La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

mercoledì 23 gennaio 2013

Venerdì 25 gennaio 2013 Doppio appuntamento per La cella di Gaudì

Venerdì 25 gennaio 2013
Doppio appuntamento per La cella di Gaudì
Ovodda
in collaborazione con il Comune di Ovodda e Associazione Culturale “Punti di Vista”
presso la sala consiliare di via Sassari 3, inizio alle ore 17.30
partecipano tra gli autori Nicolò Migheli e Giampaolo Cassitta, accompagnati da alcuni dei ragazzi della Colonia Penale di Isili
Pula
in collaborazione con il Comune di Pula e la Pro Loco, nella cornice della manifestazione l'AperiLibro
presso il Centro Culturale Casa Frau, inizio ore 19.00
partecipano tra gli autori Pietro Picciau, Michele Pio Ledda, Fabrizio Fenu, accompagnati da alcuni dei ragazzi della Colonia Penale di Isili
al termine dell'evento sarà offerto un aperitivo
Il libro nasce dalla collaborazione tra Arkadia Editore, il Ministero della Giustizia, l'Associazione Culturale Il Colle Verde, Galeghiotto, Carpe Liber. 
Un'opportunità per capire, indagare, conoscere l'universo carcerario da un altro punto di vista.
Un libro vero, piacevole, scritto per tutti.
Dodici autori incontrano altrettanti detenuti. Dal confronto e dal dialogo nascono i racconti della presente antologia introdotti da una prefazione di Marcello Fois. Vite all’estremo, episodi di disperazione, frammenti di passato che si intrecciano e sono rielaborati con la mediazione dell’arte letteraria. Uno scorrere di emozioni, ricordi, a volte struggenti, a volte simpatici, che ci introducono a un mondo sconosciuto, in un flusso continuo e ritmato in cui passiamo dalle vicende del “Bulgaro” o del rumeno Pavel a quelle di Mohamed, in un melting pot che ci accompagna in giro per il mondo, tra fedi e popoli di ogni natura. Nato dalla collaborazione con diverse associazioni, il progetto ci conduce direttamente nel cuore di ogni singolo uomo e donna che ha la ventura di trascorrere parte della sua esistenza dietro le sbarre, indagandone sentimenti, desideri e speranze.
Hanno preso parte all’antologia: 
Salvatore Bandinu, Michela Capone, 
Giampaolo Cassitta, Fabrizio Fenu, Marcello Fois, Michele Pio Ledda, 

Savina Dolores Massa, Paolo Maccioni, Nicolò Migheli, Anthony Muroni, Claudia Musio, Pietro Picciau, Gianni Zanata.


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Arkadia Editore srl
viale Bonaria 98 - 09125 Cagliari

Sara Levi Nathan I Rosselli e le miniere del Monte Amiata a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Maurizio Mambrini, Lucio Niccolai

Sara Levi Nathan

I Rosselli e le miniere del Monte Amiata

a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Maurizio Mambrini, Lucio Niccolai · Scheda del Libro

sabato 26 gennaio 2013, ore 16:30
Sala Cinema Comunale, Castell’Azzara (GR)
in occasione di Una Miniera di Storie, giorno della memoria.
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Il ritorno al passato è "Il Dono" per esorcizzare l'orrore della guerra

H.D. e la copertina de "Il Dono" H.D. e la copertina de "Il Dono" 

