La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

martedì 30 novembre 2010

Addio a Mario Monicelli

Addio a Mario Monicelli

Mario Monicelli: Il mio cinema fra Mussolini, Sordi e Gorbacëv

E' stato uno dei più grandi registi italiani di tutti i tempi. Qui ripercorre la sua vita in un racconto intensissimo e divertente, amaro e surreale. Proprio come le sue commedie. Con la differenza che in questa narrazione nulla è stato inventato. Dal primo film sotto il fascismo alla Liberazione, dagli attacchi di Gadda contro La grande guerra, alle partite a carte con Sordi e il sensitivo Rol, dal ritorno a casa l’8 settembre del ’43 al crollo dell’Urss.

di Mario Monicelli, da MicroMega 5/2010

Il primo regista con il quale ho lavorato era un cecoslovacco, si chiamava Machaty´. Era il 1934. L’anno prima aveva vinto a Venezia con un film «scandalo»: Ecstasy. A dire la verità non si trattava di una grande pellicola, ma fece molto scalpore perché conteneva la prima scena di nudo della storia del cinema. L’attrice in questione, Dorothy Lamarr, veniva immortalata mentre passeggiava senza veli per i boschi della Boemia. L’effetto sul pubblico fu tale che il film ebbe la Coppa Mussolini e il regista fu chiamato a Hollywood.

Proprio quando era in procinto di trasferirsi negli Stati Uniti dalla Cecoslovacchia, il nostro ministero della Cultura popolare – il famigerato Minculpop – intercettò Machaty´ e gli chiese di fare un film in Italia. Lui era qui con tutta la sua piccola troupe composta dalla prima attrice, un assistente, un montatore, un direttore delle luci… cinque o sei persone in tutto.

Girarono un film che si intitolava Ballerine. Quella fu la prima volta che io lavorai su un set. Facevo – diciamo così – l’«aiuto attrezzista»: mi occupavo sostanzialmente di trasportare i mobili, spostare i pezzi della scenografia, ma anche di portare le bottiglie d’acqua, aiutare il regista a mettersi il paltò, ad accendere la sigaretta… Insomma, ero un ragazzetto che si dava molto da fare. Avevo 19 anni ed ero contentissimo. I 19 anni di allora non possono essere confrontati con quelli di oggi: allora, a quell’età, si era ancora un po’ imbranati, un po’ ragazzini; si guardava il mondo con un’aria stupefatta.

Naturalmente quelli erano gli anni del regime, del fascismo. Ma il rapporto fra il cinema italiano e il fascismo fu sempre molto particolare. La situazione era molto diversa rispetto a quella dell’informazione e della stampa. Lì margini di libertà proprio non ce n’erano. Ricordo gli articoli di Montanelli, colui che oggi viene celebrato come il più grande giornalista italiano, l’icona della stampa libera e indipendente. Le sue esaltazioni del fascismo e del duce di cui scriveva coniando addirittura degli aggettivi ad personam per Mussolini, tipo «oceanico» e robe di questo genere. Montanelli, Missiroli e tanti altri esaltavano il fascismo e le guerre nelle quali il regime coinvolgeva il paese così come faceva Malaparte. Quest’ultimo, però, lo faceva con la chiarezza dell’uomo schierato, mentre le persone come Montanelli e Missiroli ci tenevano a far vedere di essere dei «liberali». Ecco chi era il campione del giornalismo libero così glorificato ai giorni nostri.

Tutto questo per dire che la realtà della carta stampata e dell’informazione in senso stretto era assolutamente priva di spazi. Per quanto concerne il cinema, invece, non si poteva parlare di politica – e tanto meno, ovviamente, si poteva parlare male del fascismo – ma non era nemmeno richiesta un’esplicita celebrazione del regime. Si faceva un cinema «piccolo-borghese» incentrato principalmente su vicende d’amore. Ricordo ad esempio film come Mille lire al mese o Il signor Max.

Era il cinema dei «telefoni bianchi», ovvero produzioni senza troppe pretese ma con un cospicuo pubblico, che in più offrivano una certa possibilità di imparare il mestiere. Soprattutto dopo che fu costituito l’Asse Roma-Berlino (l’alleanza fra l’Italia fascista e la Germania di Hitler) e fu proibita la circolazione del cinema americano, che in quegli anni imperversava. Da quel momento in poi la nostra produzione nazionale di film crebbe considerevolmente. Fu allora che nacque Cinecittà.

Il regime dava soldi in abbondanza al cinema, purché questo non rompesse troppo le scatole. E quel mondo rispondeva con i film dei «telefoni bianchi» e, inizialmente, con qualche pellicola di propaganda. Ma poiché quest’ultime erano fatte piuttosto male, non ebbero un grande successo e presto il regime rinunciò anche a commissionarle. Fu però proprio in uno di questi film di propaganda che ebbi la mia seconda esperienza sul set, dopo quella con Machaty´. Andai a finire in Libia, dove girammo un film che parlava di un giovane italiano alto-borghese che, a causa di una delusione d’amore, decideva di arruolarsi nelle truppe coloniali. Il lavoro si intitolava Lo squadrone bianco e lo dirigeva Augusto Genina. Un grande regista – che aveva lavorato nel cinema tedesco e francese dopo il fallimento dell’Unione cinematografica italiana – ma privo di idee e convinzioni politiche: si prestava a fare di tutto. Fece anche un film di esaltazione della guerra di Spagna: L’assedio dell’Alcazar.

Una precisazione si rende però necessaria per capire il contesto nel quale vivevamo in quegli anni: allora erano tutti fascisti. Gli italiani appoggiavano tutti il regime, tranne quei pochi disperati che stavano in Francia o che erano stati mandati al confino a Ventotene o in un qualche altro posto. E in più questi dissidenti erano tutti di una certa età: i più giovani erano tutti «fascistissimi», tutti convinti che avremmo vinto la guerra e saremmo diventati, al seguito della Germania, i padroni del mondo. Poi naturalmente molti di questi furono prontissimi a riciclarsi e a rifarsi una verginità all’indomani del crollo del regime. La cosa fu all’origine anche della tragedia familiare che mi colpì a guerra appena finita.

Mio padre era stato un giornalista molto importante. Partito da posizioni socialiste era poi passato con i liberali e, come molti liberali, aveva inizialmente visto nel fascismo un argine contro il «pericolo bolscevico» e con il suo giornale – era direttore del Resto del Carlino – lo aveva sostenuto, sebbene con uno stato d’animo assai riottoso. Con il delitto Matteotti – quando il regime si presentò per quello che realmente era, rivendicando il suo volto violento, sanguinariomio padre passò all’opposizione. Scrisse sul suo giornale tre o quattro articoli nei quali denunciò il delitto con toni molto accesi e così gli fu tolta la direzione e la proprietà (era anche il proprietario del giornale, oltre che il direttore). Gli fu anche proibito di firmare qualsiasi articolo – non solo di politica, ma di qualunque argomento – con il suo nome.

Mi ricordo – avevo più o meno otto anni – quando la nostra casa sopra le colline di Bologna fu presa di mira da un gruppo di fascisti, un gruppo di giovanotti col fez che cominciarono a tirare sassate contro le finestre. Io ero esaltatissimo, vedevo mio padre come un eroe. Invece i suoi colleghi giornalisti non ebbero alcun problema a lavorare nelle redazioni dei vari giornali fascisti. Me li ricordo quando venivano a casa nostra a raccontare i pettegolezzi, a sghignazzare sul fascismo, sul Duce, sulle pagliacciate dei gerarchi che saltavano dentro i cerchi di fuoco nel corso delle parate ufficiali… Poi però il giorno dopo tornavano in redazione e scrivevano panegirici di Mussolini, della guerra, delle folle oceaniche sotto palazzo Venezia.

Quando poi il regime crollò, tutti a salire sulla barca della democrazia: gli stessi che fino al giorno prima avevano esaltato il fascismo. Ma mio padre, che durante il Ventennio era stato estromesso poiché antifascista, non fu affatto reintegrato nel suo vecchio lavoro. Continuò a essere un emarginato, anche perché nei posti che contavano erano rimasti quelli che c’erano durante il regime. E questo lo portò al suicidio.
Fu un gesto sbagliato, niente affatto eroico, che cinematograficamente potrebbe essere raccontato all’interno di una storia piena di sarcasmo. Ma maturò proprio dentro questa cornice di comprensibile amarezza e indignazione.

