La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

sabato 28 febbraio 2009

"Giotto e il Trecento - Il più Sovrano Maestro stato in dipintura"


"Giotto e il Trecento - Il più Sovrano Maestro stato in dipintura"

"Giotto e il Trecento - Il più Sovrano Maestro stato in dipintura" è il titolo della mostra che sarà inaugurata, il 6 marzo, nel Complesso del Vittoriano in via San Pietro in Carcere a Roma.
Ideatore e curatore della Mostra, il professor Alessandro Tomei, ordinario di Storia dell'arte medioevale della Facoltà di Lettere e Filosofia della Gabriele d'Annunzio.

La mostra - che resterà aperta fino al 29 giugno - ospiterà un'imponente rassegna dedicata all'artista-simbolo dell'arte medioevale.
A oltre 70 anni dall'ultima grande esposizione su "Giotto e la pittura in Italia tra fine Duecento e prima metà del Trecento", allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937, per celebrare il sesto centenario della morte del maestro fiorentino, oltre 150 opere, tutte di altissimo livello e di qualità indiscussa, sono raccolte per la prima volta per ripercorrere nella sua interezza il percorso figurativo giottesco, presentando gli ultimi sviluppi della critica storico-artistica in materia.
Polittici, preziosissime opere su tavola, importanti sculture, rari manoscritti e oreficerie di pregio danno conto di tutte le diverse ramificazioni dell'influsso del maestro fiorentino sull'arte italiana del suo tempo e in tale preziosa selezione spiccano 20 capolavori eseguiti da Giotto, oggi molto difficili da spostare per ragioni di conservazione e in mostra a Roma per la prima volta.
La mostra, che nasce sotto l'alto patronato del presidente della Repubblica, è promossa dal ministero per i Beni e le attività culturali ed è organizzata e realizzata dalla società Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia.
La mostra è curata da Alessandro Tomei, ordinario di Storia dell'arte medievale all'università D'Annunzio di Chieti-Pescara, in collaborazione con Claudia Viggiani. Il progetto è sostenuto da un comitato scientifico, presieduto da Arturo Carlo Ottaviano Quintavalle, ordinario di Storia dell'arte medievale dell'università di Parma.
Saranno esposte opere meravigliose, sculture lignee, codici miniati, oreficerie, ma soprattutto le fragili tavole trecentesche, alcune delle quali sono state restaurate per l'occasione. Le opere allestite affronteranno i temi della formazione di Giotto, del rapporto con l'antico e con il mondo gotico, focalizzando in particolare i legami con la Francia.
Oltre la dimensione europea del Maestro medioevale, verrà considerata quella nazionale nella quale Giotto vanta un ruolo di assoluta supremazia, in quanto, come Dante, è il primo a fondare la struttura linguistica della pittura del Trecento. A ribadire questa teoria le opere in mostra di Cimabue, Simone Martini, Pietro Lorenzetti, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio e gemme dell'Abruzzo medievale come le Storie di Santa Caterina del Maestro del Crocifisso d'argento, e una tavoletta di Presentazione al tempio del Maestro di Fossa.

Orario: dal lunedì al giovedì dalle 9.30 alle 19.30; venerdì e sabato dalle 9.30 alle 23.30; domenica dalle 9.30 alle 20.30.
Ingresso: costo del biglietto della mostra 10 euro (intero) e 7,50 euro (ridotto).
Info: telefono 06 6780664.

venerdì 27 febbraio 2009

Chiudi la Porta a Chiave, pubblicata in Ecopoetico





febbraio 27, 2009 - venerdì


Categoria: Scrittura e poesia


CHIUDI LA PORTA A CHIAVE
di PL



Emily

Mi dette un lungo sguardo

Glielo ricambiai

Capelli rossi

In una coda

Viso senza trucco

Labbra

Spicchi d' arancia sanguigna

Lumini dorati

Gli occhi

Fascino involontario

Rimaniamo uniti

Il suo corpo nel mio

Non uscire bisbiglia

Le sue palpebre si

Abbassano su me

Brivido

Piacere

Languore

Stremato

There is something about Death

Like love itself!

If with some one with whom you have known passion,

And the glow of youthful love,

You also, after years of life

Together, feel the sinking of the fire,

And thus fade away together,

Gradually, faintly, delicately,

As it were in each other's arms,

Passing from the familiar room-

That is a power of unison between souls

Like love itself! *


Edgar Lee Masters

Mi frulla in testa

Scrollarsi i ricordi dalla memoria

Disfarsi dei pensieri

Suono soffocato di

Lama che penetra nel corpo

Senza fretta

Il sangue scorre fuori

La vita comincia a

Spegnersi

Sguardo perso

Gorgoglia

Quan
Do


Vai


Via

Chiu
Di

La

Por
Ta

A

C
H
I
A
V
E

.

.

.



* "William and Emily" da "Antologia di Spoon River", di Edgar Lee Masters, Oscar Mondadori
C'è qualcosa nella Morte/ che e' come l' amore!/ Se con qualcuno che ti ha fatto conoscere la passione,/ e l' ardore dell' amore giovane,/ anche tu, dopo anni di vita/ insieme, senti che la fiamma si va estinguendo,/ e cosi' insieme andate svanendo,/ gradualmente, impercettibilmente, con delicatezza,/ come stando abbracciati,/ attraverso la stanza consueta -/ questo e' il potere dell' unisono tra anime/ che e' come l' amore!


ecopoetico: Interessi

Generale

ecopoetico è un'entità nata per diffondere e sostenere la poesia.

ecopoetico sceglierà ogni settimana una poesia tra le più significative che verrà pubblicata in homepage.
Le altre poesie selezionate saranno leggibili sulle pagine del blog.


Cos'è ecopoetico?

ecopoetico è uno spazio creato da un gruppo di persone dedicato alla diffusione della poesia. Non si tratta di uno spazio personale ma di uno spazio condiviso. Molti di voi, come noi del resto, hanno la passione per la scrittura. Purtroppo pochi leggono quello che propongono gli altri. ecopoetico è un umile tentativo di invertire questa tendenza, puntando sulla particolarità dei testi pubblicati e cercando di evitare gli stereotipi classici dei siti di poesia.

Perché ecopoetico e non ecopoetica?

Perché eco nel nostro caso è inteso come fenomeno fisico, cioè come riflessione delle onde sonore, e non in senso mitologico.

Dove mando le mie poesie?

Le poesie vanno inviate unicamente all'indirizzo mail seguente:
ecopoetico@gmail.com


mercoledì 25 febbraio 2009

Un piatto per un imperatore, di Gaetano Barbella

Dal fratello in web Gaetano Barbella (http://www.webalice.it/gbarbella/) ricevo questo suo ricordo che pubblico volentieri nel mio blog letterario