Il ritorno al passato è "Il Dono" per esorcizzare l'orrore della guerra

di Andrea Curreli
La storia de Il Dono (Iacobelli editore, 2012) appare come la cronaca di una sfida al tempo. Questo romanzo fortemente autobiografico è stato scritto da Hilda Doolittle, meglio nota come H.D.,  tra il 1941 e il 1945 in una Londra devastata dalla Seconda guerra mondiale e sfregiata dalle bombe naziste. E' stato pubblicato postumo nel mondo anglosassone nel 1982, mentre è arrivato oggi in Italia con trent'anni di ritardo. Il libro contiene gran parte degli elementi che compongono una figura complessa come quella di Doolittle. Questa poetessa, americana d'origine ed europea d'adozione, è stata una delle grandi protagoniste della scena culturale dei primi anni del Novecento. Fervente sostenitrice della corrente imagista-modernista, che sosteneva la necessità di utilizzare un linguaggio chiaro. "In un istante si presenta un complesso intellettuale ed emotivo" sosteneva Pound. Libera e bisessuale, Doolittle fu amata e ammirata sia dall'autore de I Cantos  che dalla  poetessa Annie Winifred Ellerman.
Ritorno alle origini per esorcizzare il "terrore mortale" - Arriviamo al romanzo scritto da Doolittle in un momento di massima tensione emotiva provocata dalle bombe che piovono su Londra ("una bomba pronta a esplodere si era fatta strada come una talpa sotto il bordo del marciapiede, a pochi metri dalla mia porta di casa... Gli aerei si susseguono uno alla volta, cosicché la mente rimane ancora nella morsa del terrore mortale"). La poetessa cerca di esorcizzare la paura con un ritorno alle origini e alla rigida società che la comunità dei moravi aveva creato in Pennsylvania fondando la piccola città di Bethlehem. La figura del padre, il professore di astronomia Charles Doolittle, viene ricordata con gli occhi di una bambina: "Papà usciva la notte per andare a guardare le stelle. Le misurava; o misurava qualche cosa: non sapevamo bene che cosa". E lo stesso accade per la madre, un'ex insegnante di musica. "Mamma mi raccontò che aveva sentito una voce dietro la porta di una delle classi vuote... Mamma non cantò mai più, anche se quando parlava la sua voce aveva una qualità rara, così profonda e ricca e vibrante", scrive H.D..
America ed Europa oltre le divisioni dei confini nazionali - Sullo sfondo di questi ricordi ci sono gli echi ormai lontanissimi della Guerra di secessione americana, dei soldati grigi e blu, degli schiavi neri costretti alla frusta e ai cani rabbiosi. Ma ci sono anche le trasformazioni sociali ed economiche che stanno stravolgendo l'antica impostazione religiosa della cittadina. "Una nuova Betlemme, attiva, aggressiva, si stava sviluppando accanto alle acciaierie. Il fuoco di quelle fornaci lampeggiava, cremisi, di notte tra il fiume e le montagne...La fila delle fonderie si allungava ogni giorno di più, e c’era un’intera colonia di polacchi, o forse ungheresi, o svedesi. Erano venuti per lavorare nelle fabbriche". Il rivolgersi al passato (l'infanzia in Pennsylvania) non impedisce ad H.D. di manifestare le sue idee sul presente. Un'idea sicuramente "controcorrente" in un 'Europa che i nazionalismi hanno trascinato per due volte in pochi anni negli orrori della guerra. "I confini nazionali non esistono... Piuttosto, quello che sta succedendo sembra uscito dalla Bibbia di Doré - afferma in un passaggio de Il Dono -. Non credo alle banalità giornalistiche sullo scontro tra le nazioni".
Il misterioso Dono dai molteplici significati - Il filo conduttore che lega questi salti temporali è un misterioso "dono", utilizzato come sinonimo di principio ma non solo. "Il Dono c’era, ma l’espressione del Dono era altrove. Giaceva sepolto sotto terra. In paesi più antichi del nostro", scrive agli inizi del romanzo. "Deve esserci un principio, c’è un Dono in attesa, qualcuno deve ereditare il Dono che ci ha solo sfiorato. Qualcuno deve rivelare segreti di pensiero che introducono un nuovo elemento nella combinazione", aggiunge più avanti. Ma il termine racchiude più livelli, come spiega Marina Vitale nella prefazione del testo. "Il titolo del romanzo è uno di quei vocaboli che, come spesso accade alle parole usate da H.D., contengono una stratificazione di significati che si offrono alla decifrazione come dei rebus, o dei criptogrammi. Questa parola compare nel romanzo in molte accezioni", scrive Vitale.

 

martedì 22 gennaio 2013

L’ennesima riprova


L’ennesima riprova.
Saldi, sconti & ribassi.
Voci dai camerini di un grande magazzino.
Lui è dentro, prova alcuni capi d’abbigliamento. La ragazza lo attende fuori, è impegnata a scrostarsi lo smalto dalle unghie. Ogni tanto fa scoppiare una bolla con la gomma da masticare.
Lui a un certo punto si mette a sbraitare.
- Questa roba fa cagare! Cess! Fa proprio cagare!
Lei si avvicina, scosta la tendina.
- Cosa c’è, amore?
- Pitticca sa cagara! Quando la vedi sui manichini sembra tutta roba figa, poi la indossi e fa cagare!
Lei lo guarda, sorride pacata, fa scoppiare un’altra bolla.
- Su di te, amore – dice. – È su di te che fa cagare.