L’8 settembre me lo ricordo molto bene. Ero a Napoli perché, dopo aver fatto la guerra in cavalleria, mi avevano fatto passare ai carri armati e dovevo imbarcarmi, insieme al mio reggimento, per la Libia.
Non dimentico il terrore di quelli che partivano. Se si riusciva ad arrivare in Libia non c’era alcun problema perché tanto tutti si arrendevano; se uno riusciva a toccare terra la cosa era fatta, era salvo. Il problema era il tragitto, che durava cinque, sei giorni: se ti siluravano il traghetto andavi a fondo e affogavi come un gatto, senza possibilità di difenderti. Centinaia di soldati, tutti sulla tolda, in attesa, andavano a fondo all’improvviso nel giro di pochissimo tempo. Ogni dieci, dodici giorni veniva letto l’elenco di quelli che si imbarcavano e allora si diffondeva il terrore. Per fortuna, però, il mio nome non fu mai pronunciato e presto i viaggi dei traghetti si fecero sempre più rari perché nell’ultimo scorcio della guerra il Mediterraneo era ormai diventato un lago inglese.

L’8 settembre quindi ero a Napoli. Ricordo che tolsi l’uniforme – ero sottufficiale – e uscii dalla caserma con una giacchetta che avevo in valigia. Mi avviai a piedi verso Roma seguendo la strada ferrata. Non conoscendo le strade, uno andava alla stazione e poi seguiva la ferrovia, così era sicuro di arrivare a destinazione. E infatti la strada ferrata ospitava una grande processione di soldati che tornavano ciascuno a casa propria. Quando passava qualche aereo tutti si buttavano di lato e poi, poco dopo, il serpentone si ricomponeva.

Appena sono tornato a Roma sono stato contattato al telefono da un tale che si chiamava Comunardo Braccialarghe. Proprio così, Comunardo Braccialarghe. La famiglia Braccialarghe era una famiglia di anarchici e lui era stato chiamato così in onore della Comune di Parigi. Io ero socialista, in giro lo sapevano, e allora mi contattarono. Formammo un piccolo gruppo di cinque o sei elementi e ci occupammo principalmente di tenere in piedi alcuni contatti, trasportare pacchi, prestare servizi di protezione e scorta. Questo fu il mio piccolo contributo alla Resistenza fino a quando non arrivarono gli Alleati.

A causa del consenso di massa del quale godeva il regime e che ho cercato di rendere anche con queste brevi istantanee, quando il fascismo crollò, davvero venne meno un mondo nel quale la stragrande maggioranza degli italiani aveva creduto. Lo shock fu tale che aprì le porte a una stagione di grande sperimentazione, nella quale fu abolita quasi ogni censura e potemmo girare film fino a poco tempo prima assolutamente impensabili.

Io firmai la sceneggiatura di un film con Macario che si intitolava Come persi la guerra e che fu un grandissimo successo. Era una farsa, anzi una farsaccia, che conteneva una denuncia feroce contro l’insipienza del regime, dei vertici dell’esercito italiano, di coloro che ci avevano condotto in guerra.

Quella stagione unì la creatività sprigionatasi con la fine della repressione fascista alla capacità produttiva ereditata dagli anni del regime, anni nei quali non solo fu edificata Cinecittà ma si formarono maestranze di altissimo livello dal punto di vista tecnico. Appena finita la guerra credo che la nostra industria cinematografica fosse seconda solo a quella degli Stati Uniti, e questo ci permise di cominciare da subito a sfornare 50-70 film l’anno, che in poco tempo diventarono 250.

Oggi il cinema italiano del secondo dopoguerra è identificato con il neorealismo. Ma quello era un cinema di élite: tutti si inchinavano, la stampa ne celebrava gli autori, la critica ne incensava i registi. Ma il pubblico mica li andava a vedere i film neorealisti! Andava a vedere i film di Totò o Come persi la guerra. Per questo non facevo il «neorealismo», ma questa sorta di… «neofarsismo». Facevamo un cinema molto autentico che trattava temi importanti – il problema della casa, del lavoro, della sopravvivenza quotidiana – ma in chiave niente affatto drammatica, con attori come Totò o Aldo Fabrizi che venivano dal teatro leggero ed erano popolarissimi.

In fondo è da lì che nacque la commedia all’italiana, da quel gruppo di autori e registi – Comencini, Risi, Steno, Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Fulci eccetera – che scelse di raccontare con ironia, e talvolta addirittura con i toni della farsa, la società italiana di allora e i gravissimi problemi che la attraversavano. Per altro devo dire che il cinema italiano del dopoguerra fu una grande opera collettiva.

Ci frequentavamo tutti – attori, registi, sceneggiatori – andavamo negli stessi locali, negli stessi bar, negli stessi ristoranti. A parte Visconti – che era pieno di quattrini e non aveva bisogno di niente – eravamo tutta gente giovane e senza una lira. Nessuno di noi aveva una casa personale: dormivamo tutti in camere ammobiliate e quando c’era da lavorare, da scrivere, ci trovavamo sempre in quei due o tre soliti bar di Roma, che erano un po’ il nostro ufficio. Uno era il Caffè Greco di via Condotti, un altro il Notegen di via del Babuino, un altro ancora si trovava dove oggi c’è il McDonald’s a piazza Mignanelli, accanto a piazza di Spagna.

Fra i ristoranti ricordo il Cesaretto a via della Croce, Otello e Il Re degli Amici. Dai Fratelli Mende, invece, sulla via Flaminia si ritrovavano i pittori – ricordo fra gli altri Trombadori, Consagra – che spesso si menavano. Erano tremendi, se non erano d’accordo fra loro scattavano delle risse terribili.

Noi del cinema invece eravamo più tranquilli, andavamo molto d’accordo, non c’era rivalità. Anche perché a un certo punto, come ho detto, si facevano tra i 200 e i 250 film l’anno, quindi lavoro ce n’era in abbondanza per tutti. Ci passavamo le commesse fra noi, ci scambiavamo i favori, indirizzavamo chi aveva meno lavoro verso i progetti nuovi che nascevano. Insomma, c’era un clima di grande unità e collaborazione.

Fu così che nacque anche La grande guerra. Durante il fascismo ci avevano fatto il lavaggio del cervello con la prima guerra mondiale: ci veniva raccontata come la quarta, l’ultima guerra d’indipendenza. Ci veniva detto che il popolo italiano si era destato da ogni paesino della Sicilia, da ogni entroterra sperduto della Sardegna e si era riversato sulle Alpi per respingere lo straniero e liberare Trieste. Una falsità tremenda! Negli anni ’15-’18 l’Italia era un paese del «quarto mondo», il 70 per cento dei suoi abitanti era analfabeta. I soldati mandati a combattere al fronte venivano buttati nel fango, in trincee scavate nelle montagne gelate, malnutriti, male armati e mal comandati… nemmeno sapevano perché si trovavano lì. Il nostro film voleva sfatare tutta questa falsa retorica che era stata costruita intorno alla prima guerra mondiale dal fascismo. Approfittando della fine della censura – la censura era molto rigida per quanto concerneva gli aspetti del «buoncostume», ma si era assai attenuata per quanto riguardava il punto di vista storico o politico con il quale veniva girato un film – scrivemmo una sceneggiatura con l’obiettivo di restituire la memoria della guerra alla sua cruda e amara realtà.

Un libro che utilizzammo molto per la sceneggiatura fu Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. Un racconto straordinario, dal quale prendemmo molte situazioni, battute, personaggi. Andai anche a trovarlo, Lussu, per chiedergli l’autorizzazione a utilizzare il libro e corrispondergli in caso i diritti. Ricordo che la moglie, Joyce – una donna antipaticissima – mi trattò molto male. Lussu era ben disposto e in fondo penso fosse divertito del fatto che il suo libro venisse messo in scena in un film come il nostro, ma la moglie praticamente non mi fece parlare. Potevamo fare quello che ci pareva con il libro – disse – e non dovevamo pagare un soldo, ma loro non ne volevano sapere nulla. E dopo poco mi buttò fuori di casa. Fu davvero scortese. Più in generale, al mondo della cultura non piacque affatto l’operazione che facemmo con La grande guerra poiché era un mondo ancora molto legato a certi stereotipi della storia nazionale. Carlo Emilio Gadda, ad esempio, si offese molto e scrisse cose durissime contro il film. Durante il regime la grande guerra era intoccabile e ora ci facevano un film quelli della commediola, quelli di Guardie e ladri e di Totò cerca casa… Gadda scrisse che nessuno in Francia si sarebbe mai sognato di fare una cosa del genere.

