La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

lunedì 25 ottobre 2010

NESSUNO DOVEVA SAPERE NESSUNO DOVEVA SENTIRE , romanzo di Giovanna Mulas




Abbaccai


Ogni volta, dopo la messa, don Cristoforo dava al pesante portone d’ ingresso della parrocchia tre mandate
( tre, dovevano essere, come la Santissima Trinità, diceva lui) per serrarlo.
Poi Abbaccai lo vedeva ritirarsi nelle sue stanze, rosario e bibbia nel pugno, probabilmente a leggere il breviario. Quando l’avevano visto arrivare in paese col treno da Cagliari e accompagnato dall’anziana e grassa madre vedova, l’inverno di due anni prima, nessuno avrebbe detto che di prete si trattava. Vederlo scendere dal vagone così, tutto nero tranne i capelli troppo biondi, alto, zaino alla mano ed un paio di libri nell’altra, il ciuffo scomposto e il sorriso facile, la pelle chiara da continentale, così come gli occhi; tutte le donne ne erano rimaste affascinate ( per mesi in paese e nelle campagne non si era parlato d’altro che di un prete bello come un angelo), e tutti gli uomini, giovani o vecchi che così diverso lo vedevano, così bello e puro, ma tutto tranne asessuato come un vero prete dovrebbe essere o almeno apparire all’occhio...bhè, molte donne s’erano sentite rifiutare dal marito il permesso di andare in chiesa.
E don Cristoforo, così si chiamava, Cristoforo Veneruso; aveva dovuto visitare tutto il paese, casa per casa, ovile per ovile, quasi scusandosi della sua bellezza. Convincendo comunque con le buone e sempre con la Bibbia in mano che la messa non andava saltata. Che era male saltarla.
Certo era che, thia Annicca lo diceva sempre, la sera, in cortile, sbucciando le patate per il brodo di gallina del giorno dopo; tutte le zitelle, giovani o vecchie del circondario, avevano preso ad andare a messa non solo la domenica, ma tutti i santi giorni.
E sempre vestite a festa; tutti i giorni per loro erano diventati Domenica delle Palme.
Una volta Abbaccai ( avrebbe compiuto quattordici anni il sei di maggio) aveva scoperto don Cristoforo a spiarla mentre spolverava il candelabro rivestito d’oro che Thia Paba aveva donato alla chiesa in ringraziamento dopo che sua nipote s’era salvata da morte certa per broncopolmonite fulminante. Una miracolata insomma, sia la nipote sia thia Paba, che poteva permettersi di regalare candelabri come quello. In paese dicevano si nascondesse i denari nell’ orto, sotto gli ulivi.
Ed era capitato che i carabinieri dovessero correre in casa sua nel cuore della notte perché richiamati dalla vecchia vedova che aveva scoperto qualche disgraziato scavarle nell’orto e chi la capisce questa gente? Disgraziati di paese, latitanti sono che dovrebbero FINIRE IN GALERA! E nell’ultima parte della frase alzava la voce di tre toni di modo, forse, che tutte le case attorno sentissero cosa la signora pensava davvero del suo vicinato.
Abbaccai stava piegata sulle ginocchia, le gonne leggermente sollevate sopra le caviglie per potersi muovere meglio, i capelli raccolti con grosse, grezze forcine d’osso, sotto il fazzoletto.
Avvertiva una sottile pellicola di sudore sulla fronte; si avvicinava l’estate e senza dubbio, come le ripeteva thia Annicca, sarebbe stata un’estate lunga e molto calda, come quella che aveva seguito la sua nascita.
Abbaccai si era appena versata un bicchiere d’acqua di fonte, dalla brocca di terracotta poggiata al fresco, sulla cassapanca tarlata di fianco all’altare in pietra. Sulla sinistra della piccola finestra con delle assi inchiodate all’esterno, ora che i muratori facevano dei lavori di restauro, c’era un tratto di terreno dove, nell’erba, riaffiorava una ruota di carro. I passeri saltellavano ora tra le assi inchiodate, ora sulla ruota, e ogni saltello vivace era un canto, un’ arruffare di piuma.