Quando la storia ci sfiora: un piatto per un imperatore
Di Gaetano Barbella

Ho raccontato della “Tiana di zi’ Maria”, vaghi ricordi di quand’ero ragazzino a Caserta. Ora me
sovviene un altro, ancora di un piatto, ma vero e non fiabesco e anche piuttosto importante per i
suoi risvolti storici.
Ero tredicenne e con la famiglia ci si era trasferiti da tre anni a Trento. Non si stava tanto male
nonostante il cambiamento e non mi fu tanto difficile avere buoni amici trentini, anche se non era
facile per i meridionali il rapporto con quelli del posto. Trento mi piaceva, ma la permanenza in
questa città durò poco, perché dopo due anni si rientrò a Caserta. Mio padre, che era disegnatore del Catasto, ottenne il trasferimento nella città in cui era nato e vissuto.
La ragione della poca simpatia di non pochi Trentini per i meridionali era che non si riconoscevano italiani, cosa che era più diffusa da quelli dell’Alto Adige. Li chiamavano “terroni” i meridionali, cosa risaputa e questo era molto discriminante. Oggi non è più così ma allora purtroppo sì.
Ma ecco la storia del piatto.
Dunque, ricordo bene qual’era la via dove abitavo, si chiamava Via Brigata Acqui posta in
prossimità di Piazza Venezia, non tanto distante dal Castello del Buon Consiglio.
Accanto alla mia abitazione, c’era lo studio di un valente scultore di opere in legno. Ed io che avevo molto disposizione per questo genere d’arte ero spesso in questo laboratorio, il cui titolare mi prese a benvolere insegnadomi la sua arte. Di lui non ricordo più il nome, ma ho impresso nella memoria ancora oggi un lavoro che stava facendo con molta cura, un piatto tutto intarsiato. Mi attraeva il procedimento che seguiva l’artista nel ricavare dal grezzo quel piatto, ma era così per le altre opere che lui eseguiva.
Ma questa scultura era speciale perché fu commissionata per essere destinata come regalo
simbolico, nientemeno che per il matrimonio dell’Imperatore Austriaco e Re d’Ungheria,
ovviamente non regnante, ma in carica a tutti gli effetti.
Si era nel 1951 e l’imperatore appena menzionato è Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen, noto semplicemente come Otto d’Asburgo... e con un bel respiro per riprendere fiato.
Il piatto, a scultura finita, aveva delle belle incisioni allegoriche sul fondo, completate con i nomi
delle tre città del Trentino Alto Adige, scritti in tedesco: Ala, Trient und Bozen. La pregevole
scultura venne poi colmata con la terra di questi tre luoghi e, come già accennato, venne offerto a
Otto D’Asburgo che convolava a nozze con Nancy la Principessa Regina di Sassonia-Meiningen.
Chi erano queste persone a fare questo significativo omaggio ad uno “straniero”, non so dirlo con
precisione, la questione relativa allora non sfiorò il ragazzino in me. Ma ora immagino che
dovevano essere esponenti tirolesi altoatesini che vagheggiavano l’idea di riunificazione col Tirolo
austriaco.
Adesso ne parlo con dovizia di particolari ma allora questo episodio passò quasi inosservato persino in seno alla mia famiglia che sapeva della mia frequentazione assidua del laboratorio di scultura dove fu realizzato il misterioso piatto. Ma ero io a non aver mai detto del fatto ai miei, chissà perché.
Oggi ripensandoci e sapendo nei dettagli i fatti della storia del Trentino e Alto Adige di quel
periodo mi sento perplesso non senza una sentita amarezza se posti in parallelo con un’altra storia, quella della questione dell’Esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati. Poiché non basta il ricordo commerativo del 10 febbraio di ogni anno per ricomporre una storia a due binari dell’Italia di fine guerra.
Non si può negare che, a differenza di altre Provincie d’Italia, il Trentino e Alto Adige oggi godono
di un’autonomia di privilegio, frutto di un vero miracolo dell’allora intraprendente e sagace De
Gasperi, Trentino per eccellenza.
Non bastò il Trattato di Parigi, l’accordo De Gasperi-Gruber, ma ci volle ben altro per tacitare il
terrorismo del BAS e così, fu siglato il cosiddetto “Pacchetto” per privilegiare definitivamente nel
1972 l’autonomia delle provincie in questione. Tanto c’è voluto solo per sbiadire - si badi non
annullare del tutto - il ricordo di un Trentino e Alto Adige province del Reich, della stagione
brigatista di Mara Cogol e degli anni delle bombe in Sudtirolo. E se poi a questi fatti si aggiungono
quelli neri della ex Italia dell’Istria delle foibe, vedo due realtà apparentemente slegate fra loro, ma che è opportuno legare emblematicamente a quel “piatto” della terra di “Ala, Trient und Bozen”.
Terre speciali ci sarebbe da dire, se c’è stato un gran daffare, abbasta turbolento, in favore dei
trentini “accasati” da De Gasperi in una casa non loro, con un Trattato dalla raffinata ambiguità
degli “italiani”. Ma è la rievocazione dei primi quarant’anni di autonomia speciale dell’obmann
della Svp, Magnago. L’aveva iscritta tra i meriti-demeriti di Alcide De Gasperi, rispetto a Karl
Gruber, il ministro degli esteri austriaco, autore con lui del celebre accordo del 5 settembre 1946.
Quindi è una visione di parte e non è di quella veramente italiana, che però allora non fu
vigorosamente rintuzzata. Quale dunque il nesso fra tutto questo guazzabuglio in favore di una certa gallina dalle uova d’oro, non per quelli degli “italiani di serie B”, e l’altra gallina, quella istriana, anch’essa dalle uova d’oro, ma per gli “eredi” di Tito? Il nesso - è una mia idea - sembra avere origine da una sorta di baratto che sembra sia servito ai dispositori dell’accordo di Parigi del 5 settembre 1946 per accontentare la Jugoslavia di Tito nel modo che sappiamo, e ammansire l’Italia assicurandole in cambio il Trentino e l’Alto Adige del Reich. Con la differenza, però, che gli altoatesini di lingua tedesca della vecchia Venezia Tridentina sono stati trattati, direi, con i guanti gialli e non come gli esuli istriani riparati in Italia e trattati invece come bestie dai loro compatrioti.
Da notare che oggi il Trentino-Alto Adige – addirittura - formano con il Land austriaco del Tirolo
una Euroregione (Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino). Chiaramente non fu osteggiata questa
interessante realtà, che valica le identità nazionali sia dell’Italia che quella dell’Austria, pur non
arrecando torto a entrambe, e per giunta dovrei anche gioirne poiché sono nato proprio a Bolzano.
Ma questa nascita, avvenuta nel 1938, trattandosi di un figlio di meridionali da poco trasferiti qui
per lavoro, non era altro che uno dei modi previsti per attuare la politica di assimilazione delle
minoranze di lingua tedesca e ladina ed una progressiva italianizzazione dell’intera regione extirolese, perseguita dal governo fascista. Italianizzazione che, però, doveva tener debito conto che era anche il tempo del «passo dell’oca» messa su dal Nazismo proprio nel 1938, come si sa. Perciò non mi sottraggo dal domandarmi questo: ma quelli del Trentino-Alto Adige e dell’Istria ora slava, non erano entrambi figli della stessa Italia? Ma a me sembra un “Italia”, alla luce di questo atroce dilemma, di un cristianesimo del sacrificio cruento, che ricalca la scelta di Barabba dei giudei al posto di Gesù, destinato quindi alla crocifissione sul Golgota e, traslando la cosa, per molti istriani italiani alle Foibe. Dunque è questo il mistero svelato cui va incontro l’Italia cristiana nei momenti critici della sua storia?
Feci una promessa a me stesso, quella di ricordare sempre due date, una delle quali vi riguarda. Non se ne doveva perdere nemmeno memoria anche in altri, e così trascrissi le parole di questo sacro impegno in un breve memoriale insieme a due foto ricordo, e li esposi nel mio sito Il Geometra pensiero in rete e in un altro sito, il giornale on line TellusFolio. Queste sono le cose che qui sono riportate: «Era il tempo in cui l’Italia si preparava per entrare in guerra, la Grande Guerra. Era il momento felice per l’Italia della scienza con i successi di Guglielmo Marconi, Nobel per la fisica nel 1909. Fu anche bello e ricordevole l’esperienza, che Marconi fece sulle radiocomunicazioni, per Umberto Barbella, fratello di mio nonno Gaetano, quale sottufficiale imbarcato sulla Regia Nave Napoli che servì per questa impresa. La foto accanto con la firma autografa del famoso scienziato ne attesta l’avvenimento. Era il 13 marzo 1914. La guerra divampò feroce di lì a poco e furono tre anni di immani sacrifici. La Grande Guerra finì e ci fu la presa di possesso della Base del Comando Navale dell’armata austro-ungarica dislocata ad Abbazia d’Istria. Il caso volle che fosse il sottufficiale Umberto Barbella, imbarcato sul R.C.T. Acerbi della Real Marina Italiana, a sbarcare ad Abbazia per issare il nostro tricolore sul pennone dell’ex Base Navale degli austro-ungarici. In quei giorni di giubilo, mai si potevano supporre gli estremi sacrifici cui furono soggetti i residenti italiani ivi dislocati nel futuro non tanto lontano che li aspettava dopo la seconda guerra mondiale.
Eppure fu un bel giorno quel 4 novembre 1918 che la foto accanto immortalò.
Non ho ragione, dunque, di esaminare “i fatti italiani dell’Istria della gioia” appena ricordati, con
l’entrata trionfante di Gesù a Gerusamme, il giorno delle Palme? Ed una settimana dopo ci fu la
crocifissione e Barabba, un simbolico terrorista per i romani, fu messo in libertà. Oggi i Barabba,
del caso altoatesino in questione, possono rintracciarsi nei terroristi del BAS messi a tacere con la
seduzione politica di stati compiacenti.
Oppure, scavando nel Mistero, emerge tutto un passato della prima Italia delle memorie di Erodoto ed altri noti storici. Un Italia che fu sottratta alla pastorizia dai siculi di re Italo, chiamati gli “uomini della falce”, chiaramente adoratori del dio Saturno, perché imparassero a coltivare la terra.
E così l’Italia in questione si chiamò Saturnia Tellus. Ma i sensibili alle cose dell’esoterismo non
amano tanto questo dio che viene descritto come il distruttore, il padre che si mangia i suoi figli. E
«Il Tempo – dice il famoso maestro di questioni esoteriche, il napoletano Giuliano Kremmerz
(Antonio Formisano) - è una divinità saturniana; vi si agita dentro lo stesso Saturno. A mezzanotte, la falce dell’inesorabile e famelico Dio si solleva e cade sulle cose compiute che non hanno più ritorno: L’onnipotenza di qualunque Nume non può distruggere né cancellare le cose che sono passate realmente nella vita. L’uomo può dimenticarle, ma nessun Dio distruttore può fare che non siano state. Saturno solo può troncarle, falciarle, farle spegnere, ma non può decretare che non siano esistite. È lui stesso che vi si oppone - ...». Meno male!
Insomma, a quanto pare, l’Italia, di quelli di serie “B”, è come il numero 69 che i napoletani della
cabala chiamano “come lo metti metti”, cioè non cambia capovolgendolo, a causa o a ragione sia
del lato ascoso del cristianesimo, sia del corrispondente lato dell’agreste paganesimo saturniano. Ma chi bada a queste cose definibili “poco serie”?
Di “serio”, lessi due anni fa (12.02.07) sul giornale locale di Brescia, dove abito, di che razza sono i
“parenti” slavi attuali della misera Istria del vile baratto, quelli di Belgrado.
Si raccontava di una giovane donna del Montenegrino, Sonjia Roganovic, che diede alla luce un
bimbo all’ottavo mese di gravidanza. Il parto avvenne però in un ospedale di Belgrado che trattenne il nascituro fin tantoché la donna non avrebbe pagato il salato conto di ben 550mila dinari (6500 euro), non essendo in regola con le assicurazioni locali poiché era in stato di clandestinità.
Naturalmente, povera come si trovava quella madre, mai avrebbe potuto riavere il suo figlioletto.
Chissà com’è andato a finire. Uguale, ma proprio pari pari, alla sorte dei beni che gli italiani
superstiti istriani dovettero abbandonare per salvarsi dalle foibe!
Quando la storia ci sfiora...