I personaggi che poco tempo prima venivano descritti come eroi nazionali, ora venivano trasformati in uomini comuni senza alcuna aura sacra, e in più interpretati da attori come Sordi, come Gassman, che fino a ieri avevano recitato solo in commediole goderecce, divertenti e molto popolari: questi erano i discorsi che comparvero sui giornali dell’epoca. Un altro assai critico fu Norberto Bobbio. In ogni caso noi ci difendemmo con molta fermezza da queste accuse e il film fu un successo strepitoso.

Un’altra pellicola che diede molto fastidio fu – l’ho citata sopra – Guardie e ladri. Era la storia di un poliziotto che faceva amicizia con un ladro. Erano entrambi due miserabili, con molti problemi in comune: da qui l’intesa che li legava. E così il ladro, per non far perdere il posto al poliziotto, alla fine accettava di farsi arrestare. Naturalmente questa immagine della «forza pubblica» che davamo nel film fu molto criticata, ma la pellicola fu un altro successo straordinario.

In Totò e Carolina, invece, c’era questa ragazza sbandata che veniva riaccompagnata al paese natale da un poliziotto, ma nessuno voleva riaccoglierla. Alla fine era lui ad aiutarla, insieme a un gruppo di comunisti che stavano andando a fare un comizio da qualche parte. Era un film molto sovversivo se teniamo conto di quale fosse la morale e il comune senso del pudore di quegli anni. E infatti ebbe moltissimi problemi con la censura. Ma ancora una volta il pubblico rispose in modo straordinario.

Questi film piacevano perché facevano ridere raccontando storie amare. Inizialmente lo spettatore, guardando un certo personaggio e seguendo una certa situazione, pensava a quanto lui era diverso da quel personaggio e a quanto improbabile fosse la situazione nella quale si trovava. Ma dopo un po’, sotto sotto, sentiva che un filo rosso profondo lo legava a ciò che veniva rappresentato nel film. Pensiamo al fenomeno di Alberto Sordi. Lui si è inventato il personaggio di un italiano vile, sopraffattore, inaffidabile, pronto a qualsiasi bassezza, insomma di un italiano immondo con cui gli italiani si sono divertiti follemente. Come mai? Perché pensavano che fosse una cosa che non gli corrispondesse, ma sotto sotto ne sentivano il richiamo. All’estero Sordi non lo possono vedere. Si chiedono: ma come fa a divertire questo essere immondo? Cosa c’è da ridere?

Apro qui una parentesi su Alberto perché è in assoluto l’attore più strepitoso con il quale abbia mai lavorato. Nessuno è stato come lui. Sordi non era un uomo colto, non era un intellettuale. Aveva solo un po’ di cultura musicale che gli veniva dal fatto che il padre suonava non so quale strumento a fiato in quale orchestrina. Aveva anche studiato un po’ di canto, era un basso profondo. Ma era fondamentalmente ignorante e non aveva fatto alcuna scuola. Era approdato al cinema dopo aver fatto qualche parte a teatro, ma senza una formazione specifica. Un po’ come Tognazzi.

C’era invece un’altra schiera di attori, come Gassman, che veniva dall’Accademia. Gassman e Sordi, pur così diversi, stavano insieme benissimo. Non ebbi mai problemi a lavorare con loro. Le persone di qualità – non solo gli attori, lo stesso vale per i giornalisti o qualsiasi altra categoria professionale – non danno mai problemi. Non ebbero mai nessuna difficoltà ad armonizzarsi e seguire le indicazioni del regista. Io ho lavorato anche con attori di lingue diverse, che recitavano parlando uno francese, l’altro tedesco, l’altro ancora italiano. Ma quando l’attore è di qualità il lavoro sul set è sempre facile, non c’è mai imbarazzo. Sono i mediocri che creano problemi. E per giunta problemi insolubili.
Se tu vai da un attore di qualità e gli dici: «Per piacere Vittorio, dagli una punta di malinconia in più a questa scena», quello va a rifarla e la fa perfetta, proprio come richiesto. La stessa cosa non succede col mediocre perché non sa fare diversamente, poveraccio.

Fra tutti gli attori bravi con i quali ho avuto la fortuna di lavorare, comunque, il numero uno era Sordi. Una volta lo accompagnai a Torino da Gustavo Rol, il mago sensitivo amico di Fellini, per il quale Alberto si era incuriosito. Fellini era fissato con queste cose dell’occulto: non mi sono mai spiegato come mai, dato che era un romagnolo con i piedi ben piantati a terra. Io invece sono sempre stato assai scettico e così quando Sordi mi chiese di accompagnarlo, dal momento che non voleva andare da solo, ho accettato senza problemi.

Rol ci accolse sommergendoci di racconti mirabolanti sulle sue performance, su come era stato in grado di apparire contemporaneamente in diversi luoghi. Citava date e nomi ai quali avremmo dovuto chiedere conferma di quanto diceva. Faceva grandi e fumosi discorsi sul nostro futuro, ma senza di fatto prevedere nulla di specifico. Ci mostrava i suoi quadri dipinti in stato di trance. Alla fine, dopo ore spese a cercare di impressionarci senza però sortire alcun effetto (avevamo capito ben presto che razza di ciarlatano avevamo di fronte), ci ritrovammo tutti e tre, a notte fonda, a giocare a carte. A pensarci, una scena da film di Monicelli.

Tornando alla commedia all’italiana, un po’ tutta quella stagione è stata costruita intorno al gioco di specchi fra pubblico e rappresentazione. Mostravamo un’Italia pusillanime e immorale, ma sulla quale era possibile ridere anche perché era ancora un’Italia povera e tante bassezze erano legate a situazioni di estremo bisogno. Per questo contro i personaggi della commedia non scattava un meccanismo di mera condanna, ma anche di empatia e identificazione.

In fondo ho sempre raccontato le storie di gruppi di disperati – oggi diremmo di «sfigati» – desiderosi di cambiare la loro vita con un’impresa che si rivelerà alla fine più grande di loro e che li condannerà al fallimento. Le mie storie sono sempre state la narrazione delle vicissitudini – al tempo stesso ridicole, divertenti e patetiche – intorno a questa impresa.

I compagni
, L’armata Brancaleone, I soliti ignoti… in un certo senso anche Speriamo che sia femmina: sono tutti film che hanno sullo sfondo questo aspetto del fallimento, il fallimento che nasce dalla scelta di una strada sbagliata. Gli italiani si sono fatti dire dal cinema cose che non hanno concesso di farsi dire dal teatro e dal romanzo. Si sono fatti raccontare una realtà spesso molto dura, amara. E questo perché il cinema, essendo un mezzo molto popolare e moderno, arrivava dappertutto senza cerimoniali, senza mediazioni.

Venivamo da una guerra perduta in modo inglorioso, da una dittatura farsesca conclusasi con questo personaggio, Mussolini, catturato mentre cercava di fuggire travestito da tedesco e con l’amante al seguito. Una cosa ridicola, miserabile, suggellata dall’ancor più miserabile scena di piazzale Loreto.
Avendo alle spalle queste cose qui, gli italiani erano davvero pronti a tutto. La gente non aveva una lira e per pochi soldi poteva entrare in queste sale buie dove prendevano forma racconti straordinari, al tempo stesso tragici e divertentissimi.
Noi rappresentavamo un paese con tratti grotteschi, assurdi, imbarazzanti, ridicoli, ma raccontavamo un’Italia che era sotto gli occhi di tutti: tutti – eccezion fatta ovviamente per la classe dirigente, gli esponenti del governo, gli intellettuali – erano d’accordo nello sbeffeggiare questa Italia, nel divertirsi prendendosi gioco di lei.

Oggi non è più così, perché coloro che si accorgono della miseria che ci circonda sono una minoranza. E infatti oggi si tende a raccontare un’Italia nella quale tutto va bene, sono tutti allegri e tutto si risolve sempre nel migliore dei modi. Penso a quei film tipo i cinepanettoni pieni di «divertimento», parolacce, gesti sconci e battute da quattro soldi. Questi sono film agli antipodi della nostra commedia: noi cercavamo di divertire aiutando nel contempo a decifrare in modo critico il presente. Questi film mirano a far dimenticare tutto, a obnubilare completamente le coscienze.
Naturalmente non mancano nel cinema italiano di oggi film che tentano di indagare con senso critico la realtà, ma i tentativi più riusciti – penso ad esempio a Gomorra – non si collocano nel genere della commedia.

