero avuto la stessa eco sui media locali se i loro libri fossero stati pubblicati in traduzione?

Impossibile, e per capirlo basta guardare i candidati al Book Prize del “Los Angeles Times”, un premio che nasce con l’intento di prendere in considerazione tutti i libri, non solo quelli scritti in inglese. Nella lista annunciata nei giorni scorsi non c’è nemmeno un romanzo tradotto: ma ci sono due lodatissime autrici straniere, la messicana Valeria Luiselli e la nigeriana Helen Oyeyemi .

Gli Stati Uniti sono però particolarmente accoglienti con gli scrittori che arrivano dall’estero: i giovani stranieri promettenti ricevono borse di studio che nessuna istituzione italiana dedica ai loro omologhi. Si spiega così che cinque anni fa nella lista dei venti migliori giovani autori americani  scelti dal “New Yorker” quasi metà fossero nati e cresciuti in un altro paese: Perù, Lettonia, Cina, Etiopia, Russia. Serbia...

STORIE METICCE
In alcuni casi la lingua è una scelta perché la cultura di origine è poliglotta. È sempre stato il caso degli scrittori ebrei: per fare un solo esempio, i fratelli Singer, Israel Joshua e Isaac Bashevis, polacchi fuggiti a New York sotto il nazismo, non hanno mai abbandonato l’yiddish.

Oggi è la regola soprattutto per gli autori del mondo arabo. Prendiamo l’ultimo romanzo di Rabih Alameddine appena tradotto da Bompiani, “Io, la divina” : inizia con una ragazzina libanese che, spostata dai genitori dalla scuola francese a quella inglese («Mio padre decise che, anziché il francese, doveva essere l’inglese la mia prima lingua»), reagisce con una serie di insulti in dialetto libanese alle provocazioni di un compagno di classe.

Se Alameddine, nato in Giordania da genitori libanesi e cresciuto tra Irak, Libano e Gran Bretagna, ha scelto di scrivere in inglese, è comprensibile che si mantenga fedele all’arabo un personaggio come Mohammed Al Achaari , che in Marocco è stato anche ministro della Cultura (“ L’arco e la farfalla ”, Fazi). Mentre sarebbe una doppia provocazione se Amina Sboui , blogger che ha scandalizzato la Tunisia postando una foto in topless, avesse scritto in arabo e non in francese il suo “Il mio corpo mi appartiene” (Giunti).

Del resto la narrativa francese è molto arricchita dagli autori provenienti dalla “Françafrique”. L’uso della lingua degli ex colonizzatori europei però è un problema scottante, al centro di un acceso dibattito che va dal Congo all’estremo oriente (vediintervista ad Alain Mabanckou ).

E in Italia? Non c’è solo Jhumpa Lahiri, con il suo rifiuto viscerale dell’inglese e soprattutto del circo mediatico mondiale che usare questa lingua comporta. Ma gli scrittori che scelgono l’italiano lo fanno per ragioni pratiche, non ideologiche: il comparatista Armando Gnisci li studia dagli anni Novanta, e sono fotografati nel recente rapporto sui “ Nuovi scenari socio-linguistici in Italia ” (Centro Studi e Ricerche Idos e Synergasìa Onlus).

Arrivano qui per lavoro, come Hu Lanbo , giornalista e imprenditrice, autrice di un romanzo autobiografico (“Petali d’orchidea”, Barbera), e spesso il nostro paese è solo una tappa del loro viaggio in cerca di fortuna. È successo all’albanese Ron Kubati , unico romanziere non “italiano doc” preso in considerazione dal premio Strega (“ Il buio del mare ”, Giunti), oggi italianista all’università di Chicago.

E alla sua conterranea Ornela Vorpsi , che dopo aver scritto libri molto lodati dalla critica e tradotti in sedici lingue (“Fuorimondo”, “Il paese dove non si muore mai”, Einaudi) si è trasferita a Parigi dove ha esordito l’anno scorso in francese per Gallimard (“ Tu convoiteras ”).

Le storie “meticce” di questi scrittori italiani per scelta attirano l’attenzione anche fuori dal nostro paese: non a caso l’unico film tricolore in concorso al festival di Berlino, “ Vergine giurata ”, era tratto dal romanzo di un’albanese “scoperta” da Feltrinelli, Elvira Dones .

Premi e festival nostrani invece li trascurano. Per fare un solo nome, non si trova nei palmarès di Strega o Campiello neanche un’autrice affermata come la ex-tedesca Helga Schneider : da cinquant’anni a Bologna, quattordici libri tra i quali “Il rogo di Berlino” e “Lasciami andare, madre” (usciti da Adelphi , mentre Pendragon ha appena ristampato una nuova versione del suo esordio, il noir “ La bambola decapitata ”).

Ma spesso ci pensano le classifiche a premiarli. È il caso diAmara Lakhous , algerino, che ha firmato diversi bestseller a partire da “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” (edizioni e/o). O di Nicolai Lilin (“Educazione siberiana”, Einaudi), che le nostre cronache si ostinano a definire “scrittore russo” anche se nella lingua natìa non ha mai pubblicato nulla neanche in traduzione.

Per arrivare al recentissimo Antonio Dikele Distefano , il “nuovo Moccia” che dopo aver lanciato sui social il suo “Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?” è stato pubblicato daMondadori : la copertina lo definisce «angolano di 22 anni nato a Busto Arsizio e cresciuto a Ravenna».

PARIGI VAL BENE UN ACCENTO
È una novità, però, che anche gli italiani sempre più spesso cambino lingua. Quelli che scelgono di tentare la fortuna puntando direttamente ai mercati esteri aumentano. ComeSimonetta Greggio , ormai affermata in Francia, o Gilda Piersanti , giallista di Tivoli trapiantata a Parigi e da poco tradotta in italiano (“Estate assassina”, Bompiani) o Daniela Sacerdoti , pronipote di Carlo Levi che ha sposato uno scozzese, scrive in inglese e con un suo romanzo è stata per 18 mesi tra i primi cento libri più venduti da Amazon (Newton Compton ha appena tradotto “ Se stiamo insieme ci sarà un perché ”).

E allora viene in mente un consiglio da dare ai nostri aspiranti scrittori: più che studiare scrittura creativa, forse vale la pena di studiare bene l’inglese, o magari il norvegese, approfittando dei corsi organizzati dalle edizioni Iperborea. Perché laNorvegia agli autori che si esprimono in quella lingua assediata dall’inglese e dallo svedese promette l’acquisto di una copia per ognuna delle mille biblioteche circolanti, e per qualche anno persino uno stipendio.

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