SCHEDA DI GAETANO BARBELLA

Data di Nascita: 1938.
Indirizzo: Brescia.
E–mail:
gaetano.barbella@gmail.com
Opere sul web: Nel mio sito personale potete leggere tutti i miei saggi
http://www.webalice.it/gbarbella/
Nello Spaziofatato ho pubblicato alcuni articoli; potrai leggerli nell'Archivio.
Genere letterario: saggistica.
Disponibilità ad un agente letterario? Sì, purché senza pagare.
Pubblicheresti con contributo? No.
Curriculum:
Gaetano Barbella è nato a Bolzano il 23 febbraio 1938 da genitori originari di Caserta. È sposato con quattro figli e risiede sin dal 1969 a Brescia, ove si è occupato fino a pochi anni fa di progettazioni industriali.
Nel luglio 1997, Dario Spada, attraverso il periodico fiorentino Giornale dei Misteri, lo ha intervistato, definendolo" un originale ricercatore dell'insolito". Nell'occasione Gaetano ha presentato una sua teoria secondo la quale, attraverso originali cartografie ricavate dalla topografia terrestre, fra centri urbani e località in genere, si perverrebbe alla comprensione della corrispondente supposta vita e posizione astrale. Pochi mesi dopo, a settembre, è stata la volta del periodico romano I Misteri di trattare lo stesso argomento, mostrando in che modo i supposti riferimenti astrali siano connessi, per esempio, alle scritture bibliche.
Dal 1999 fino ad oggi Gaetano si è occupato particolarmente della piramide di Cheope, pervenendo a sconosciute concezioni geometriche che spiegherebbero la disposizione spaziale interna, per esempio, delle tombe del re e della regina. La cosa sorprendente, che deriverebbe dallo sviluppo della suddetta geometria che ha chiamato «Geometria Cheopiana», è, per esempio, la possibile comprensione dello scettro nelle mani degli dei e re dell'antico Egitto, così come risulta dalle rappresentazioni relative dei numerosi noti reperti archeologici egizi. Procedendo le ricerche in questa direzione Barbella ha formulato concezioni geofisiche, per esempio, emergenti dal noto papiro della «Pesatura del cuore di Ani» conservato presso il British Museum di Londra.
Sempre sulla piramide di Cheope ha sviluppato, nel 1999, una sua teoria sulla possibile concezione cantieristica della sua edificazione, con l'ausilio di mano d'opera nel pieno rispetto della loro dignità di esseri umani. Questo lavoro è stato presentato nel 2003 sulla Rivista genovese di Cultura e Spiritualità Lettere e Scritti. Parallelamente Barbella ha portato avanti studi approfonditi sulla Divina Commedia di Dante Alighieri, intravedendovi una straordinaria trama crittografica connessa con la fisica meccanica. Ma anche i suddetti lavori cartografici della topografia terrestre possono considerarsi crittografie, come pure il resto gli altri sopra citati. Della menzionata Divina Commedia Gaetano è pervenuto anche alla decifrazione dell'astruso verso in numeri dell'opera dantesca suddetta che i commentatori hanno emblematizzato col termine di «DVX».
Barbella non ha trascurato di occuparsi delle profezie del veggente del 1500 Michel Nostradamus, che troverebbero riscontro iconografico in taluni casi attraverso le suddette cartografie terrestri di cui ha eseguito un ricco atlante.




Perche' sono solo

Perche' sono solo

Tutti hanno d' avanzo
sol io sono come chi tutto ha abbandonato.
Oh, il mio cuore di stolto
quanto e' confuso!
L' uomo comune e' cosi' brillante
sol io sono tutto ottenebrato,
l' uomo comune in tutto s' intromette,
sol io di tutto mi disinteresso,
agitato sono come il mare,
sballottato sono come chi non ha punto fermo.
Tutti gli uomini sono affacendati
sol io sono ebete come villico.
Solo io mi differenzio dagli altri
e tengo in gran pregio la madre che nutre.