Abbaccai aveva intinto i polpastrelli nell’acqua rimasta nel bicchiere, e li aveva passati sopra il seno, sul collo, dietro i lobi delle orecchie dolcemente, a cercare refrigerio.
Ad un rumore, ad un respiro, si era voltata di scatto; aveva fissato don Cristoforo con espressione lievemente sorpresa. Aveva riabbassato gli occhi sul candelabro, in silenzio.
Poi aveva visto con la mente la figura di rondine trista scomparire nel sagrato.
Finito il lavoro era andata come sempre a salutare don Cristoforo.
L’ aveva trovato con la testa poggiata agli avambracci pelosi, troppo magri.
Ed ecco che, d’istinto, l’aveva assalita all’improvviso una possibilità spaventosa: forse poteva succedere qualcosa di molto sbagliato nella vita delle persone, e a volte quel qualcosa di sbagliato non finiva lì…non era destinato a finire. Ma a continuare, a sfociare in qualcosa di peggio e nessuna volontà avrebbe potuto trattenerlo dallo sfociare. Un guasto progressivo. Un ciclo che si ripete e si ripete, all’ infinito.
La schiena di don Cristoforo sussultava.
-don Crì…ho…ho finito-.
L’ uomo era trasalito.
–Vai a casa-, aveva bisbigliato alla ragazzina, -e non tornare… da domani verrà mia madre a fare le pulizie-.
-Anda bene goi; comente cheres, don Crì.-, annuì Abbaccai.
Aveva, per un solo attimo, sentito l’ impulso di consolare don Cristoforo del suo male; era stata lì per sfiorargli la schiena con una carezza, e che diamine; era evidente che don Cristoforo non riuscisse da solo a superare il suo problema. Avrebbe voluto dirgli che sarebbe passato tutto presto, non c’era di che preoccuparsi perché la vita è così; oggi è bene domani è male, dopo è forse.
Ma il suo istinto, ancora, l’aveva fermata dal reagire. A testa bassa aveva lasciato la stanza, chiudendo la porta.
L’ avevano seguita, lungo il tappeto carminio a intarsi oro della chiesa e fino all’ingresso, i singhiozzi striduli e disperati di don Cristoforo.
Era accaduto tre settimane dopo in una mattina, così, in una folata di vento di maggio era accaduto.
Abbaccai aveva voluto andare a visitare don Cristoforo dopo la messa, salutarlo, chiedergli se andava meglio perché la verità era che sentiva nostalgia della sua voce dolce e rassicurante, dei modi da gentiluomo continentale, i consigli e le immagini dei santi che ad ogni visita le regalava invitandola a pregarli che c’era un Santo per ogni male, ripeteva il giovane parroco. E non importava se thia Annicca quando lei le aveva raccontato l’accaduto, era impallidita segnandosi tre volte fronte e petto.
– non ci mettere più piede da sola, in quella chiesa-
-Proite thì?-
-PERCHE’ NON CI DEVI ANDARE E BASTA…HAI CAPITO? SE SO CHE L’HAI FATTO TI BASTONO LA SCHIENA FINO A SPEZZARLA…CUMPRESU AS, DIAULA?-
-Mmmmh…eja…va bene.-
-E neppure devi raccontare a nessuno quello che hai detto a me…lo prometti Abbaccà? Ti l’ammentas, diaula?-
-Mmmmh.-.
Quella stessa notte Abbaccai, dalla sua stanza, aveva sentito thia Annicca mormorare preghiere incomprensibili, parlare nel buio o col buio; tutta la notte era rimasta sveglia a mormorare perché la mattina, quando la ragazza si era alzata per scaldarsi il latte, l’aveva trovata addormentata sulla sua sedia a dondolo, di fronte al camino spento, il capo poggiato sulla spalla, il rosario stretto nel pugno ed il libricino dell’Antico Testamento aperto, sopra scialle e petto.
Ai suoi piedi un piatto con acqua e olio, una bottiglia piena a metà di vino rosso spunto, un crocifisso, un’ immaginetta dei Santi Cosma E Damiano. – Sto aiutando una persona a vincere la sua battaglia-, aveva detto thia Annicca quando le aveva chiesto il perché della notte in bianco.