vetrina

Quelle brave canaglie del cortile accanto, di Gianni Zanata




Quelle brave canaglie del cortile accanto

[Riceviamo e pubblichiamo da Gianni Zanata, giornalista e scrittore sardo, un racconto tra periferia e mitografia cagliaritana. Per scelta editoriale i termini in sardo (casteddaio) sono lasciati volutamente senza traduzione. Se ne avete bisogno, chiedetecele al bot su Twitter o qui sotto nei commenti. Se poi vorranno essere i lettori sardi a fornire le traduzioni, ancora meglio]
di Gianni Zanata
Ho vissuto la mia infanzia in un cortile: era un trapezio d’asfalto grigio e corroso, delimitato da palazzi alti, case popolari, tante finestre e pochi balconi. Segni caratteristici: buche a volontà, polvere, sterpaglie, tre alberi spogli, e spazzatura all’occorrenza. Era un campo di calcio, era un teatro di disfide. Un po’ giungla urbana e un po’ terra di mezzo.
Per me e i miei amici – rappresentanti di un modello di gioventù tutt’altro che impeccabile – per noi piccole, brave canaglie, era semplicemente Il Cortile: la nostra patria.
foto di Gigi Riva che gioca a pallone con alcuni bambini nel quartiere Marina
Gigi Riva gioca a pallone con alcuni bambini nel quartiere Marina


C’era Flavio, detto Arrùbiu, spilungone dalla capigliatura riccia e biondastra. Era dotato di un colpo di testa straordinario e faceva buon uso delle sue qualità acrobatiche, sia per insaccare palloni nella porta avversaria sia per buttar giù gli avversari scorbutici. Una volta lo vidi fare simultaneamente entrambe le cose. E come al solito ci scappò la rissa.
C’era Danilo, detto Trèmulo, gambe da centometrista e due polmoni che forse erano quattro. “Ma lo sai che lo voleva l’Inter?”, m’ha detto una volta un amico. A questa storia non c’ho mai creduto. Ma che Danilo fosse il nostro Burgnich, ecco, su questo c’erano davvero pochi dubbi. E gli somigliava pure, aveva proprio la faccia da Burgnich, Danilo.
C’era Alberto, detto Barduffola, naso importante e sguardo languido, il bello della cricca, un po’ sopravvalutato, sia come latin lover sia come portiere. Una domenica d’autunno lo vidi giocare nientemeno che allo stadio Sant’Elia, una partita tra club di terza categoria, un paio d’ore prima di un deprimente Cagliari-Sambenedettese, in serie B. Nel primo tempo parò persino un rigore. Sapeva che mi trovavo tra il pubblico, quattro gatti in curva sud, e a un certo punto si voltò per salutarmi. Distrazione fatale: partì un tiro da centrocampo e la palla si infilò alle sue spalle, morbida come una nuvola di zucchero filato. Lì finì la sua carriera da numero uno.
E poi c’ero io, Giacomo, Menduledda.
A ogni modo, in principio fummo noi quattro. Tutti gli altri vennero dopo: Babbasoni, Macchiori, Zugh’e Pudda, Conch’e Taccula, Orighedda e Facc’e Cocciula.
Di ragazze, ovviamente, mancu su fragu. Nemmeno sapevamo com’erano fatte, le ragazze.
– Giggirriva! Giggirriva! Giggirriva!
Urlava a squarciagola, il piccoletto. Canottiera, pantaloncini bianchi, calzettoni laschi alle caviglie, pallone sotto braccio.
Era un moccioso di sette anni, con le ginocchia ricoperte di croste. Moccioso di un bel moccio catarroso, verde pistacchio. S’era convinto che il dottor Gianluca Piras, l’inquilino del terzo piano, il ragioniere, fosse Gigi Riva.
Iniziava a urlare, ogni qual volta lo vedeva affacciarsi alla finestra.
– Giggirriva! Giggirriva! Scendi a giocare con me?
Glielo avevamo raccontato noi, al piccoletto moccioso, che il ragionier Piras era Gigi Riva. Glielo avevamo raccontato così, tanto per scherzare.
– Oh, guarda che non lo devi dire a nessuno, capito?
Lui ci aveva guardato così, con occhi da pesce bollito, la candela verde quasi sul labbro.
– Oh, guarda che è un segreto, capito? Non lo deve sapere nessuno.
Sguardo sognante, candela spalmabile, lui aveva fatto sì con la testa, mischinu.
– Lo sai cosa ti facciamo, se riveli il segreto?
Occhi impauriti. Accenno di broncio.
– Ti stacchiamo la barrallicca! A morsi!
Non avremmo mai staccato niente a nessuno, figuriamoci a uno di noi. Perché il moccioso, gira e rigira, era uno di noi, uno del Cortile.
– Dai, ora vai in porta ché ti insegniamo a parare.
Tiravamo certe bordate che è un miracolo che il piccolo moccioso sia sopravvissuto, che non si sia fratturato una mano, una gamba o non so che cos’altro. Scemo era già scemo, per cui pure se l’avessimo colpito in testa, male non gli avremmo fatto sicuramente.
– Ajò, tuffati!
E lui si tuffava.
Ma la ghi ses scarsu! Mì che Giggirriva non ci gioca con gli scarsi come te!
E giù stamborrate che avrebbero piegato un albero.