TAO: Tao Te Ching, XX,78



lunedì 23 febbraio 2009

Quattro o cinque piccole bagatelle

Vi presento un cortronico

quattro o cinque piccole bagattelle


Gli autori

Nato a Cagliari - Italia - Roberto Zanata si e' laureato con lode in Filosofia.

Compositore, musicista e studioso di musica elettroacustica e elettronica, prevalentemente autodidatta.

Attivo dai primi anni Novanta ha realizzato in Italia e all'estero composizioni per musica da camera, allestimenti teatrali, computer music, arte elettronica, acusmatica e opere multimediali.

Dal 2002 e' membro della Societa' Italiana d'Estetica.

Nel 1990 per la Galleria Intergrafica di Cagliari ha realizzato "Assenza Ingiustificata" – istallazione multimediale in collaborazione con R.Musanti. Messa in scena e musiche de "L'ultimo nastro di Krapp", Teatro Palazzo D'Inverno (Cagliari - 1996).

Ha partecipato nel 1996 agli Internationale Ferienkurse fur Neue Musik di Darmstadt dove ha studiato tra gli altri con K.Stockhausen e M.Spalinger.
Nel 1997 e' stato compositore ospite alla Biennale di Musica Contemporanea di Zagabria.

Ha partecipato nel 1999 a Szombathely (Ungheria) ai Seminari di composizione organizzati in occasione dell'Internazionale Bartok Festival dove ha studiato con M.Jarrell e M.Stroppa.

Una sua composizione e' stata selezionata e eseguita durante lo svolgimento del festival: "Cablogramma" per violoncello e elettronica (quest'ultima realizzata con tecniche di sintesi del suono elaborate con il software Csound).

Ha partecipato nel 1999 come compositore al Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Pola (Croazia).

Ha partecipato come compositore e contribuito a promuovere l'organizzazione nel 2000 di un seminario tenuto a Grosignana (Istria) dal maestro Agostino Di Scipio sull'uso del Kyma (sound design environment) per la composizione musicale algoritmica. Nel corso del seminario ha realizzato per Kyma la composizione "Sintesi". Nel 2001 ha collaborato con l'Accademia della musica di Zagabria come compositore presso il laboratorio dimusica elettronica.

Ha partecipato nel 2003 alla Biennale di Musica Contemporanea di Zagabria sia come compositore che conferenziere. Gli e' stata eseguita in prima assoluta la composizione "Cifre per quartetto d'archi" per elettronica e quartetto d'archi. Ha tenuto una conferenza dal titolo "Criticism and sound: Music for programe" in occasione del Simposio Internazionale dedicato al tema "Musical constellations in the digital age" .

Nel 2004-2005 ha seguito diversi seminari presso l'Archivio L.Nono a Venezia.

Nel 2005 ha composto le musiche per lo spettacolo teatrale "Requiem" su testi di A.Tabucchi, regia di A.Iovinelli, rappresentato presso l"Istituto Italiano di Cultura - Zagabria.

Nel 2006 ha composto le musiche per lo spettacolo teatrale "Orazi e Curiazi" per la regia di A.Iovinelli realizzato in collaborazione con la filodrammatica dell'Universita' di Zagabria e l'Istituto Italiano di Cultura rappresentato sia in Croazia che in Ungheria.

Nel 2007 ha partecipato come musicista e compositore al Festival Music in Touch organizzato da Spaziomusica Ricerca (Cripta di S.Domenico - Cagliari, Italia) con la performance audio-video "Jet Lag" realizzata con R.Musanti.

Dal 2007 collabora attivamente con la clavicembalista Sanda Majurec alla realizzazione di alcune composizioni basate sull'improvvisazione da cui "LHE" per clavicembalo e live eletronics.

Dal 2008 collabora attivamente con il pittore e artista elettronico Tonino Casula alla realizzazione di musiche per cotronici (cortometraggi elettronici).