Inoltre mi pare che manchi quel fermento creativo che attraversava il mondo del cinema negli anni d’oro della commedia all’italiana. Allora ogni film era come un focolare dal quale nascevano tanti altri incendi, tanti altri film. Oggi, invece, anche una grande pellicola non riesce a dare vita a un filone, a una linea di sviluppo e implementazione delle idee e degli spunti che vi sono contenuti.

Forse il benessere diffuso che oggi caratterizza l’Italia – nonostante la crisi e le difficoltà, oggi nessuno finisce più in mezzo alla strada, oggi nessuno ha più veramente fame, a nessuno manca più il cibo come succedeva dopo la guerra – ha spazzato via lo spirito di rivolta che c’era allora e quindi il furore creativo che sempre accompagna lo spirito di rivolta. Insomma, negli anni ’48, ’49, ’50, i cortei erano cose serie. Erano cose drammatiche in cui si rischiava la vita negli scontri con la celere. Oggi le manifestazioni sono grandi adunate musicali: ci si ritrova in piazza, si fanno un po’ di discorsi, poi comincia la musica e tutto si conclude lì.

Allora non c’erano le orchestrine: c’era gente che scendeva in piazza arrabbiata perché reclamava la terra e il lavoro. Quando i braccianti e gli operai organizzavano le occupazioni delle terre o gli scioperi non si presentavano con trombette e coriandoli, ma con bastoni e caschi, cercando di fare più casino possibile. E poi in parlamento i partiti di sinistra cercavano di tradurre politicamente tutta questa energia popolare per ottenere risultati concreti, avanzamenti tangibili delle condizioni materiali delle classi che rappresentavano.

Oggi la sinistra non c’è più e la società è sostanzialmente riconciliata con se stessa. E non mi riferisco qui solo all’Italia. È tutto l’Occidente a essere sazio del proprio benessere. L’unica sua preoccupazione è quella di chiudersi come in un bunker per impedire ad altri di riuscire a entrare e mantenere così invariati i nostri livelli di vita. Naturalmente questo atteggiamento è illusorio se proiettato nel lungo periodo: vediamo che piano piano l’asse del mondo si sta spostando a est e l’Occidente ha cominciato il suo declino. Ma è un declino che durerà a lungo così come a lungo durerà il torpore da benessere che lo caratterizza.

Per quanto in Italia le cose vadano male, tutti hanno un paracadute sul quale contare. Il più grande, il più pervasivo, il peggiore di tutti è la famiglia.
La famiglia è ormai diventata la tana in cui ci si rifugia scappando da un mondo di egoismi e sopraffazioni. Ma è una tana che serve ad alimentare ancora di più questa reciproca ostilità, perché ormai tutti si fidano solo dei quattro o cinque familiari che hanno intorno. Tutto deve essere sacrificato alla famiglia: qualsiasi cosa, qualsiasi malefatta può essere giustificata se serve a proteggerla o a farla prosperare. Sono diventate dei piccoli rifugi di bestie feroci nelle quali nessuno può entrare. Da collante sociale si sono trasformate in elemento fondamentale di divisione e reciproca ostilità.

Personalmente giudico questo passaggio talmente grave e importante che se dovessi scegliere oggi un soggetto sul quale girare un film, sceglierei proprio la famiglia. Comunque non ho alcuna intenzione di produrre alcunché: non ne ho più la forza; mi manca la «fantasia», per usare un’espressione romanesca che rende benissimo il rapporto fra energia e capacità creativa. Ma se devo ragionare così in astratto su un tema che mi piacerebbe trattare non posso che scegliere la famiglia. Si parla tanto in anni recenti della nascita della «famiglia allargata»: non mi pare proprio che sia così. Al contrario: si è chiusa, perché è aumentata la sua carica di ostilità nei confronti del mondo.
In un paese cattolico come l’Italia dire queste cose suona quasi blasfemo, ma è la verità. La Chiesa cattolica, purtroppo, ha sempre esercitato un ruolo nefasto per il nostro paese e – oserei dire – per la nostra civiltà.

Prima dell’avvento del cristianesimo avevamo società politeiste in cui ognuno si sceglieva con una certa libertà gli dei da pregare e ai quali votarsi. Intendiamoci: nessuna nostalgia verso società fondate sullo schiavismo e sulla sopraffazione dei più deboli. Tuttavia del mondo antico mi ha sempre affascinato il rapporto a mio avviso più equilibrato con la religione. Senza questa ossessione verso l’aldilà, il peccato, la dannazione eterna eccetera, che ci è piovuta addosso con il cristianesimo. Io considero l’avvento del monoteismo, e del cristianesimo in particolare, come una sciagura per l’umanità. L’ebraismo era sì una religione monoteista, ma era rappresentato da una piccola setta che non rompeva i coglioni a nessuno. È stato san Paolo, il cristianesimo, a seccare il mondo intero.

L’ho sempre pensata in questo modo, anche se nelle nostre commedie del dopoguerra la satira di carattere anticlericale e antireligioso non ci era consentita. Per questo nei nostri film sono molto scarsi i riferimenti alla religione. Oggi le cose sono cambiate e non sarebbe più un problema ironizzare in maniera anche molto pesante sulla Chiesa, i papi, i Padre Pio e compagnia bella. Ma, insomma… ormai non ne vale nemmeno più la pena. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa!
Quello è un mondo in disfacimento.

Oggi le battaglie che vanno fatte sono altre. Più che mai quella contro il capitale. Questo e il lavoro si sono fronteggiati in una guerra durata settant’anni che alla fine ha visto la vittoria del capitale. Oggi il capitale trionfante si presenta nella sua forma più feroce, libero da quei vincoli e quelle limitazioni che ne avevano mitigato le pulsioni allo sfruttamento all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando su pressione delle lotte del mondo del lavoro eravamo riusciti, bene o male, a edificare una società con una serie di diritti e tutele riconosciute.

Con il crollo dell’Urss è venuto meno il polo che per lungo tempo aveva rappresentato – pur con tutti i suoi limiti – un’alternativa al modello capitalista, ma sopratutto un deterrente per il capitale a forzare troppo la mano in Occidente. Il «pericolo» del comunismo ha rappresentato per le classi dominanti occidentali la ragione principale per concedere alle classi subalterne un tenore di vita tale da disinnescare eventuali tentazioni rivoluzionarie.

La Rivoluzione d’Ottobre ha rappresentato uno straordinario sogno di riscatto. Oggi si liquida quell’esperienza storica con troppo semplicismo. Fu un’esperienza grande e terribile. Furono commessi errori, furono consumate tragedie, ma dietro c’era un’idea di umanità nuova che certo non meritava una fine così ingloriosa, per mano di due cialtroni, due piccoli borghesi come Gorbacëv e sua moglie Raissa, con quegli assurdi cappellini. Hanno distrutto una cosa seria per lasciarci un cumulo di macerie.

E adesso ecco com’è il mondo sotto il pieno controllo del capitale. Ci piace questo mondo? È un bel posto dove vivere? Ci vorrebbe un’altra rivoluzione. Ma chi potrebbe farla? Mi dispiace, ma nei giovani di oggi non ho alcuna fiducia. Sono degli imbelli, non amano combattere e tanto meno rischiare, sono pronti a qualsiasi bassezza purché serva a conservare i loro miserabili privilegi.

fonte MicroMega

lunedì 29 novembre 2010

Nona edizione di Più libri più liberi a Roma


Tutte le novità della nona edizione di Più libri più liberi






In un momento in cui il mondo della cultura subisce continui tagli e vede sempre più ristretti i suoi spazi, i piccoli e medi editori vanno controcorrente, moltiplicando gli sforzi e le proposte in un impegno inarrestabile che trova in Più libri più liberi, la Fiera nazionale della piccola e media editoria, il momento di massima visibilità, con oltre 16.000 titoli in esposizione, presentati da 430 case editrici indipendenti.
I piccoli e medi editori hanno reagito alla crisi aumentando le opportunità per esordienti e scrittori affermati, dando voce a temi spesso trascurati, aggiungendo sempre nuove prospettive, nuovi spunti, nuovi stimoli. Un universo di storie, di scritture, di linguaggi, in cui ognuno può riconoscersi e ritrovarsi in tutta la sua unicità. Alla straordinaria offerta editoriale di Più libri più liberi, in programma al Palazzo dei Congressi di Roma dal 4 all’8 dicembre, si aggiungono i tantissimi appuntamenti che scandiscono ogni momento della Fiera per la possibilità di incontrare oltre 700 tra scrittori e protagonisti della cultura italiana e internazionale in più di 300 eventi. L’edizione 2010 si presenta quindi tutta caratterizzata dal segno più: più incontri, più ospiti, più marchi editoriali, più approfondimenti, più stand espositivi e soprattutto più giorni, ben cinque, per l’unica fiera nazionale in Europa dedicata esclusivamente alla piccola e media editoria.