Un bel giorno arrivò un ragazzino di fuori.
Aveva gli occhiali con la montatura d’osso, le lenti spesse come fondi di bottiglia di birra Ichnusa, e veniva da Genneruxi, da un quartiere distante svariate galassie dal nostro.
Disse di chiamarsi Giuseppe e di avere dodici anni.
Giuseppe era cugino in secondo grado di Flavio, e i suoi genitori erano professori di scuola media, mica gentiscedda. Ecco perché abitavano a Genneruxi, dove c’erano belle ville, case grandi e moderne, e persino – si diceva – una discoteca.
Giuseppe arrivò un pomeriggio in cortile insieme a Flavio. Fremeva dalla voglia di raccontarci una cosa.
– Ajò, racconta!
Lui ci disse che un suo amico, fratello di un altro tizio che insieme a un gruppo di sfigati bazzicava i campetti della chiesa di San Giuliano, gli aveva detto che noi eravamo delle mezze seghe, che non sapevamo giocare a calcio. Ma lui, Giuseppe, non ci credeva. E glielo aveva detto. Ma quello, il fratello del tizio, aveva aggiunto che non solo eravamo degli incapaci ma anche dei bugiardi cagasotto, e che non avremmo mai accettato di andare a sfidarli sul loro campo.
Noi a Giuseppe, dopo che lui finì di raccontarci questa cosa, non lo picchiammo e non ci azzardammo a torcergli nemmeno un capello, ma soltanto perché era un mezzo parente di Flavio. Altrimenti le cose sarebbero andate diversamente. L’avremmo smermato e preso a puntar’e peis a culu da piazza Garibaldi sino a via Atene, passando per Piazza San Benedetto e viale Marconi.
A ogni modo, bisognava far qualcosa.
Così decidemmo di sfidare il Genneruxi: gara secca, due tempi da trenta minuti, senza supplementari o rigori.
Consegnammo l’ambasciata al piccolo occhialuto.
– Diglielo. Sabato prossimo alle quindici. As cumprendiu?
Giuseppe fece sì con la testa.
– E ora vieni che ti facciamo vedere quanto siamo scarsi – lo apostrofò ironicamente Alberto.
Ingaggiammo una partita furibonda, sotto il sole di metà maggio, sei contro sei, portieri volanti e un San Siro nuovo di zecca.
Durante la pausa, io e Danilo ci avvicinammo alle cabine dei contatori dell’acqua, in un angolo del cortile. In genere era lì che tutti noi pisciavamo.
Faccia al muro, ci abbassammo i pantaloni, attenti a non schizzarci l’un l’altro. Sentii una presenza alle nostre spalle. Mi voltai, era Giuseppe. Si accostò pure lui, si tirò giù i calzoncini.
– Ehi – disse – perché ce l’avete più grosso del mio?
Gettammo un’occhiata. Aveva proprio un pistolino.
– Ma tu quante volte te lo sfreghi al giorno? – gli domandò Danilo.
Sfregare?!
– Eja.
– Perché? Lo devo sfregare? – disse lui.
Oh scimpru! Se non lo sfreghi mica ti cresce, non lo sai?
– Ma davvero?
– Lo devi sfregare molto, ma molto. Finché non si allunga tutto e non spruzza, capito? – gli disse Danilo.
– Finché non spruzza? Che cosa?
– Tu sfrega, e cittirì.
– Siete sicuri?
– Eja. Ma lo devi fare molte volte al giorno.
– E voi quante volte lo sfregate, al giorno?
– Io anche sette, otto volte – disse Danilo – ma se te lo fai sfregare da una ragazza è molto meglio, capito?
– E spruzza sempre? – chiese lui.
– Tranquillo che spruzza. Vai, provaci adesso!
– Adesso?!
– Eja, cos’hai, paura? Gua’ che lo diciamo agli altri, che hai paura di sfregartelo.
Giuseppe ci guardò spaventato.
– No, no! Lo faccio, lo faccio – disse lui.
Ci tirammo su i pantaloni e tornammo a giocare. Giuseppe rimase lì, culo nudo e pistolino in mano, davanti a quell’angolo di muro impregnato di urina.
– Sfrega, sfrega! – gli urlammo mentre ci allontanavamo. – Sfrega! Ancora più forte!
Eravamo proprio degli stronzi di prima classe. Lo sapevamo. E un po’ ne eravamo anche orgogliosi.