Tonino Casula parla di Tonino Casula


Sono un pittore che, in quanto tale, ne ha fatto di tutti i colori. Ho realizzato chi sa quante centinaia di metri quadri di pitture, pubblicato libri con Einaudi, Mondadori e altri, fatto conferenze, partecipato a dibattiti insegnato... Attualmente, non faccio piu' cose da appendere al muro (quadri), ma cortronici (corti elettronici) astratti, cioè niente che somigli alla cosiddetta "realtà esterna".
LE DIAFANIE Quella di far nascere il mio mondo poetico da un uso accorto delle mani fu una cosa che se ne andò a bimbe con la realizzazione delle mie computer graphics. Il salto non era cosa da poco, anche se non se ne andarono a bimbe i millenni di pittura che avevo alle spalle. Del resto, liberarsene era stupido, oltre che impossibile. Comunque, era urgente abbandonare i supporti cartacei, per la loro insopportabile dipendenza dai chiodi al muro. Con le diafanie, mi sembrò di avere trovato per il mio lavoro l’uscita più naturale, comunque la meno incoerente con le peculiarità linguistiche della macchina. Erano diapositive, infatti, su cui depositavo le immagini che avevo elaborato col calcolatore. Le diafanie non rimandavano e non nascevano come riproduzioni di oggetti ma erano oggetti in sé. Inizialmente, pensai di chiamarle epifadìe, una cosa a metà tra epifania e diapositiva, cioè apparizione per mezzo di diapositive. Solo che, con quella “d” nella desinenza finale, più che l’idea dell’epifania, cioè dell’apparizione, avrebbe richiamato quella del raffreddore. Allora ricollocai le desinenze in altri spazi e così venne fuori diafanie: il raffreddore se ne andò, ma in compenso rimase l’aura della befana.
Nel novembre del 1989, avevo messo a punto la prima intitolata "La prima volta, con un tantino di precauzione" (18'32”) senza sapere cosa sarebbe successo, con la mente piena di aggettivi e avverbi e traslati, e senza neppure conoscere il funzionamento dei proiettori. Smettendo di produrre roba da appendere ai muri per lavorare alle diafanie, capii subito che non mi sarei mai arricchito. Del resto, neppure con i quadri ci ero riuscito. Eppure, erano bellissimi. E zeppi di spunti filosofici e/o scientifici, senza contare le implicazioni poetiche. Nelle diafanie era il valore estetico a emergere. In più (e questo dimostrava che il rapporto con le immagini era principalmente linguistico, cioè caratterizzato dal piacere di vedere come erano fatte, più che da cosa rappresentavano), non c’era il disturbo di una storia da seguire e, anzi, la storia ciascuno poteva inventarsela come voleva, se proprio ci teneva, senza neppure sentirsi costretto nelle maglie di una qualche logica narrativa che non fosse quella che egli stesso si sceglieva di volta in volta, a seconda della carica evocativa che attribuiva alle immagini. percettivi. I segni che utilizzavo non rivestivano mai una funzione referenziale, non rimandavano cioè a cose esistenti. Tuttavia, per il fatto stesso che i segni venivano percepiti, significava che lo spettatore, proiettando sulle immagini le sue proprie assunzioni inconsce, vedeva qualcosa che lo rimandava a qualcos’altro di già visto in precedenza. Insomma, non era difficile, appunto, ricavarne delle storie, come se ad agire sul piano di proiezione fossero comunque immagini di cose. Dipendeva dal fatto che per vederle, anche se non rimandavano intenzionalmente a cose, le nostre assunzioni inconsce, proiettandosi su quelle immagini, le facevano somigliare a immagini di cose che conoscevamo già.
I CORTRONICI BIDIMENSIONALI I miei primi cortronici 2D (corti elettronici 2D) nascono con una versione animata di Paint De Luxe. È un programma per animazioni bidimensionali (2D), con definizione molto bassa (320x200), che procura il vomito agli informatici dello zoccolo duro, per i quali tanto più la qualità è elevata, quanto più la tecnologia è avanzata, e si sa che quanto più la tecnologia è avanzata, tanto più sale il prezzo. Come nel medioevo: siccome l’oro e il blu di lapislazzuli costavano un occhio, gli artisti di mezza tacca ma con adeguata disponibilità finanziarie impreziosivano con la foglia d’oro e col blu di lapislazzuli le loro croste. Il criterio di fondo che regola i miei cortronici 2D (se si preferisce, la mia poetica) è analogo a quello delle diafanie: arrivare alle forme, o uscirne, con l’aggiunta o la sottrazione di parti che compongono ogni immagine, così che la prima immagine lasci il posto alla seconde, questa alla terza e così via, in una sorta di compenetrazione continua delle une nelle altre, capace di produrre, nei passaggi intermedi, un meticciato sorprendente di forme. Mentre nelle diafanie le parti vengono scambiate durante le dissolvenze, nei cortronici si muovono in uno spazio bidimensionale. Inoltre, nei cortronici, il legame con la musica è più puntuale e non legato ai tempi lenti e incostanti delle diapositive. Questi infatti, sono condizionati dall’elasticità dei tempi del loro trasporto, e spesso costringono a un uso improprio di un tempo visivo rubato, che però non deriva dal ritardo espressivo di una nota, ma dal ritardo o dall’anticipo incostanti nel formarsi dell’immagine. Tutto ciò rallenta o accelera fastidiosamente il ritmo, senza una ricaduta espressiva. Con Paint De Luxe, raggiungo risultati soddisfacenti in Stop, uno dei primi cortronici che ho realizzato, e in La caduta del desiderio, l’ultima che ho costruito con quel programma e che nelle mie rappresentazioni è risultato il più gettonato. Dopo quel programma, hi usato l’Animator pro sempre bidimensionale ma molto più potente. Potevo lavorare con definizioni che arrivano a 1024x768 pixel, anche se di quelle non sapevo che farmene, visto che per trasferire le animazioni in un videotape, il formato utile era il 640x480, che comunque dava una definizione circa 5 volte più alta del Paint De Luxe. Non per niente, il primo cortronici realizzato con quel programma si chiama Una bella definizione. Con l’Animator pro, ho strizzato il cortronico bidimensionale fino allo spasimo. Francesca la fatina è un cortronico dedicato a una mia nipotina, Francesca, per studiare la musica dei TH26, tre musicisti che si richiamano alla musica electro beat, frastornosa, molto poco ben vista (ben sentita?) dalle orecchie delicate. Li ho conosciuti nella sala compressori della miniera di Monteponi, dove si teneva un rave con musica massacrante, dove io ho mandato i miei cortronici, con un suono di 7000 watt, che significava uscirne sordi. I TH26 mi dicono di essere lì, per rendere un omaggio musicale a W. Borroughs e, mentre mi mettono in mano una telecamera, mi pregano di riprendere l’evento. Ora, Borroughs recitava le sue poesie agli studenti di Berkeley, mentre la polizia li pestava a sangue. Noi eravamo a Monteponi, molti anni dopo, i ragazzi di Iglesias non erano i ragazzi di Berkeley e, alla vista della polizia, se la sarebbero data a gambe per non sciuparsi il trucco. Cosa c’entrava Borroughs con loro? E la musica dedicata a Borroughs come c’entrava? Ho pensato che i TH26 inseguissero, dietro il martellare ossessivo dei rumori erogati a 10.000 watt, aure melodiche intimidite e lontane, chi sa, forse riverberi mentali di suoni inesistenti. Mi sono domandato se le immagini avrebbero enfatizzato quelle aure e chiedo a quelli del TH26 un piccolo brano di prova, riservandomi di lavorare in seguito su un pezzo più lungo. Nasce così Francesca la fatina e, più tardi, Madre del caos, che il gruppo ha utilizzato più volte dal vivo, per cucirvi sopra la musica. L’idea di enfatizzare quelle aure è nata quando lavoravo a Ah, il nuovo che avanza. Volendo misurarmi su un lavoro lungo, avevo chiesto a Favata di montare per me una sua storia musicale di circa mezz’ora. Per raggiungere quella lunghezza, egli aveva accodato un certo numero di brani preconfezionati. Ma non ha fatto un lavoro pulito: in uno dei punti di sutura, ha lasciato uno scroscio che mi mandava in bestia ogni volta che, durante i riascolti di controllo, le immagini cadevano in quel punto, a conclusione di un evento. Ho scoperto che, allungando la durata dell’evento in modo che cada al suo interno, lo scroscio non si sente più. Meglio, si sente ma solo se vado a cercarlo: l’evento visivo schiaccia quello sonoro. Dunque, non è da escludere un’influenza reciproca dei due sistemi, quello visivo e quello sonoro, anche se è stato sempre difficile per me capire come si esercitino in Madre del caos. Ho lavorato a Sinistra consumista, titolo di una poesia di Annamaria Janin, la quale voleva accoppiare a ciascuna delle sue poesie un lavoro dei pittori per farne una cartella di grafica. Lo chiede anche a me, ma siccome non faccio più cose da appendere, deve accontentarsi di una videocassetta. Qualche mese dopo, lavoro a Quel lampo bianco che fissò le ombre sui muri, in ricordo dell’atomica su Hiroshima. La musica è dei Coincidentia oppositorum, un gruppo di giovani compositori che si preparavano alla grande a un concerto che avrebbero eseguito alla cripta di San Domenico. In quel luogo è andato anche Al ristorante della stazione. Ho usato la musica su strutture visive aniconiche, come del resto ho sempre fatto anche con le diafanie. Pensavo di complicare il lavoro proiettando il cortronico mentre un attore avrebbe declamato un testo letterario. Ho scelto Gadda per l’uso che lo scrittore fa della lingua, volto più al controllo delle possibilità di riflessione di quest’ultima su se stessa, che alla costruzione di una facile referenzialità. Il problema era di legare in un unico evento tutti gli ambiti che avrebbero concorso a determinarlo, facendo attenzione che tutto si tenesse. Ma non intendevo progettare le immagini facendo coincidere note alte con colori chiari e note basse con colori scuri. Insomma non intendevo adattare le immagini al testo. Mi interessava verificare se e come i vari linguaggi concorrenti (visivo, musicale, letterario e teatrale) si sarebbero tenuti, in una struttura complessa non ancora (?) condizionata da convenzioni linguistiche, e dove i soli elementi di referenzialità erano contenuti nel testo di Gadda, comunque tutt’altro che facile, e nella musica di Romeo Scaccia che, nella parte finale, sottolinea con citazioni dall’Aida e dalla Carmen l’ironia che lo scrittore, in quel testo, adombra intorno ai patiti della lirica. Sono partito da un’ipotesi semplice che a me sembra ragionevole, anche se forse non lo è del tutto: se ciascuno dei linguaggi si tiene, allora si tiene anche la struttura dove essi giocano insieme. Era una scommessa che valeva la pena fare, per vedere cosa sarebbe successo, lasciando che fossero i linguaggi a decidere. Che il testo di Gadda si tenesse sul piano letterario era fuori di dubbio. Non c’erano dubbi neppure sulla tenuta della musica, né delle immagini. Restava la recitazione la cui tenuta, invece, lasciò a desiderare. Presentando l’opera nella cripta di San Domenico, ho usato due videoproiettori, uno che mandava le immagini su una parete, a fianco dell’attore, e l’altro sui capitelli. Il flusso delle immagini del secondo videoproiettore arrivavano leggermente sfasate rispetto alle immagini del primo, su cui era sincronizzata la musica. Tale sfasamento creava, in chi alternava lo sguardo tra le due sorgenti, un sistema di attese sempre premiate, come in una sorta di eco visiva. Inoltre, in basso, sotto lo spazio che ospitava le immagini a parete, una mezza dozzina di televisori che mandavano immagini casuali trattate e governate da Francesco Casu, un giovane videoartista che mi è piaciuto inserire nell’evento, per vedere cosa succede. Succede che il risultato non è dei più entusiasmanti: troppa ridondanza di segnali, a parte la scarsa tenuta complessiva. I CORTRONICI TRIDIMENSIONALI La potenza del programma che utilizzo per i cortronici tridimensionali spiega bene il problema della complessità. Ciò che voglio dire è che non ho difficoltà a immaginare due serie sovrapposte di fasce uguali, parallele ed equidistanti e che non ne ho neppure a immaginarle reciprocamente ruotate di un tot, una sull’altra. Invece, qualche difficoltà nasce se le fasce da muovere nel mio spazio mentale sono tre: in questo caso, dopo averne ruotato due, devo trattenerle così ruotate, prima di ruotarci sopra la terza, se no l’immagine si sgretola. Con quattro fasce, non ce la faccio proprio. Per capire cosa succede, devo visualizzare il problema su una superficie, cioè devo disegnarmele. con riga e squadra, e seguirne analiticamente il processo, passo dopo passo. E tuttavia, anche in questo caso, non è che “capisca” davvero cosa succede: le dinamiche percettive irrompono pesantemente sul disegno e la mia mente si perde in un intrico di linee rette che si mostrano nel rispetto delle leggi sulla pregnanza, non sempre rispettose della logica del processo. Affrontavo in tal modo quei problemi, cioè disegnandomeli su supporti di vario tipo, fino alla fine degli anni 80, quando mi sembrava utile costruire oggetti di forma quadrangolare da appendere al muro. E, di fronte al groviglio complicato dalla pregnanza, mi dicevo che il risultato relativo alla complessità di quel problema era ciò che avevo davanti agli occhi, e non poteva essere che quello, visto che io stesso l’avevo realizzato, con riga e squadra, seguendo analiticamente il processo, passo dopo passo. Ho smesso di costruire oggetti da appendere al muro, quando ho capito che potevo chiedere a una macchina cretina ma veloce chiamata computer cosa succede a sovrapporre e ruotare tutte le fasce uguali, parallele ed equidistanti che volevo. La macchina mi dava le risposte in tempi brevissimi, e io esclamavo: “cazzo, però!”. E però, a essere sincero, continuo a non capire cosa succede. Infatti, le leggi sulla pregnanza continuano a irrompere: oltre alla mia mente, sono le mie capacità percettive a non farcela. L’intrico di fasce che la macchina mi restituisce riesco a vederlo, ma non riesco a seguirne l’ordine, anche se sono stato io stesso a darlo alla macchina: “ruota la prima di un tot, la seconda di un tot diverso, la terza di un altro ancora, e poi la decima, la tredicesima, la ventiduesima…”, insomma tutte le fasce che voglio, con i gradi di rotazione che voglio, tutti diversi, continuando a esclamare: “cazzo, però!”. A dirla ancora come la dicono a Oxford, quelle complessità sono un vero casino. Alla fine, ho capito che c’è poco da capire e che devo fidarmi: se la macchina dà quelle risposte, quelle risposte devono essere. In fin dei conti, anche quando salgo su un aereo, devo fidarmi: devo fidarmi del pilota, il quale, a sua volta, deve fidarsi del quadro comandi e di quelli che l’hanno costruito, e deve fidarsi anche degli operatori della torre di controllo, i quali devono fidarsi del radar e di quelli che lo hanno costruito, i quali devono fidarsi di quelli che ne hanno studiato i materiali, che li hanno prodotti, controllati, comprati, venduti, montati, trasformati, corretti, aggiornati… Del resto, devo fidarmi anche del macellaio che mi vende il filetto. A farla breve e a pensarci bene, non c’è azione, fra quelle che compiamo ogni giorno, anche la più consueta, che non cavalchi sconosciute e incalcolabili complessità. Ecco, ciò che muove il mio mondo creativo attuale, quello dei cortronici 3D è proprio il problema della complessità, in cui mi piace immergermi in totale libertà e consapevolezza, chiedendo alla macchina cretina ma veloce qualcosa di più che ruotare un certo numero di fasce uguali, parallele ed equidistanti, non solo perché mi piace continuare a esclamare, ma anche per convincermi che le mie creature, per quanto volutamente aniconiche, oppure proprio per questo, risultino tuttavia metafore epistemologiche della realtà, come è giusto che sia per le opere d’arte. Anche con i cortronici 3D il mio rapporto con i materiali è quelle del pittore: sfumati, contrasti, trasparenze. Per prendere confidenza col programma 3D, ho utilizzato i vecchi materiali delle diafanie. Pensavo che sarebbe stata una soluzione provvisoria, tanto per cominciare a capire quali potevano essere le sue potenzialità. Ma, allo stato attuale, i materiali continuano a essere gli stessi, un po’ perché sono miei e ne faccio quel che voglio, un po’ perché mi piace indagare i loro comportamenti, una volta che li decontestualizzo dal loro mondo primigenio delle diafanie, per farli vivere nell’ambiente ben più dilatato del 3D.