GLI OSPITI - L’editoria indipendente conferma l’alto livello della proposta culturale anche attraverso la scelta degli ospiti che animeranno la Fiera, molti di calibro internazionale.
André Schiffrin, il “guru” dell’editoria indipendente, l’uomo che ha puntato il dito contro il rapporto fra Il denaro e le parole, lo spauracchio dei grossi gruppi editoriali statunitensi, una delle voci più importanti sul tema della libertà e della pluralità d’informazione, l’editore che ha ispirato un modo diverso di fare cultura sarà l’ospite d’eccezione che inaugurerà la Fiera con un’inedita intervista condotta da Marino Sinibaldi (4 dicembre, ore 11.00).
L’astrofisica Margherita Hack nell’incontro Leggere le stelle… con gli eBook (5 dicembre, ore 15), presenterà i vantaggi delle nuove tecnologie come veicolo di divulgazione scientifica.
Ancora scienza con James Hansen, tra i primi teorici del riscaldamento globale e attivista verde di fama mondiale, che nell’incontro Tempeste: il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti (4 dicembre, ore 19.30) disegnerà la mappa delle future catastrofi naturali a cui andrà incontro il pianeta se non cambieranno le politiche di salvaguardia dell’ambiente.
Per la prima volta a Roma, atteso a Più libri più liberi Howard Jacobson (5 dicembre, ore 16), il romanziere e saggista britannico vincitore del Man Booker Prize 2010, conosciuto e amato in tutto il mondo per i suoi personaggi disegnati con dissacrante ironia. In Fiera anche il vincitore del “Libro dell’anno nel 2008” degli ascoltatori di Fahreneit Radio3, il triestino Boris Pahor che porterà la commovente e sorprendente testimonianza di una vita che ha attraversato i momenti cruciali del Novecento (6 dicembre, ore 16), e il vincitore del Premio Strega 2006, Sandro Veronesi, in un incontro che saprà dare ai lettori nuove appassionanti chiavi di lettura del suo ultimo romanzo (4 dicembre ore 17).
Per ricordare Elvira Sellerio, leggendaria figura dell’editoria italiana scomparsa la scorsa estate, si ritroveranno tanti autori che hanno lavorato con lei, tra cui Andrea Camilleri e Adriano Sofri (4 dicembre, ore 18).
La tedesca Anne Wiazemsky, figura di spicco della narrativa europea, prima di approdare con successo alla scrittura è stata la protagonista di alcune tra le più struggenti pellicole di Jean-Luc Godard oltre che di Pasolini. In Fiera presenterà il suo ultimo libro La ragazza di Berlino (8 dicembre, ore 17) e per l’occasione sarà accompagnata da Muriel Barbery, autrice del best seller L’eleganza del riccio.
Un libro può segnare un percorso di vita e produrre inattese alchimie come quella fra Lucio Dalla e il filosofo Vito Mancuso grazie al saggio La vita autentica, in Fiera nella versione audiolibro (4 dicembre, ore 15). Uno spettacolo ha certamente cambiato la vita di Giulio Cavalli, il coraggioso attore nel mirino della mafia per averne denunciato gli sporchi affari nel monologo A cento passi dal Duomo di Milano, ora divenuto un libro (5 dicembre, ore 15).
Luoghi come simboli di cultura, di storia, di introspezione: dall’originale Guida alla Parigi ribelle, excursus nelle vicende e nei personaggi che hanno animato la capitale francese, presentato in Fiera da Serena Dandini e Miriam Mafai (6 dicembre, ore 12), al Sentiero degli Dei che unisce Firenze e Bologna, percorso e raccontato da Wu Ming 2 (5 dicembre, ore 16).
David Riondino e Stefano Benni interpreteranno a due voci l’esilarante racconto Pronto Soccorso e Beauty Case in una lettura-spettacolo tra musica e comicità (4 dicembre, ore 11). Ancora comicità nell’appuntamento con Faso, bassista di Elio e le Storie Tese, che presenterà la raccolta di poesie e aforismi decisamente sui generis Il visone ha una faccia enorme (4 dicembre, ore 20) e ancora musica con l’Orchestra di Piazza Vittorio, impegnata in uno show case sul Flauto Magico di Mozart (7 dicembre, ore 18.30).

IILA – Per il terzo anno prosegue la collaborazione fra Più libri più liberi e l'Istituto Italo-Latino Americano (IILA). In Fiera una ricca offerta di proposte legate alla cultura e alla narrativa latinoamericana, a partire dall’atteso incontro con Luis Sepulveda (5 dicembre, ore 14), il grande scrittore cileno, autore di libri tradotti in tutto il mondo, protagonista lo stesso giorno alle 17 insieme all’haitiano Louis Philippe Dalembert e ai connazionali Carmen Yañez e Santiago Elordi del focus Haiti/Cile/Abruzzo che investigherà l’impatto emotivo e culturale di un terremoto su popoli e luoghi così diversi e lontani. Due gli appuntamenti proposti dall’IILA con la scrittura latinoamericana: Donne che scrivono in paesi che emergono (6 dicembre ore 15) in cui si parlerà di scrittura femminile con cinque autrici provenienti da El Salvador, Guatemala, Honduras, Cile e Brasile e Narrativa Randagia (8 dicembre ore 14) con la testimonianza di intellettuali, artisti e scrittori da tutto il continente sudamericano.

NUOVE TECNOLOGIE – Ampio spazio agli approfondimenti dedicati alla comunicazione e all’espressione culturale attraverso le nuove tecnologie: ogni giorno nello spazio incontri del DigITAL Cafè, dalle ore 17 alle 19, un appuntamento per dialogare con i protagonisti dell’innovazione digitale che racconteranno la vita, l’arte, la letteratura, la politica nell’era di Internet. Il programma si aprirà con l’incontro con Derrick de Kerckhove (4 dicembre), uno dei massimi teorici dell’intelligenza artificiale, poi sarà la volta del focus sui Mondi Virtuali con l’artista Bryn Oh (5 dicembre), il rapporto fra Second Life e letteratura (6 dicembre), l’innovazione in Italia (7 dicembre) e a chiudere l’impatto dei social network sulla comunicazione politica con il Sindaco di Roma Gianni Alemanno (8 dicembre).

L’EDITORIA ALL’ALBA DEGLI eBOOK – Oltre che un evento dedicato al pubblico, Più libri più liberi è un vero e proprio laboratorio per gli editori, un luogo dove confrontarsi, crescere, sperimentare nuove strategie. Ecco perché anche quest’anno la manifestazione dedica ampi contenuti a chi vuole approfondire le tematiche di settore: editori, librai, bibliotecari, distributori, autori rifletteranno al DigITAL Cafè sul futuro dell'editoria all'alba dell'avvento dell'eBook per tracciare i contorni del prossimo avvenire. Durante i giorni della Fiera verranno scandagliati tutti i temi centrali del mondo del libro e del suo futuro: dalla lettura (4 dicembre) alla comunicazione e il mercato (5 dicembre), dalla distribuzione e il fenomeno eBook (6 dicembre) al lettore e il libro di domani (7 dicembre) per concludere l’8 dicembre con l’intervento di Stefano Mauri che ci racconterà come immagina “L'editore nel 2020”. La Fiera sarà anche l’occasione per diffondere i dati Istat 2010 sulla lettura in Italia (4 dicembre ore 15) e i dati del mercato 2010 (in particolare per i piccoli e medi editori) con l'indagine NielsenBookScan (5 dicembre ore 15). Anche quest’anno è confermata inoltre la presenza degli editori stranieri grazie alla collaborazione con l’ICE Istituto Nazionale per il Commercio con l’Estero. 15 tra editori e agenti provenienti da tutto il mondo incontreranno le realtà editoriali della Fiera per uno scambio di diritti d'autore con gli editori italiani di riferimento. Sono confermati gli statunitensi, sempre molto apprezzati, e novità di questa edizione è la presenza di rappresentanti di Grecia e Turchia, in Fiera per la prima volta.