Ci occorrevano delle magliette, per la sfida contro quegli sbruffoni. Non potevamo andar lì e presentarci raffazzonati. Mica eravamo grezzumine di Sant’Avendrace, pogarirari. Quei fighetti c’avrebbero riso dietro per tutta la vita.
Servivano soldi, e noi non ne avevamo.
L’unico espediente per racimolare un discreto gruzzolo era quello di mettersi a ripulire il cortile, tirar via l’immondizia, insaccarla alla bell’e meglio, e passare poi casa per casa, famiglia per famiglia, a implorare un’offerta che ricompensasse il nostro duro lavoro. Ché di aliga, in cortile, ce n’era veramente tanta. Da riempire un paio di camion.
Così prendemmo scope, ramazze, secchi e rastrelli, e in una sola giornata facemmo del nostro meglio.
La mattina dopo andammo a batter cassa. Dal condominio sud, popolato per lo più da famiglie di operai e manovali, non potevamo aspettarci chissà che cosa. E, infatti, tirammo su non più di cinquemila lire. Dalla raccolta nel condominio nord, il più ricco e il più snob, ricavammo seimilacinquecento lire. A est, una miseria: duemilatrecento lire.
Lì ci abitava signora Nennedda. Che non ci fece nemmeno entrare in casa, non ci offrì nemmeno un bicchiere d’acqua, una menta, o una gassosa.
La sua mano rugosa sbucò da uno spiraglio della porta. Le dita tremolanti stringevano una moneta da venti lire.
– E non spendetele tutte in una volta! – disse.
Venti lire.
Ma itta fiara, una pigara po culu?
La sera stessa ci riunimmo in un sottoscala e stabilimmo le modalità e i tempi della rappresaglia.
Ci serviva un topo. E grazie al cielo in cortile non erano di certo i ratti a mancare. Il transito di merdone rappresentava da sempre una delle principali attrazioni del quartiere.
Ci serviva un bel topo. E non faticammo a trovarne uno che facesse al caso nostro: taglia media, pelo rossiccio.
Lo catturammo a colpi di bastone. E prima di renderlo inoffensivo ci divertimmo un po’. Lo stordimmo, gli infilammo un paio di fialette di benzina nel culo, e poi gli demmo fuoco. La merdona iniziò a piroettare come una trottola, un filo di fumo denso gli avvolgeva la coda.
La bestiola resistette una mezzoretta. Quando Danilo afferrò una pietra per darle il colpo di grazia, il suo cuoricino già s’era spento.
Prendemmo il topo, lo nascondemmo dentro una scatola di cartone e aspettammo le ombre della sera, seduti su un’aiuola di cemento a raccontare barzellette sporche.
Entrammo in azione prima di cena. Signora Nennedda abitava al terzo piano. Salimmo le scale al buio, senza fare rumore.
Una volta nel pianerottolo, ci accovacciammo, restammo in ascolto per almeno un minuto.
Poi indossammo dei berretti di lana, calandoceli a mo’ di passamontagna. Suonammo il campanello.
Un istante dopo si sentì la voce della vecchia.
– Chi è?
– Amici – disse Flavio.
Si udì il rumore della catena di sicurezza che scivolava sul legno della porta. Un filo di luce squarciò l’oscurità, e vedemmo sbucare la sagoma della vecchia. Nello stesso istante, Danilo estrasse il topo dalla scatola, lo prese per la coda e lo scagliò tra i suoi piedi.
Tiè! Miserabile! Su cunn’e mamma rua! 
Mentre fuggivamo giù per le scale, facemmo in tempo a sentire un urlo prolungato, un altro urlo ancora, più acuto del precedente, e un rumore sordo, come il tonfo di una persona che cade esanime sul pavimento.
Il giorno dopo arrivò persino la polizia.
Signora Nennedda aveva perso i sensi per quasi un’ora. Poi era rinvenuta e s’era messa a piangere e a lamentarsi, richiamando l’attenzione dei vicini. Era stato necessario chiamare un medico.