sabato 21 febbraio 2009

"Prestami una vita'', diGianni Zanata, intervista all' autore a RAI Radio Sardegna





Martedì, 24 feb 2009, 12.35
Dove:Visualizza mappa
Intervista radiofonica con Gianni Zanata a Rai Radio Sardegna.


Rubrica "Cento di questi libri", di Romano Cannas, regia di Serena Schiffini.


Gianni Zanata e il suo romanzo d'esordio "Prestami una vita".



"Prestami una vita" (Edizionirebus)

L'autore Gianni Zanata sarà ospite di "Cento di questi libri", rubrica di Rai Radio Sardegna a cura di Romano Cannas per la regia di Serena Schiffini.

Appuntamento martedì 24 febbraio 2009, alle ore 12.35 sulle frequenze della RAI.

venerdì 20 febbraio 2009

RODOLFO VALENTINO, la Seduzione del Mito




RODOLFO VALENTINO
LA SEDUZIONE DEL MITO



Il primo grande divo della storia del cinema raccontato attraverso
una mostra, un’ampia retrospettiva, un convegno internazionale,
recital, letture, seminari, incontri e omaggi
Museo Nazionale del Cinema, Mole Antonelliana, 26 febbraio - 24 maggio 2009
Cinema Massimo, 23 febbraio – 1 marzo 2009
Università di Torino, 24-27 febbraio 2009
Il Museo Nazionale del Cinema e l’Università di Torino presentano


RODOLFO VALENTINO

LA SEDUZIONE DEL MITO


un articolato omaggio dedicato a un divo tra i più popolari e intramontabili della
storia del cinema, che ne ripercorre la breve vita e la carriera artistica, grazie a una grande mostra alla Mole Antonelliana, una retrospettiva completa al Cinema Massimo, un convegno internazionale e una serie di incontri, omaggi e recital organizzati dal Centro Regionale Universitario “Mario Soldati” per il Cinema e l’Audiovisivo.