SPAZIO RAGAZZI – Oltre 400 mq dedicati ai piccoli visitatori, quasi 50 appuntamenti tra presentazioni, laboratori didattici e spettacoli, centinaia di libri nella bibliolibreria ragazzi: a Più libri più liberi un ampio programma dedicato esclusivamente ai più giovani. Quest’anno il tema del progetto Più libri Junior sar�Storie che fanno eco, una “sfida letteraria” sul tema del rispetto dell’ambiente tra i ragazzi fra i 9 e 14 anni, i racconti migliori verranno trasposti in illustrazioni, realizzate dagli studenti della Scuola Internazionale di Comics, e presentati in Fiera. Ad arricchire ulteriormente il programma per i più giovani tre mostre di illustrazioni tutte dedicate al tema Alfabeti/Abbecedari/Immaginari: Bambini dalla A alla Z. Il mondo dell’infanzia visto da Nikolaus Heidelbach, uno spaccato non convenzionale dell’immaginario infantile, L’Alfabeto delle Fiabe con le immagini dell'illustratrice Antonella Abbatiello, i testi di Bruno Tognolini e un grande gioco dell’oca dedicato a tutti i bambini ed infine Le avventure di Octave, tratto dall’omonimo fumetto creato da Chauvel, Walter e Alfred, quest’ultimo anche presente in Fiera (8 dicembre ore 12). E ancora, da non perdere, I mestieri di chi produce contenuti: quattro incontri, a cura di AIE, dedicati a editoria, musica, cinema per far capire ai ragazzi (delle scuole superiori) il ruolo di discografici, editori, produttori cinematografici. E quale e quanto lavoro si nasconde oggi dietro a un libro, un film, un disco.

EDITORI IN BIANCO E NERO – Novità dell’edizione 2010 di Più libri più liberi sarà la rassegna cinematografica Editori in bianco e nero, dedicata alla storia dell’editoria italiana. Ogni giorno, dalle 19 alle 20, si alterneranno filmati di personaggi illustri dell’editoria italiana, cinegiornali degli anni ’50 e ’70 su fiere del libro e librerie, e altri video realizzati dalle stesse case editrici per documentare la loro attività e raccontare la loro storia, mostrando nello specifico tutto il processo editoriale. Le immagini, recuperate nella Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano e nell’Archivio Storico di Cinecittà Luce, rappresentano – specie per i più giovani – una preziosa testimonianza della storia della cultura e dell’industria italiana: dalla nascita di alcune case editrici al confezionamento dei libri negli anni ’30 fino ai grandi personaggi del mondo del libro.

DATI ECONOMICI – In un momento di crisi economica, la piccola e media editoria non solo mantiene il proprio fatturato ma riesce ad incrementarlo rispetto al fatturato totale del settore passando dal 35,4% del 2008 al 35,6% del 2009 rosicchiando quote di mercato grandi editori. Gli editori indipendenti inoltre aumentano anche numericamente: rispetto al 2008 ci sono in Italia 141 marchi in più con un aumento del 6%.

Più libri più liberi è organizzato dall’Associazione Italiana Editori (AIE) con il sostegno di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per i beni librari, gli istituti culturali e il diritto d’autore con il Centro per il libro e la lettura, Comune di Roma – Assessorato Politiche culturali, Provincia di Roma – Assessorato Politiche culturali, Regione Lazio – Assessorato alla Cultura ed Assessorato alle Attività produttive e Camera di Commercio di Roma e in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio, l’Istituzione Biblioteche di Roma, l’ICE – Istituto Nazionale per il Commercio Estero, l’azienda per i trasporti capitolina Atac, Radio 3 Fahrenheit, IBS – Internet Bookshop e in partnership con l’ALI – Associazione Librai Italiani e l’IILA – Istituto Italo-Latino Americano.

INFO
Orari: sabato e martedì 10 – 21, domenica, lunedì e mercoledì 10 – 20.
Biglietti: il prezzo del biglietto intero è di 6 euro. Ridotto è di 3 euro (ragazzi tra i 15 e i 18 anni e visitatori oltre i 65 anni). Ridotto convenzionato di 4 euro (possessori di abbonamento e biglietto METREBUS obliterato, tessera Bibliocard, Cartagiovani). E’ gratuito per i ragazzi fino a 14 anni, per le classi accompagnate e per i visitatori professionali. Lunedì 6 e martedì 7 dicembre ingresso gratuito per gli studenti universitari.

sabato 27 novembre 2010

''Pazza idea'' Visioni di normale follia tra arte e letteratura


Antonia Pozzi per concessione di Onorina Dino

I presìdi del libro della Sardegna presenta

Pazza idea
Visioni di normale follia tra arte e letteratura

Cagliari, Centro comunale d’arte e cultura Il Ghetto

dal primo al 5 dicembre 2010 – ore 21

Si intitola Pazza idea. Visioni di normale follia tra arte e letteratura la rassegna che l’associazione Presìdi del libro della Sardegna presenta dal primo al 5 dicembre nel Centro comunale d’arte Il Ghetto, a Cagliari.

L’iniziativa si articola in cinque incontri di riflessione sulla quotidiana follia attraverso la musica, la poesia, la fotografia, il cinema, l’architettura e il teatro.

Cinque incursioni narrative per esplorare il modo in cui lo sguardo inquieto che arte e letteratura ci offrono modifica i confini della follia, e rivela come estraniante ciò che è definito normale.

Fra gli ospiti della rassegna, la regista Alina Marazzi (suo il premiato Un’ora sola ti vorrei); lo scrittore e cantautore Marco Rovelli, autore, fra gli altri del libro Lavorare uccide; Saverio Tommasi, attore e scrittore; Paolo Berdini e Gianni Biondillo, rispettivamente urbanista e architetto; e infine Graziella Bernabò e la regista Marina Spada che ripercorreranno l’opera e la figura della poetessa Antonia Pozzi.

Maschere per barbarie quotidiane. Il volto della realtà attraverso storie e misfatti raccontati e videonarrati nel teatro civile.
Con Saverio Tommasi, attore e scrittore.
Conduce Marco Dotti, docente alla facoltà di Comunicazione interculturale e dei media dell’Università di Pavia. Scrive per Il Manifesto, Alias, l’Indice dei Libri. Ha curato e tradotto testi di Antonin Artaud, Jean Genet, Jean Cocteau, Léon-Paul Fargue, Catherine Pozzi. Autore di Luce nera. Strindberg, Paulhan, Artaud e l’esperienza della materia (Medusa, Milano 2007).

Maschere per barbarie quotidiane. Il volto della realtà attraverso storie e misfatti raccontati e videonarrati nel teatro civile.
Con Saverio Tommasi, attore e scrittore.
Conduce Marco Dotti, docente alla facoltà di Comunicazione interculturale e dei media dell’Università di Pavia. Scrive per Il Manifesto, Alias, l’Indice dei Libri. Ha curato e tradotto testi di Antonin Artaud, Jean Genet, Jean Cocteau, Léon-Paul Fargue, Catherine Pozzi. Autore di Luce nera. Strindberg, Paulhan, Artaud e l’esperienza della materia (Medusa, Milano 2007).
La rassegna, ideata e progettata da Emilia Fulli e Mattea Lissia, traccia un percorso su come arte e letteratura evidenzino un punto di vista di rottura su ciò che è comunemente pensato come "folle" o "fuori luogo", svelandoci alcuni dei paradossi in cui viviamo.

La follia di una società che non è in grado di comprendere il disagio delle persone, a volte passeggero, e lo confina in strutture preposte alla cura della “malattia mentale”, portando l’individuo sempre più lontano da sé e dai suoi affetti.

Le follie che affliggono il nostro Paese dove si può morire per lavoro, o nel tentativo di raggiungere questa nostra terra; dove il volto della realtà è spesso coperto dalla maschera dell’ipocrisia o anche più semplicemente dell’ignoranza; dove la città perde progressivamente il suo carattere fondante di luogo nato per aggregare e rendere più fluidi i rapporti e, a causa di uno sviluppo edilizio miope, rischia di essere sempre più un non-luogo. Uno sguardo sulla contemporaneità che può essere aiutato anche dal confronto col passato e con figure di intellettuali senza tempo.

In una visione critica, la “pazza idea” diventa allora quella condivisa e accettata come regola del quotidiano.