– Loro! Sono stati loro! Delinquenti! – aveva detto lei ai poliziotti.
Quelli, gli sbirri, avevano ascoltato, stilato il verbale e poi se n’erano andati. Figurarsi fare indagini.
A ogni modo, l’atto vendicativo aveva rafforzato il nostro spirito guerriero in vista della partita contro il Genneruxi.
Comprammo sette magliette, bianche, immacolate, con il collo a V e le maniche lunghe. Comprammo anche due grossi pennarelli rossi e blu.
Scrivemmo i numeri sulle maglie e disegnammo lo stemma, uno scudetto con una grande “C”, la “C” di Cortile.
Arrivammo a Genneruxi un’ora prima della partita. Ci presentammo in dieci, otto titolari e due riserve. Nessun tifoso al seguito, nemmeno il piccoletto dal moccolo verde.
I nostri avversari indossavano un completo elegante: maglia a righe bianconere e pantaloncini bianchi. Erano in dieci pure loro. E il capitano si chiamava Dario, unu lolloni leggiu.
Tra il pubblico, oltre a Giuseppe e ai suoi grandi occhiali da miope, c’erano anche quattro ragazze, le pivelle più bone che avessimo mai visto. Ma non eravamo tipi da distrarci noi.
Flavio mise a segno il primo gol dopo appena tre minuti. Un istante dopo, Babbasoni prese palla, attraversò la metà campo, dribblò due difensori, entrò in area e raddoppiò di piatto destro. Fui io a siglare il terzo gol: sbagliai il cross, e la palla s’insaccò sul primo palo.
Dilagammo sino alla fine del primo tempo: sette a due.
Sembrava fatta. Invece all’inizio della ripresa subimmo la rimonta. E sull’otto a cinque per noi, l’arbitro assegnò un rigore a loro favore. Il rigore non c’era, su questo non ci piove, oggi come ieri. A ogni modo, volarono parole grosse. E non solo parole.
Alla fine il rigore fu battuto. Loro segnarono, si esaltarono e attaccarono in massa. Ma il destino quel giorno era dalla nostra parte. Negli ultimi sei minuti mettemmo al sicuro il risultato con due contropiedi da manuale.
Finì dieci a sei per noi.
Già pregustavamo il momento della passerella in cortile, tra orde di piciocheddus adoranti, pronti a emulare le nostre gesta, e mamme orgogliose dei propri figli, calciatori rudi come pirati.
Non trovammo niente di tutto ciò, al ritorno.
Ciò che balzò ai nostri occhi, invece, fu l’assembramento inusuale di adulti e bambini al centro del cortile. Parlavano ad alta voce, in modo disordinato, sembravano molto eccitati. Ma non certo per le nostre imprese oltre confine.
C’eravamo per caso persi qualcosa?
La risposta ce la fornì il piccolo moccioso dalla candela verde. Ci venne incontro di corsa, sorridente, più lurido e catarroso che mai, con un pallone in mano, un pallone vero. Un pallone di cuoio, bianco, con tanti pentagoni neri.
– Giggirriva! Giggirriva! – urlò mostrandocelo.
Guardammo allibiti. Sul pallone c’era una scritta, una firma, un autografo chiaro e distinguibile: Luigi Riva.
Scoprimmo così che il numero undici più forte della storia del calcio, il più forte di tutti i tempi, quel pomeriggio, passando casualmente dalle parti del cortile, s’era fermato, incuriosito da chissà cosa, e s’era trattenuto qualche minuto a parlottare con i più piccoli, a scherzare con loro, a tirar calci a un pallone di cuoio, sbucato all’improvviso chissà come e chissà da dove.
Giggirriva s’era messo poi a firmare autografi, a posare per alcune foto ricordo, prima di scomparire, misteriosamente, così com’era apparso.
Giggiriva. Nel nostro cortile. E noi a Genneruxi. Pitticca sa sfiga. 
Ecco, da quel momento, nessuno di noi pensò più che il destino, quel giorno, avesse scelto di stare davvero dalla nostra parte.