L’omaggio verrà aperto lunedì 23 febbraio 2009 alle ore 21.00 al Cinema Massimo con la proiezione
del film Sangue e arena (1922) nella copia restaurata dalla Cineteca del Comune di Bologna e dalla Cinémathèque Suisse con l’accompagnamento musicale dal vivo dei jazzisti

Andy Sheppard (sax),
Valentino Corvino (violino),

Furio Di Castri (contrabbasso)

Stefano Maccagno (pianoforte)

Fabrizio Sferra (batteria).




Museo Nazionale del Cinema

tel. 011 8138509 - cell. 335 1... - email: geraci@museocinema.it

Resp. Ufficio Stampa: Veronica Geraci





Annarita Ruberto con grande competenza ricorda il grande Rodolfo Valentino


""Valentino è stato un personaggio unico. Dotato di un carisma e di un magnetismo straordinari, è stato un interprete eccellente ( il suo stile recitativo fu ammirato da altri grandi, tra cui lo stesso Charlie Chaplin) oltre all'uomo di rara bellezza, per cui è divenuto leggendario.

Forse, però, sono in pochi a sapere della sua grande cultura. La sua biblioteca era piena di libri, esemplari unici e opere d'arte in numerose lingue. Durante uno dei suoi viaggi in Italia è entrato più volte in contatto con i più importanti letterati del momento (D'Annunzio su tutti) ed ha composto diverse poesie.

Ne riporto una.


Italy (To Caruso)

The earth is earth-that is its worth,

To men who walk below.

But to the soul that seeks its goal,

Each land is all they know.

One calls it Home,

Another Heart,

Another Property,

But to the one who loves the sun

He calls it Italy.


Italia (a Caruso)


La terra è solo terra per i piedi

per gli uomini che camminano

ad occhi bassi.

Ma tutto è la terra

per l 'anima che cerca.

Chi la chiama casa,

chi cuore,

chi possesso,

io che amo il sole

la chiamo Italia.

Scrittori Precari


giovedì 19 febbraio 2009

Chiudi la Porta a Chiave


Emily

Mi dette un lungo sguardo

Glielo ricambiai

Capelli rossi

In una coda

Viso senza trucco

Labbra

Spicchi d' arancia sanguigna

Lumini dorati

Gli occhi

Fascino involontario

Rimaniamo uniti

Il suo corpo nel mio

Non uscire bisbiglia

Le sue palpebre si

Abbassano su me

Brivido

Piacere

Languore

Stremato


There is something abaout Death

Like love itself!

If with some one with whom you have known passion,

And the glow of youthful love,

You also, after years of life

Together, feel the sinking of the fire,

And thus fade away together,

Gradually, faintly, delicately,

As it were in each other's arms,

Passing from the familiar room-

That is a power of unison between souls

Like love itself! *


Edgar Lee Masters

Mi frulla in testa

Scrollarsi i ricordi dalla memoria

Disfarsi dei pensieri

Suono soffocato di

Lama che penetra nel corpo

Senza fretta

Il sangue scorre fuori

La vita comincia a

Spegnersi

Sguardo perso

Gorgoglia


Quan

Do


Vai

Via


Chiu

Di


La


Por

Ta


A


C

H

I

A

V

E

.

.

.





* "William and Emily" da "Antologia di Spoon River", di Edgar Lee Masters, Oscar Mondadori
C'è qualcosa nella Morte/ che e' come l' amore!/ Se con qualcuno che ti ha fatto conoscere la passione,/ e l' ardore dell' amore giovane,/ anche tu, dopo anni di vita/ insieme, senti che la fiamma si va estinguendo,/ e cosi' insieme andate svanendo,/ gradualmente, impercettibilmente, con delicatezza,/ come stando abbracciati,/ attraverso la stanza consueta -/ questo e' il potere dell' unisono tra anime/ che e' come l' amore!

l' immagine e' "Porzione di donna" di DeLamarne

mercoledì 18 febbraio 2009

Enigmi del ritratto Pacioli, di Gaetano Barbella

Il fratello in web Gaetano Barbella, alias "Il Geometra Pensiero in Rete", (http://www.webalice.it/gbarbella/) mi ha inviato un interessante scritto che volentieri pubblico in questo blog che, da "lettino psicanalitico" di un serial killer, si sta trasformando in un "caffé letterario"


Enigmi del ritratto Pacioli
“ IACO. BAR. VIGENNIS P.1495 ”








Illustrazione 1: Ritratto di Luca Pacioli - Pinacoteca del Museo di Capodimonte di Napoli.


La questione
posta dal sito http://www.ritrattopacioli.it/

Cartiglio segnatura e mosca

E’ solo per la carenza di reperti documentali, di testimonianze ed attestazioni storiche, se resta tuttora irrisolta la questione attributiva dell’enigmatico “Ritratto di Luca Pacioli”, conservato nella Pinacoteca del Museo di Capodimonte di Napoli e raffigurante il frate matematico autore della “Summa de Arithmetica” e del “De Divina Proportione”?
La scarsità di documentazione disponibile non fornisce notizie in ordine alla esecuzione e originaria destinazione del dipinto.
Le prime notizie documentali sono posteriori di oltre un secolo alla presumibile formazione del ritratto e risalgono ad un inventario del 1631, senza informazioni sulla data e modalità di acquisizione, sulla collocazione e conservazione nel palazzo Ducale di Urbino.
Incluso in un elenco di beni del Guardaroba dei Della Rovere, la prima inventariazione reca solo mere ipotesi sull’autore ed anche i successivi documenti non soccorrono, riguardando soltanto il trasferimento del dipinto, a metà del XVII secolo, da Urbino a Firenze e dalla dinastia urbinate a quella medicea fiorentina, tramite Vittoria della Rovere-Medici.
Le tracce del dipinto ricompaiono secoli dopo a Napoli, sempre nel possesso della discendenza dei Medici, nel ramo cadetto di Ottaviano, per giungere alla attuale destinazione museale a seguito di esercizio della prelazione statale sulla vendita destinata all’estero.
Se la tradizione storica tace, l’attribuzione attuale è generica e residuale, solo presuntivamente autografa, essendo riferita ad incerte interpretazioni delle indicazioni siglate rilevabili sull’anomalo “cartiglio” raffigurato nel dipinto.
La ricerca storiografica e quella critica non hanno tratto stimolo e tanto meno fatto progressi neppure a seguito della revoca critica delle originarie ipotesi formulate.
Dopo un iniziale sollecito agli studi dovuto alla acquisizione ed esposizione nel museo della Reggia di Capodimonte, nonostante periodici riesami in diversa cadenza, più o meno rarefatta, non si è pervenuti a sostanziali apporti documentali o critici risolutivi, quantomeno di indicazione di elementi di novità per l’apertura di ulteriori percorsi di indagine e, con l’esaurimento progressivo nel tempo delle possibili interpretazioni rilevabili dalle indicazioni stesse del dipinto, si è verificata una protratta stasi della ricerca attributiva.
Considerata la elevata qualità pittorica ed artistica dell’opera, l’intensificazione espositiva in mostre, l’adozione dell’immagine a simbolo di un ordine professionale, la più intensa divulgazione dell’immagine in riproduzioni fotografiche, anche per illustrazione di copertina di opere editoriali, l’assenza di studi recenti assume significato e carattere di vera e propria implicita desistenza e rinuncia all’indagine.
Sugli esiti delle ricerche si è frapposto l’ostacolo fuorviante della iscrizione “IACO.BAR. VIGENNIS. P. 1495”, apparente abbreviata segnatura ed ineludibile ed irrisolta crittografia, resa ancor più ambigua dalla sovrapposta raffigurazione di una mosca.
L’interpretazione del malinteso cartiglio e delle sue iscrizioni e abbreviazioni ha condizionato l’indagine sin dall’origine, sviando da prospettive e direzione storiche per l’individuazione dell’autore.
Ma anche l’omissione di una approfondita ermeneutica del dipinto e la preferenza data alle sole metodiche di analisi stilistico-pittorica, ha ristretto il campo della ricerca trascurando altri ambiti di necessaria indagine critica.
Si è in tal modo rimesso al fortuito ed al caso la soluzione della questione, alla mera eventualità di un rinvenimento archivistico risolutivo che non è ancora sortito.
Su tale anomalia ha inciso, oltre all’assenza di tradizione e citazioni storiche, l’effetto riduttivo indotto dall’anonima e riservata conservazione presso la Corte Urbinate e successivi possessori.
Si è implicitamente attribuito al dipinto un valore prevalentemente documentario, nella limitativa valutazione di pregevole ritratto di rilevanza storica piuttosto che artistica, giudizio certamente non adeguato ai contenuti ed ai pregi estetici che vi sono espressi.
L’opera, rimasta prima incognita e poi sostanzialmente non compresa, si è tuttavia imposta e diffusa per le sole intrinseche qualità estetiche, per vigore e suggestione di immagine, pur in difetto del richiamo e clamore di una prestigiosa paternità d’autore.