La rassegna è sostenuta dalla Regione autonoma della Sardegna e dalla Fondazione Banco di Sardegna, e realizzata in collaborazione con il Consorzio Camù, la libreria Primalibri e il Ristorante 51.

IL PROGRAMMA

Tutti gli appuntamenti si terranno, a partire dalle ore 21 nella Sala delle Mura, del Centro di via Santa Croce 18, con ingresso libero.

Si inizia mercoledì 1 dicembre con l’incontro dal titolo Un posto nel mondo che sarà aperto da una conversazione con Alina Marazzi, regista di documentari narrativi (Un’ora sola ti vorrei, Vogliamo anche le rose, Per sempre). Conduce Giovanna del Giudice, psichiatra, autrice di pubblicazioni sul rapporto tra disagio mentale e differenze di genere. Al termine sarà proiettato il film Un’ora sola ti vorrei [55 min., Italia 2002], una storia intima e privata di malessere al femminile, raccontata con forza e poesia, in un montaggio sapiente e singolare.

Voci dall’oblio è il tema della seconda giornata, che si svolgerà giovedì 2 e che vedrà protagonista Marco Rovelli, scrittore e musicista, giunto alla notorietà nel 2006 con il libro Lager italiani, un reportage narrativo interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea. A Cagliari presenta il nuovo progetto dal titolo LibertAria in cui fa confluire i temi affrontati nei suoi libri (Servi, Feltrinelli 2009, Lavorare uccide, BUR 2008, Lager italiani, BUR 2006) nelle storie cantate: le vite dei migranti, i morti sul lavoro, i campi rom, vecchie e nuove Resistenze.

Il teatro civile è al centro del programma di venerdì 3 dal titolo Il circo delle verità. La realtà delle barbarie quotidiane sarà raccontata attraverso storie e misfatti dall’attore e scrittore Saverio Tommasi. L’artista toscano, portatore di un nuovo modo di fare teatro civile, le cui incursioni ironiche e taglienti spopolano sulla rete, sarà intervistato da Marco Dotti, giornalista e autore di numerose pubblicazioni sul teatro del Novecento (Antonin Artaud, Jean Genet, Jean Cocteau, Léon-Paul Fargue, Catherine Pozzi).

Pazzi senza terra è il suggestivo titolo della quarta giornata (sabato 4) in cui si parlerà del paradosso delle città intese come luoghi di smarrimento del valore della collettività. Protagonisti della serata saranno l’urbanista e scrittore Paolo Berdini (La città in vendita. Centri storici e mercati senza regole Donzelli, 2008) e lo scrittore e architetto Gianni Biondillo autore di Metropoli per principianti (Guanda, 2008) e altri titoli sul tema. Condurrà Giorgio Todde, presidente dell’associazione Presìdi del Libro della Sardegna.

Ad Antonia Pozzi (Milano 1912 - 1938), poetessa e fotografa morta suicida, è dedicata la serata di chiusura domenica 5 dicembre. Figura di intellettuale fuori dal contesto, su di lei anche Thomas Eliot e Eugenio Montale si espressero con grande favore sottolineando la purezza e l’onestà delle sue liriche. La vita e l’opera della Pozzi saranno illustrate da Graziella Bernabò, sua biografa e curatrice, insieme a Onorina Dino, della più ampia raccolta di poesie e testi della Pozzi, e Marina Spada, regista del film Poesia che mi guardi, presentato al Festival di Venezia nel 2009, ispirato all’opera e alla figura della poetessa transitata e riattualizzata nel presente. Al termine, proiezione del film Poesia che mi guardi [50 min., Italia 2009]

Si ricorda che il pubblico non residente nel quartiere di Castello potrà circolare e sostare con le autovetture non oltre le ore 24.

INFO: www.presididellasardegna.org

UFFICIO STAMPA

Giuseppe Murru/ Michela Seu - tel. 3478659047 - giuseppemurru@yahoo.it

''Ai confini del mondo'' e ''La lobby di Dio''



Ai confini del mondo

Posted: 26 Nov 2010 04:17 AM PST

In libreria dal 26 novembre 2010

Ai confini del mondo
Il viaggio, le inchieste, la vita di un reporter non comune.
Un libro di Giorgio Fornoni.
Un film di Gianandrea Tintori
Collana Dvd+libro
Pagine libro: 176,
Durata film: 60 minuti
euro 18,60 €

La scheda

“Giorgio Fornoni seguiva i missionari sparsi per il mondo e girava tutto come un professionista consumato. Quando ho visto il suo materiale sono rimasta sbalordita. Aveva fatto in dieci anni quello che un professionista realizza in un’intera carriera. Una vera scoperta.” Milena Gabanelli

“Giorgio Fornoni ha viaggiato in tutto il mondo e avuto esperienze incredibili. È tutto fuorché un uomo comune e ordinario.” Valerio Massimo Manfredi

“Da quando ho votato la mia vita a restituire dignità ai più deboli, la lunga chioma scapigliata, il pizzetto e il sorriso meraviglioso di Giorgio, con la sua inseparabile videocamera, sono una presenza costante.”Dominique Lapierre

Giorgio Fornoni vive ad Ardesio, piccolo paese in provincia di Bergamo. Scoperto da Milena Gabanelli, dal 2000 collabora con REPORT. È autore di inchieste e reportage dalle prime linee dei conflitti nel mondo. Ha intervistato negli anni il Dalai Lama, Anna Politkovskaja (nel dvd un’intervista inedita realizzata nella sede della “Novaja Gazeta”), George Coyne (gesuita e direttore della Specola Vaticana), Rigoberta Menchú, Shirin Ebadi e altre figure di primo piano della cultura mondiale. Nel film sono raccolti alcuni fra i suoi principali scoop e interviste, insieme al racconto in prima persona di un reporter che per anni ha testimoniato l’ingiustizia e la violenza non per interesse giornalistico ma per documentare la sofferenza dell’uomo e la stupidità di ogni guerra.

IL DVD
Un film di Gianandrea Tintori
Fotografia di Matteo Valle
Musiche di Massimo Gardella

“Ho paura, ma questa è la mia professione. Avere paura è una cosa tua personale. Ciò che conta veramente è dare voce alla gente, raccontare la grande tragedia del nostro paese. Perché la gente muore, ogni giorno si consumano orrori indescrivibili. E avere paura o non averne poco importa. È il rischio di questa professione.” Anna Politkovskaja

"Ai confini del mondo" parte da Ardesio, piccolo paese in provincia di Bergamo, tra le montagne della Val Seriana. Abbiamo incontrato e ascoltato Giorgio Fornoni, un reporter indipendente che negli ultimi trent’anni ha percorso più volte la distanza che separa la Terra dalla Luna. Con un’idea molto particolare di giornalismo: documentare e testimoniare le guerre nel mondo con l’attenzione indirizzata principalmente all’uomo che soffre e non alla geopolitica o ai grandi interessi internazionali.
Molti dei suoi principali reportage sono raccolti nel film. Fornoni ha fatto del giornalismo un modello esistenziale, animato da una profonda ricerca di sé nella sofferenza, nella speranza, nella rinuncia, nella pietà, nelle tante disposizioni cristiane che oggi non potrebbero essere più lontane dall’Occidente. Un giornalismo quasi mistico, con la videocamera puntata sul mondo e l’anima rivolta all’universo.

Contenuti extra:
Interviste inedite: Dalai lama (Dharamsala, 1999); Anna Politkovskaja (Mosca, sede della “Novaja Gazeta”, 2003); George Coyne (astronomo e gesuita, direttore della Specola Vaticana dal 1978 al 2006; Roma, 2009).

Filmati inediti:
La raccolta dell'oppio in Laos.
Fotogallery a cura di Matteo Valle.

Gianandrea Tintori (1972) è filmmaker e montatore cinematografico. Il suo sito è www.gianandreatintori.com


IL LIBRO
Ai confini del mondo. Il viaggio, le inchieste, la vita di un reporter non comune
Prefazione di Dominique Lapierre.
Postfazione di Valerio Massimo Manfredi.