Fu nel momento in cui si chinò per raccogliere una rosa caduta dall’altare, caduta curiosamente proprio nell’istante in cui Abbaccai ci passava davanti per andare in sagrestia, che una mano le calò sulla spalla, stringendola e costringendola a voltarsi.
-Don Cri…?- mormorò Abbaccai.
Don Cristoforo era lui ma…non era lui…non sembrava lo stesso don Cristoforo di tre settimane prima. Questo…quest’uomo aveva la barba lunga, gli occhi cerchiati e fuori dalle orbite e le labbra strette. Abbaccai cercò di parlare ma non riuscì.
-Ti avevo detto di non tornare- fece il prete. -…tu…sei peccato…tu…te la stai cercando…-
te la stai cercando te la stai cercando te la stai cercando
La ragazza strattonò la presa, indietreggiò fino a toccare la parete
-Se ti avvicini ti ammazzo, hai capito bene, ti ammazzo!-, disse.
L’altro si lanciò su Abbaccai ruggendo, lei restò dov’era. Urtò inavvertitamente con l’anca il candelabro che vacillò, si esibì in un giro di valzer, le cadde accanto. La ragazza caricò tutto il peso del corpo sulla cassapanca spingendola su e verso l’ uomo; con un tintinnio musicale bottigliette e vasi si rovesciarono sul granito della chiesa, andando in frantumi. Schegge di vetro partirono in ogni direzione, Abbaccai alzò un braccio per farsi scudo agli occhi. E il prete le fu sopra. La rovesciò sul granito: un tonfo sordo, una fitta alla nuca, una luce bianca esplose ad Abbaccai nella testa. Ora, l’aveva sopra di lei. Si limitò a fissarlo con dolente solennità infantile, silenziosa, mentre le mani di lui le sollevavano la gonna frenetiche, le allargavano le gambe e frugavano graffiandola e ferendola ancora, ficcavano le unghie nella carne fresca, dolce, pura, risalivano ai seni, li strizzavano mentre il fiato aumentava, roco. Pareva che il suo intento ora non fosse più solo quello di violentarla, ma di ucciderla direttamente.
-peccato…il peccato sei- ripeteva don Cristoforo e un rivolo di saliva gli colava sul mento.
Togliere il peccato dalla faccia della terra, lavarselo dalla pelle e il sangue.
E lei seppe, in quel momento sentì con matematica certezza che lui l’avrebbe fatto: vide chiaramente la scena, con una sensazione di estraniamento che la sconvolse forse più delle mani aliene sulla sua carne. La vide in un flash, un attimo.
Vide lui che si rialzava dopo, vide lui che le chiedeva perdono e mentre lei sconvolta si aggiustava le gonne per fuggire lo vide che, muto e lestro, la raggiungeva alle spalle, la strangolava, la lasciava sul granito, morta. Lo vide che la raccoglieva da terra guardandosi attorno, la nascondeva in sagrestia chiudendo la porta a chiave e aspettando la notte. Lo vide dare messa come nulla fosse accaduto, solo più pallido del solito ma è un continentale, ha sangue allungato con acqua lui, vide le vecchie bisbigliarsi sorridendo tra un rosario e l’altro.
La notte, mentre l’ultimo ubriaco camminava incespicando dall’ unica bettola del paese alla casa; ecco don Cristoforo che rientrava in sagrestia, la raccoglieva dal suo angolo, le accarezzava i capelli, la baciava sussurrandole all’orecchio di averla amata davvero lui, ma il peccato non aveva diritto di restare sulla terra, andava lavato perché poteva portare ancora in tentazione. Infilava il corpo della ragazzina dentro un sacco di tela grezza, quelli usati da thia Annicca per conservare i resti dei cibi da dare ai maiali, e, caricandoselo sulla spalla, lo portava giù al fiume. Non c’erano carabinieri in ronda quella notte, non a quell’ora. Abbaccai vide thia Annicca segnarsi e segnarsi e piangere la sua scomparsa nella cucina di casa Spano, tra acqua, olio e vino e immagini sacre. Vide don Cristoforo tirarla fuori dal sacco e deporla amorevolmente ai piedi del vecchio albero di noce, poggiarla seduta, la schiena al tronco e le gambe leggermente divaricate, le gonne lunghe a coprire le ferite, il capo chino come una Madonna addormentata.
Lo vide piegare il sacco con la stessa flemma cerimoniosa di quando, durante la messa, alzava l’ostia al cielo per benedirla e appoggiarla tra le labbra di turno. Lo vide mettersi il sacco piegato sotto il braccio e, senza voltarsi indietro, prendere la via del ritorno. Poi, ancora, lo vide ritornare in chiesa e pregare fino all’alba, chiedere perdono e avere l’assoluzione da se stesso, che in fondo non aveva fatto altro che liberare il mondo dal peccato. E lo vide pure, qualche anno dopo, buttare gli occhi suoi chiari, consiglieri e puri, su Giannedda Demuru, la figlia del farmacista del paese, che solo tredici anni teneva ma un seno di donna fatta.
Ecco, tutto questo Abbaccai lo vide in un istante, un flash.
E mentre don Cristoforo emetteva un grido soffocato, roco, lei lo colpì dietro la nuca col candelabro. Lo colpì una, due volte, tre, fino a che la testa sussultante dell’ uomo non rimase ferma, bloccata sulla sua spalla; continuò a colpire il morto fino a che non sentì il sangue di lui scivolarle sul seno, sul collo, i capelli umidi dal pianto.
Attese il buio nascosta in sagrestia, disperata e violata ma viva, corse attraverso la campagna fino a casa di thia Annicca che già l’aspettava, che già sapeva. E la vecchia nulla disse, solo l’abbracciò stretta, la lasciò piangere, la lavò e su ogni ferita, biascicando preghiere e gesticolando, poggiò un bacio.
-Resta qui a riposare. Ti guarderà la luna.
E’ l’inizio, Abbaccai mea-, le mormorò prima di uscire.
Abbaccai non capì, ma non chiese. S’addormentò esausta, singhiozzando. Quella notte ebbe la sua prima mestruazione; a lavare la violenza, a lavare via la sua infanzia.
Di don Cristoforo nulla più si seppe, ma i maiali di thia Annicca ebbero carne da mangiare ( e non la trovarono molto buona, mi raccontarono loro stessi) per una settimana di fila.
Una vecchia megera del paese, già perpetua di don Cristoforo; mi disse in confidenza che tutte le volte in cui quella settimana passò davanti al recinto, i maiali le grugnirono dietro in latino.
Nessuno le credette.
Io si.