Gianni Zanata è giornalista, scrittore e blogger. Ha un blog ed è presente su Twitter.
Nel 2011 ha pubblicato il romanzo “Non sto tanto male” (Quarup). Nel 2012 ha pubblicato il romanzo ''Dettagli di un sorriso'' (Quarup).
[La foto che accompagna il pezzo è di Francesco Pisano e l'abbiamo trovata sulla pagina Facebook "Is amigus de sa Marina"]

On Line la recensione di Alfredo Ronci di “Dettagli di un sorriso”


On Line.
È on line la recensione di Alfredo Ronci di “Dettagli di un sorriso” (Quarup, 2012) pubblicata sulla rivista di letteratura contemporanea “Il Paradiso Degli Orchi“.
Ecco il link
Il Paradiso Degli Orchi
Già pubblicato su “Fútbologia“, il racconto “Quelle Brave Canaglie Del Cortile Accanto” è ora anche sul blog “Storie Di Calcio“.
Ecco i link
Fútbologia
Storie Di Calcio

paradisorchidettaglisorriso

Marco Milanese e i villaggi scomparsi al centro del secondo incontro di Storia e storie di Khorakhané




Marco Milanese e i villaggi scomparsi al centro del secondo incontro di Storia e storie di Khorakhané




Marco Milanese, ordinario di archeologia medievale all'Università di Sassari e direttore del Museo dei Villaggi Abbandonati della Sardegna, sarà il protagonista del secondo appuntamento di Storia e storie di Sardegna 2013, ciclo di incontri organizzato dall'associazione Khorakhané.
A partire dalle 18.15 di sabato prossimo 29 gennaio, il prof. Milanese terrà una lezione dedicata alle più recenti ricerche archeologiche condotte sui villaggi abbandonati dal XIV al XVIII secolo nella Sardegna Nord-Occidentale: da Geridu ad Orria Pithinna, Villanova Montesanto e Bisarcio. Quello dei villaggi scomparsi è un tema di grande rilevanza storiografica e scientifica, che proprio grazie al prof. Milanese ha conosciuto una nuova esaltante stagione di studi.

IL RELATORE
Marco Milanese è professore Ordinario di Archeologia dell'Università di Sassari ed in quella di Pisa, dopo essere stato docente anche negli Atenei di Genova, Siena-Arezzo e Cagliari. Nel 1984 ha vinto il Premio Internazionale di Archeologia 'L'Erma di Bretschneider', è stato Conservatore del Museo Archeologico di Montelupo Fiorentino e Ispettore Archeologo presso la Soprintendenza Archeologica della Toscana. Ha diretto circa 200 campagne di scavo e di ricerca in Liguria, Sardegna, Toscana, Lombardia, Abruzzo, Tunisia e Portogallo. È autore di oltre 350 pubblicazioni e membro di redazioni e di comitati scientifici di riviste scientifiche, direttore di collane di pubblicazioni archeologiche e nel 1997 ha fondato e dirige la rivista internazionale di studi 'Archeologia Postmedievale'.
Lavora con continuità in Sardegna a partire dal 1992, dove si è intensamente occupato di archeologia urbana ad Alghero, di archeologia del potere e di incastellamento con gli scavi di Bosa, Monteleone Rocca Doria e di Castelsardo ed ha sviluppato un ampio progetto di ricerca archeologica sui villaggi abbandonati della Sardegna (tra Medioevo ed Età Moderna). E' Direttore del Museo dei Villaggi Abbandonati della Sardegna (Sorso-Palazzo Baronale) e Direttore scientifico del Centro di Documentazione del Mejlogu medievale.
DOVE? Nuraminis, salone Montegranatico (VEDI MAPPA)
QUANDO? sabato 26 gennaio 2013, dalle ore 18.15




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Info khorakhane@khorakhane.eu

RIGNANO FLAMINIO, GIORNATA DELLA MEMORIA

 
 TRA PASSATO E FUTURO: CULTURA E' RICORDARE
omaggio alla GIORNATA DELLA MEMORIA

letture da GRAMSCI, PAVESE, LEVI, AMICHAI, GUALTIERI, BERBEROVA a cura di Monica Maggi
voce e musiche THE REGER
Rignano Flaminio, Aula Consiliare ore 18
giovedì 24 gennaio ore 18.00
 INGRESSO LIBERO
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ultimi posti disponibili per

NOTE D'ARTE
concerto, arte, poesia
con CORDE OBLIQUE
26 gennaio alle 17.30, Oratorio S.Andrea al Celio, Roma





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 La poesia qualcosa vale, credetemi. Impedisce di impazzire del tutto.

-- Charles Bukowski --

Monica Maggi
ASSOCIAZIONE CULTURALE LIBRA
Via Tiberina km. 9,200
00060   Riano
(Roma)
mob. 347 7618417

Don Duilio Sgrevi Una vita spesa per ciò che resta in eterno di Santino Gallorini

Don Duilio Sgrevi

Una vita spesa per ciò che resta in eterno

di Santino Gallorini · Scheda del Libro

sabato 26 gennaio 2012, ore 16:30
Chiesa Parrocchiale di Santa Mustiola, Pieve a Quarto (Arezzo)
Presenterà Mons. Vittorio Gepponi, Docente presso la Pontificia Università Antonianum.
Saranno presenti l'autore e Don Duilio Sgrevi.
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GIANINI E LUZZATI. CARTONI ANIMATI