Contributi e commenti alla questione.
Le due verità

Si cerca la verità, ma non la si trova mai, sapete perché? Perché è come quel tenue filo che tiene sospeso il rombicubottaedro dell’enigmatico Ritratto di Luca Pacioli esposto nella Pinacoteca del Museo di Capodimonte di Napoli. Tutti si chiedono spiegazioni su quest’opera d’arte della quale non si hanno nemmeno cognizioni certe sul suo autore. Certezze essi cercano in ogni dove di questa sorta di esposizione allegorica.
Solide certezze sapienziali, innanzitutto, come sembra indicare quel solido poliedrico, un piccolo dodecaedro al lato opposto dell’evanescente rombicubottaedro. Esso è poggiato infatti su un grosso volume dalle tante pagine ben serrate, per significare con l’immobilità il potere incisivo del sapere del libro chiuso, però. E le dodici facce poligonali del poliedro sono quelle dell’uomo esposto al variare periodico del tempo che muta continuamente dodici volte l’anno, appunto.




Illustrazione 2: Dettaglio Ritratto di Luca Pacioli - La mosca sul cartiglio.

Ci sono due rovesci di questa sorta di medaglia del sapere del certo: il primo è la fissità di ogni cosa, sinonimo di condizione di morte che, se non altro, con il placar dei sensi essa par che si ben disponga; il secondo, non migliore del primo, è quella mosca sul cartiglio a scompigliar l’assoluta completezza del saper saccente.
È qui il “tenue” filo opposto a quella sorta di cristallo, che par che viva, in alto sospeso a sinistra, attrattivo e assai amabile, che sembra però irraggiungibile. E c’è anche discordia sull’interpretazione del cartiglio, a causa dell’iscrizione parzialmente occultata dal noioso insetto.
Che vuol dire tutto ciò, oltre a capire che le decisioni finali dei fatti della vita, spettano, comunque, alla sorte? Che è in questa sede “ombrata” provvidenzialmente messa a bella posta, che si adopera «sorella Morte», come l’ha venerata il poverello di Assisi, S. Francesco, per porre la croce che si conviene su ogni uomo, l’evangelico «peso soave» a detta di Gesù.
Il sapere è una bella cosa ma porta a far scegliere all’uomo che se ne nutre a sazietà, quasi sempre la strada del benessere, che non è quella del giusto bene. Ecco che ora si capisce il mistero riposto nella mosca che è, molto spesso, portatrice di infezioni a volte inguaribili!
E il rombicubottaedro, del quale ho tenuto sospeso anche il parlarne, dopo aver detto che la verità è come riposta nel tenue filo che lo tiene sospeso ad un cielo che nemmeno si vede?
Certo però fra’ Luca Pacioli è come assorto, assorbito da quella figura stranamente come se fosse vivente. La guarda con mestizia ed amore e sembra che l’agogni perdutamente. In realtà il rombicubottaedro non esiste, è presente solo nell’immaginazione del solerte “geometra” in lui che lo dispone alla sua specifica geometria, ed è questo che sembra indicare il suo daffare con la mano destra ed anche la sinistra.
Ma allora la verità che gioverebbe all’uomo, così come la suggerirebbe fra’ Luca Pacioli, e non l’altro accanto che è sempre Pacioli (ma come uomo disposto alle assolute certezze, se pur con i rovesci indicati dal cartiglio e la mosca peregrina), è nella fede in Cristo e nella sua Chiesa, che può essere paragonata al “velo” della mente che custodisce l’anima immortale dell’uomo.
Ecco la verità del potere cristallino e dell’antica armonia delle possibili sfere in essa che ruotano, un tutto all’insegna di una ferrea matematica!
Dunque la verità del rombicubottaedro sta nel mantenimento della fede attraverso un imprecisato velo dogmatico che non andrebbe mai eluso. Di qui il dogma Mariano che ha dovuto subire nell’arco della storia assalti che non si contano. Tuttavia la vita impone necessariamente che l’uomo, quello del dodecaedro, cerchi anche da sé la verità attraverso la «scienza del bene e del male», senza però propendervi al punto da mortificare l’altro, l’uomo del rombicubottaedro, il «Figlio di Dio», mentre il primo è il «figlio dell’Uomo». Il passo è breve per immaginare che si sta parlando di un emblema chiaramente cristico la qual cosa non esclude altre parvenze di espressioni culturali del mondo dell’arte e non solo.

Gaetano Barbella

Risposta
da: ritrattopacioli [info@ritrattopacioli.it]

«Il suo messaggio coglie la problematica della ricerca del vero. Forse va considerato, secondo il pensiero vichiano, che “verum est ipsum factum”. In ogni caso dal fatto si può riconoscere l’autore, essendone la sua espressione o intenzione. I livelli dei fatti sono diversi e può individuarsi autore e Autore.»

http://www.youtube.com/watch?v=NlT8yeEYbMs

domenica 15 febbraio 2009

"Angoscia" e " Angeli pensieri", Poesie di Annarita Ruberto



A votazioni concluse e dopo la proclamazione dei risultati pubblico la poesia della sorellina Annarita che si e' classificata al primo posto nel concorso tra blogger organizzato dall' infaticabile Stella (http://blogpericoncorsidipoesia.blogspot.com/; http://stella-ilbeneinnoi.blogspot.com/)






senza titolo, di Mark Rothko, New York























ANGOSCIA


Pensieri dissonanti
come ali dal volo incoerente
allontanano sponde
ora così distanti e così fragili
per contenere
flutti potenti
di emozioni illogiche
nel fiume in piena dell’angoscia.
Cerco la quiete
nelle parole antiche di mia madre,
nei versi dei poeti,
nel flusso dei ricordi
che giungono
a portare ordine vitale
a idee che si scontrano,
si dibattono impotenti
nella gabbia di una logica
che per infiniti attimi
non mi appartiene
e sfugge,
sabbia nella clessidra dei giorni.
Il moto costante della mente
sottrae dolcezza al tocco delle mani,
fa gelido lo sguardo,
troppo scuro per liberare
lacrime di pietra.
Fragile e pur audace
invoco aiuto…


Quest' altra poesia, sempre di Annarita e' dedicata a Serenella


Angeli pensieri

Angeli, pensieri
amici

Attraversano la cortina
del nulla

E donano parole

L'angoscia può acquistare
colori
"Anima" di Eleonora Como, Pietrasanta (LU)