GM, ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’, romanzo,
Il Ciliegio Edizioni – Paolo Acco Editore
Per le librerie: rivolgersi esclusivamente a: Dehoniana Libri Stefano Lenzi Tel. +39 051 4290452

Un estratto da ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’. E’ il climax del romanzo, l’evento che darà il via al dipanarsi fisiologico della matassa narrativa, ad un ulteriore incatenarsi di fatti tragici che ‘daranno un senso’ all’ess...ere ( al divenire) accabadora della protagonista.
Chi conosce la mia letteratura e la mia vita sa quanto io sia legata alla tematica della violenza sulla donna, che riprendo in questo capitolo una volta ancora e dopo il mio autobiografico ‘Lughe de chelu’ ( Bastogi, 2003), con il personaggio di un parroco che violenta la giovanissima protagonista.
Non a caso, un parroco. E’ il ‘sacro’ che profana, l’inaspettato che ruba la verginità quindi la speranza, l’innocenza; è l’inatteso che offende, tradisce.
Il sacro, nel senso più ampio del termine, che più non esiste per la mia donna.
La chiave che la porterà a sfidare tempo e morte, e la promessa di un eventuale Dopo.
Che la porterà a non temere la morte, a sostituirsi alla morte, ad oltrepassare con questo nuovo potere la porta onirica del disgraziato di turno.



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