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lunedì 23 febbraio 2015

"Vizio di forma" di Paul T. Anderson

da MicroMega

Cinema

"Vizio di forma" di Paul T. Anderson


di Giona A. Nazzaro
Se c’è una cosa che nemmeno il più smaliziato dei critici cinematografici può fingere, è di essere – non dico un esperto – ma un lettore di Thomas Pynchon. I libri, infatti, bontà loro, sono ancora degli oggetti abbastanza irriducibili all’inconsistenza intellettuale dilagante. I libri, a differenza dei film e dei dischi (ahinoi…, purtroppo…), bisogna averli letti per potere ambire anche solo lontanamente a dire qualcosa in merito. E a volte, per fortuna, non basta averli letti per dire qualcosa di sensato.

Così, di Thomas Pynchon, autore che definire cruciale della letteratura del ventesimo secolo è un eufemismo, è più facile trovare persone che dichiarano fieramente “avevo iniziato a leggerlo, ma a metà ho smesso perché mi annoiava” (cosa che equivale a dire che NON lo si è letto) piuttosto che persone disposte ad ammettere che per leggerlo bisogna avere ben allenati i muscoli cerebrali. E molta umiltà.

Intendiamoci: è più facile dichiarare ai quattro venti che American Sniper è un film fascista (senza capire niente di cinema) che ammettere di non avere letto nemmenoL’incanto del lotto 49 o che, pur avendolo letto, non ci si è capito nulla.
Thomas Pynchon, invece, come sostiene a ragione Umberto Rossi – uno dei nostri massimi americanisti nonché ottimo traduttore e dotto conoscitore dell’opera dell’elusivo (aggettivo d’obbligo) autore statunitense (e di Philip K. Dick: ineludibile il suo libro The Twisted Worlds Of Philip K. Dick: A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels) – è non solo uno dei più complessi scrittori in circolazione, ma anche dei più divertenti ed arguti (ovvio: ad ognuno il suo di divertimento).

Pynchon, come un beat fuori tempo massimo, ma dotato di una sana disciplina scritturale, che gli permette di gettare ponti fra Kerouac, Melville e Burroughs, è il visionario e ironico costruttore di universi letterari nei quali ci si può muovere liberamente come nelle galassie sonore di Frank Zappa, consapevoli che è il piacere della discontinuità l’unica carta in grado di garantire una possibilità di permanenza e piacere.

Vizio di forma, il libro, ci ricorda che Pynchon non è solo il sublime architetto diL’arcobaleno della gravità ma anche un attentissimo lettore di Chandler e Hammett. E, soprattutto, di aderire alle regole della narrazione esattamente come qualsiasi scrittore commerciale.

Pubblicato a soli tre anni di distanza dal monumentale Contro il giorno, Vizio di forma è probabilmente il più lineare dei romanzi di Pynchon. Un noir in piena regola che Anderson ha seguito quasi alla lettera, iniziando dal magnifico incipit recitato da Joanna Newsom: "She came along the alley and up the back steps...."

Paul T. Anderson, cineasta amato da una parte della cinefilia per i motivi sbagliati (adorazione feticista e incondizionata del virtuosismo tecnico), regista che da Il petroliere in avanti ha affrontato una straordinaria trasformazione formale, giunge conVizio di forma a una sorta di rarefazione del proprio gesto che è, a nostro avviso, conseguenza diretta della lettura pynchoniana.

Anderson, infatti, non solo ha letto Pynchon, ma lo ha compreso a fondo. Ossia ha intuito le potenzialità filmiche del libro operandone un adattamento che pur lasciando fuori snodi cruciali nell’economia del romanzo (Las Vegas, Kismet, Ronald Reagan…) rivela invece i collegamenti con gli altri titoli della bibliografia pynchoniana, in particolare Vineland, una sorta di predecessore non noir di Vizio di forma, e L’incanto del lotto 49.