 
GIANINI E LUZZATI. CARTONI ANIMATI
12 maggio 2013


Il Museo Nazionale del Cinema, in collaborazione con il Museo Internazionale Luzzati Onlus e con la Rai, presenta la mostra Gianini e Luzzati. Cartoni animati, a cura di Alfio Bastiancich e Carla Rezza Gianini, con il coordinamento scientifico e piano mostra di Giovanna Castagnoli, in calendario alla Mole Antonelliana dal 23 gennaio al 12 maggio 2013.
La mostra presenta per la prima volta la maggior parte dei materiali originali dei film realizzati da Giulio Gianini ed Emanuele Luzzati, con più di duecento personaggi, bozzetti, scenografie, storyboard che testimoniano il processo creativo che ha dato origine ad alcuni tra i capolavori del cinema d’animazione mondiale, grazie al sodalizio artistico di due persone di rara sensibilità.
Federico Fellini descriveva il cinema di Giulio Gianini e Emanuele Luzzati plaudendone la fantasia figurativa, l’estro umoristico, il senso della fiaba e le geniali soluzioni grafiche. Una sintesi puntuale, questa, dell’arte dei due animatori che hanno creato uno stile personalissimo in cui il teatro, la poesia e il disegno si legano mirabilmente in un cinema unico che valse loro anche due candidature all’Oscar, per La Gazza Ladra del 1964 e per Pulcinella del 1973.
Giulio Gianini ed Emanuele Luzzati sono due autori di primo piano nella storia del cinema d’animazione mondiale. La loro preziosa eredità è costituita da alcuni capolavori dell’arte animata, premiati a festival internazionali. Un incontro felice tra due talenti complementari, l’uno orientato agli aspetti cinematografici e tecnici l’altro a quelli grafici e narrativi.
In quasi quarant’anni di collaborazione hanno realizzato decine di film con la tecnica del découpage, cioè l’animazione di figure ritagliate e articolate su fondali scenografici. Proprio questo processo creativo viene approfondito e documentato nella mostra, grazie ai materiali originali dei film.
L’allestimento della mostra si sviluppa nell’Aula del Tempio, cuore del museo, e sulla rampa elicoidale. La visita incomincia sotto i grandi schermi, con 5 salette in successione all’interno delle quali è esposto un primo nucleo di tavole in découpage di La Gazza Ladra, L’Italiana in Algeri, Pulcinella, Il Flauto Magico e Omaggio a Rossini: una sorta di preview di tutta la mostra, che porta il visitatore ad immergersi nel mondo fantastico del cinema d’animazione. Questa sezione è inoltre arricchita da una serie di montaggi video con estratti dei diversi cartoni animati prodotti da Gianini e Luzzati.
In queste sale trovano posto anche dei materiali per ipovedenti, realizzati appositamente: quattro tavole tattili replicano alcuni degli originali in mostra, mentre un leggio sorregge un libro tattile dedicato a La Gazza Ladra e un burattino snodabile della gazza stessa. Il percorso termina a lato della scala elicoidale, che diventa il punto di unione tra l’Aula del Tempio e la rampa elicoidale dove, su appositi pannelli, sono esposte tutte le altre tavole in mostra, che completano l’allestimento.
La mostra è arricchita da un catalogo, edito da Silvana Editoriale, con analisi e testimonianze sull’opera e la vita dei due autori e con la prima catalogazione generale dei materiali originali dei film reperibili nelle collezioni pubbliche e private.
A completamento della mostra, il Cinema Massimo propone un appuntamento mensile - da gennaio a maggio - con i lavori d’animazione dei due grandi cineasti.
Nel corso della prima serata del 23 gennaio 2013 alle ore 21, saranno presentati, tra gli altri, La tarantella di Pulcinella, La Gazza Ladra e Pulcinella, realizzati da Gianini e Luzzati, oltre ad un’antologia di brevi documentari fotografati dal solo Giulio Gianini.
Contestualmente, nei mesi di febbraio, marzo e aprile, sempre al Cinema Massimo, il Museo Nazionale del Cinema propone tre appuntamenti con tre grandi direttori della fotografia pensati per rendere omaggio al lavoro sul set di Giulio Gianini. Il primo approfondimento è per il 18 febbraio alle 20.30 e ha come protagonista Renato Berta, storico collaboratore, tra gli altri, di Amos Gitai, Alain Resnais, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Manoel de Oliveira e, recentemente, Mario Martone; a marzo sarà la volta di Luca Bigazzi e ad aprile di Gherardo Gossi.
Come di consuetudine, durante la mostra sono previste una serie di attività didattiche con un’offerta diversificata di percorsi e laboratori per le scuole e per il pubblico. I cartoni animati di Gianini e Luzzati saranno anche protagonisti di Al cinema in famiglia, un’iniziativa voluta dal Museo Nazionale del Cinema con Giovani Genitori. Il primo appuntamento è per il 17 febbraio alle ore 11.00 al Cinema Massimo con una proiezione mattutina dedicata alle famiglie con bambini piccoli.