Difficile definire Giorgio Fornoni. È tutto fuorché un uomo comune e ordinario. È abbastanza pazzo da credere che gli ideali possano prendere corpo e si comporta di conseguenza. Per questo, quando seppi che era stato eletto sindaco, immaginai come sarebbe andata a finire. Un piccolo centro sarebbe stato il campo ideale per sperimentare l'elogio della pazzia, per fare da laboratorio a un bellissimo esperimento. E invece gli interessi hanno conciliato contro di lui l'inconciliabile. E allora re Giorgio I è caduto. Viva il re!". Valerio Massimo Manfredi, dalla postfazione

Negli ultimi dieci anni ho percorso in lungo e in largo la Russia e la Siberia; l’intero continente africano; l’Asia, dalla Cina all’India, l’Afghanistan, il Pakistan, l’Iran, il Kazakistan; e poi gli Stati Uniti, il Centro e il Sud America, e molto altro ancora.
I momenti di pericolo sono stati tanti. Per esempio quando il Kgb mi ha preso davanti al centro di ricerca sulle armi biologiche più grande al mondo, negli Urali, accusandomi di essere una spia, o quando sono andato a intervistare i capi guerriglia in Africa.
La situazione più scioccante l’ho vissuta senz’altro in Texas, quando ho assistito all’esecuzione di un condannato a morte tramite iniezione letale. Ho ancora negli occhi l’ultimo spasmo di quell’uomo. E poi, in mezzo ai bombardamenti fra i taliban e Massud, in Afghanistan: grida, spari e terrore.

A chi mi chiede ‘Come fai a sopportare tanta sofferenza?’ rispondo che preferisco affrontarla e trovare momenti di umanità piuttosto che mettere a tacere la coscienza disinteressandomi di ciò che succede lontano da me.”

Giorgio Fornoni è reporter indipendente dal 1975. Scoperto da Milena Gabanelli nel 1999, dal 2000 collabora con la redazione di REPORT. Dal 2009 fino all’ottobre del 2010 si è occupato da vicino, in qualità di sindaco, del piccolo paese in provincia di Bergamo in cui vive da sempre.


Rassegna stampa


Presentazioni con l'autore
Clusone, 26 novembre, ore 21
c/o Sala Legrenzi, Palazzo Marinoni Barca (sede del MAT, Museo Arte e Tempo), via ClaraMaffei 3, Clusone, ore 21.00. Organizzazione a cura di Età Beta. Scarica la locandina.
Varese, 28 novembre, ore 17.45
Partecipa Vittorio Colombo.
C/o Libreria Feltrinelli, C.so A. Moro 3





La lobby di Dio. La prima inchiesta su Comunione e Liberazione

Posted: 26 Nov 2010 01:08 AM PST
Ferruccio Pinotti presenta "La lobby di Dio". Fede, affari e politica: la prima inchiesta su Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere.




La lobby di Dio
Fede, affari e politica. La prima inchiesta su Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere
di Ferruccio Pinotti
con la collaborazione di Giovanni Viafora
Collana Principio attivo
Pp. 480 - euro 16,60

La scheda del libro

"Una Chiesa privata, ben sintonizzata con gli umori della destra italiana e dominata dall'affettuosa confidenza con banchieri e imprenditori."
Gad Lerner, "la Repubblica", 28 agosto 2010.

Più potente dell’Opus Dei, più efficiente della massoneria.Questo libro racconta per la prima volta dall’interno come funzionano Comunione e liberazione e il suo braccio finanziario, la Compagnia delle opere (una rete di più di 34.000 imprese, un fatturato complessivo di almeno 70 miliardi di euro). Un potere che sembra inarrestabile. “Questo nostro modello conquisterà l’Italia” ha detto Roberto Formigoni. Il modello, in gergo ciellino, si chiama “amicizia operativa”. E oggi sempre più imprese, complice la crisi finanziaria, si avvicinano a Cl per godere dell’ombrello protettivo della Compagnia delle opere.

In questo libro si propone la prima vera inchiesta su Cl: i rapporti del movimento con Berlusconi fin dagli anni Settanta (nel 1978 nasce “Il Sabato”, il settimanale di Cl finanziato dall’attuale premier), i legami con la sinistra (Bersani al Meeting di Rimini 2003: “Solo l’ideale lanciato da Cl negli anni Settanta è rimasto vivo”) e con la Lega Nord. Dall’università alla scuola, alla sanità, alla finanza, all’edilizia, ai servizi sociali e all’assistenza, quello legato a Cl è un business che vale miliardi di euro e seduce tutti, imprenditori, politici e uomini d’affari. Non senza conseguenze giudiziarie, come dimostrano le inchieste Oil for Food, Why Not, La Cascina, oltre a quella della Procura di Padova sui fondi Ue o i procedimenti che
hanno toccato la sanità lombarda.

Un viaggio tra i membri di Comunione e liberazione, con interviste esclusive ad alcuni appartenenti ai Memores Domini, i “monaci guerrieri” che praticano la castità e vivono in residenze comuni, secondo uno stile di vita che molto ricorda quello dei numerari dell’Opus Dei (Formigoni è il più illustre tra i Memores Domini). La testimonianza dura e lucidissima di un fuoriuscito dal movimento (“Dovevo allontanarmi da questa situazione tossica”) e quella di uno psicoterapeuta che ha conosciuto molti militanti di Cl e ne racconta fragilità e paure (“La dipendenza che crea è molto profonda”) restituiscono il ritratto spiazzante e veritiero di una lobby affamata di potere.

La lobby di Dio
di Ferruccio Pinotti
con la collaborazione di Giovanni Viafora
Collana: Principio attivo
Prezzo: 16,60 €
Pagine: 480

venerdì 26 novembre 2010

ALGUER CULTURA

Produzioni, Promozioni e Diffusioni Culturali

Dopo l’incoraggiante ed entusiastico riscontro avuto con l’avvio della VIa stagione consecutiva, Pier Luigi Alvau continua il 29 novembre prossimo alle 20:30 ad Alghero, Sala “Manno”, Via Marconi n. 10 col calendario dei suoi Lunedì con la Poesia.

In programma il recital interamente dedicato a Guillaume Apollinaire, con opere tratte da Alcools, Calligrammes, Poèmes a Lou, Poèmes a Madelaine e Poèmes Retrouvés (*) Le traduzioni sono di Giorgio Caproni.

La voce femminile che affiancherà Pier Luigi Alvau in questa occasione sarà quella di Dely Farina.

(*) In questa scelta di poesie, ricreate in italiano dal genio lirico di Giorgio Caproni, troviamo alcuni dei vertici di Guillaume Apollinaire (1880-1918), e un meraviglioso ritratto della sua versatilità: dai ritmi cadenzati delle canzonette popolari alle atmosfere leggendarie delle ballate renane, alla sperimentazione grafica dei calligrammi. Apollinaire è un poeta giocoliere, audace sperimentatore e al tempo stesso creatore di classici equilibri tra parola e pensiero, sempre sospeso fra tradizione e invenzione, fra ordine e avventura.

Al Novecento e ai secoli futuri questo multicolore maestro ha consegnato un modello di libertà stilistica e di anticonformismo morale, nonché l’esempio di una vita in cui esperienza e fantasia entrano in una sintesi originale. Difficilmente si troverà un altro poeta in cui vita e arte, giustificandosi a vicenda, siano unite così saldamente. L’autobiografismo di Apollinaire mostra anche ai più convinti sostenitori dell’autonomia dell’opera d’arte che la radice di ogni grande creazione affonda nella storia vissuta, e che il tempo della poesia è l’avvenire, dove ogni provvisorietà è trascesa nella dimensione inalterabile del mito.

Dove: Alghero, Sala “Manno”, Via Marconi n. 10

Quando: Lunedì 29 novembre 2010, ore 20,30

Info: Alguer Cultura

tel. 349 3049093

e-mail: alguer.cultura@tiscali.it

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ALGUER CULTURA

Produzioni, Promozioni e Diffusioni Culturali

Via Nuoro n. 8 - 07041 ALGHERO tel. 349 3049093 e-mail: alguer.cultura@tiscali.it

PROGRAMMA

da ALCOOLS

  • Zona
  • Il ponte Mirabeau
  • La canzone del maleamato
  • La casa dei morti
  • Il viaggiatore
  • la bianca neve
  • L’addio
  • Le campane
  • Il fidanzamento

da CALLIGRAMMES

  • Ombra
  • Fotografia
  • Desiderio
  • Meraviglia della guerra
  • Il canto d’amore
  • Cavalli di frisia
  • Caposezione

da IL Y A

  • Torbiere di Vallonia

da POÈMES A LOU

  • Andando in cerca di granate

da POÈMES A MADELEINE

  • La trincea

da POÈMES RETROUVÉS

  • L’assassino
  • Amica mia penso a te…