Anderson ha ricontestualizzato il principio di dispersione – o disseminazione – pynchoniana, ossia il moltiplicarsi di situazioni e personaggi, reinventandola come il classico smarrimento del “private eye” chiamato a rendere conto, attraverso l’indagine, dell’incomprensibilità del mondo, del suo sfuggire alla logica. Il detective come testimone oculare che “qualcosa è cambiato”. Se nel noir classico le ombre espressioniste erano il segno inequivocabile di un mondo incomprensibile, impenetrabile, in Vizio di forma il sole abbacinante losangelino diventa segno di una paradossale (il)legibilità warholiana (o liechtensteiniana) del reale.

Se l’indagine è già presente nel romanzo come una traccia assurdista dell’esplodere delle contraddizioni della Summer of Lovenel corso degli anni Settanta (cosa che inVineland assume i segni di una quest popolata da decine di personaggi), Anderson, avendo compreso la strategia pynchoniana, semplifica il proprio tratto (niente dolly vertiginosi o numeri attoriali virtuosistici) e reinventa il mondo di Doc Sportello attraverso un’allucinata fissità che fa del piano sequenza e di uno zoom quasi impercettibile la sua cifra primaria (senza dimenticare le dissolvenze incrociate che si offrono come vere e proprie intersecazioni spaziotemporali).

Sportello, il protagonista, è un nome-indizio di Pynchon che con l’italiano nei suoi romanzi gioca sempre molto volentieri. Se infatti Huxley sosteneva che bisognava aprire le porte della percezione per comprendere, Pynchon, molto più umilmente, apre uno… sportello per sbirciare in quello che sarà il regno dei Repubblicani e di Reagan.

Anderson coglie perfettamente la dimensione malinconica del romanzo che è sì omaggio ai maestri del noir, ma anche lamento funebre per la fine del mondo stesso. Pynchon, da ormai anziano e disilluso scrittore anti-sistema, non si fa illusioni e Anderson, fermando il tempo del racconto, dilatandolo con l’attesa dei piani-sequenza, offre il sentire esatto di una resistenza che è ormai soprattutto una questione morale, etica.

Lo stupore psicotropo nel quale galleggia Doc diventa così il segno evidente di una percezione altra del reale. Perché, parafrasando Burroughs, scrittore con il quale Pynchon ci sembra condividere dei tratti strategici, “la paranoia è solo una forma più acuta della percezione della realtà”. E Doc si muove da un piano paranoico all’altro, intrecciando possibilità, lasciandosi guidare, come uno schlehmil eterodiretto, dalla possibilità del caso. Per dirla con Brian Eno, le strategie oblique del caso diventano una possibilità di lettura e di ricomposizione, addirittura, del reale.

Anderson riesce così a reinventare filmicamente l’immenso materiale pynchoniano, senza alcun timore reverenziale, rispettandone la complessità e la ricchezza e, soprattutto, senza chiudere i punti di contatto verso il resto dell’opera dello scrittore.

Sportello, divorato da un amore impossibile, cavaliere errante che donchisciottescamente reinventa la realtà perché rifiuta di farsi riscrivere da essa, si trova invischiato in una trama che potrebbe benissimo essere una nota apocrifa della tetralogia losangelina ellroyana.

In questo modo il film si rivela non solo un adattamento che ripaga sia i timori della vigilia (e possibile portare Pynchon al cinema?) che le speranze più audaci, ma anche un tentativo – legittimo – di dare corpo all’opera e alla poetica pynchoniana, riconducendola nell’alveo della dimensione anti-establishment post-beat.

Come Un lungo addio intrecciato con Moses Wine detectiveVizio di forma è una lunga allucinazione nella quale i Can si rispecchiano nella voce di Joanna Newsom (che gli spettatori italiani si perdono a causa del doppiaggio) e dove il tempo perduto è solo perduto.
Pynchon lo sa. Lo ha sempre saputo. E Anderson ha dato a questo sentire una forma cinematografica. Realizzando così il suo film più libero.


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