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giovedì 22 novembre 2012

Filippo Di Buonamano che litigò con l’insegnante di armonia, di Gianni Zanata


Filippo Di Buonamano che litigò con l’insegnante di armonia.
Nelle storie che scrivo, a volte ci sono personaggi che non so bene che fine faranno, che ruolo avranno nella storia che sto scrivendo, e tutto il resto.
Ecco, quando a un certo punto non so bene che fine faranno, o che ruolo avranno, è probabile che questi personaggi spariscano dalla storia, che non vi trovino più posto.
Anche se un po’ mi dispiace, che non trovino più posto nella storia, che siano costretti a sparire, a lasciar la scena, diciamo.
Uno di questi è Filippo, che s’è perso da qualche parte, tra una storia e l’altra, va’ a capire quando e perché.
Filippo Di Buonamano.
Filippo Di Buonamano faceva il jazzista.
Suonava la tromba in un quartetto, in una band misurata come un ritratto di Velasco e sgangherata come un vecchio giogo per buoi. Quando non suonava la tromba, Filippo peregrinava da una bettola all’altra. In cerca di ispirazione, diceva lui.
Era un tipo taciturno e solitario. Aveva fama di essere un duro e indossava una coppola nera, anche in piena estate. Parlava poco, anzi non parlava quasi mai.
L’avevo conosciuto per caso, davanti ai tavolini del Bar Lume.
A un certo punto gli avevo chiesto come si guadagnasse da vivere.
Lui aveva socchiuso gli occhi e s’era alzato. S’era allontanato senza nemmeno dire ciao.
Due giorni dopo l’avevo incrociato sotto casa.
«Io suono», m’aveva detto sciorinando uno sguardo umido.
E non aveva aggiunto nient’altro, se non un sospiro rumoroso.
Filippo abitava in una mansarda, in una palazzina del centro storico, nei pressi della stazione ferroviaria. La sua stanza era tappezzata di poster. Immagini di musicisti degli anni quaranta e cinquanta.
C’era anche una foto di John Coltrane, incorniciata e appesa alle pareti dell’andito.
Il pavimento era ricoperto di spartiti, di fogli a righe sui quali erano tracciati simboli, appunti e flussi di note arricciate e guizzanti. Viste dall’alto sembravano danze d’onde in chiaroscuro nebulizzate alla rinfusa sul pentagramma.
Filippo aveva lasciato il conservatorio qualche anno prima del diploma. Gli era stato fatale un litigio con l’insegnante di armonia e contrappunto.
Una mattina s’erano presi a cazzotti nel piazzale della scuola.
Al termine della baruffa, il docente s’era ritrovato con un paio di denti in meno, una costola incrinata e il naso sanguinolento. Era stato il triste epilogo di una lezione dedicata alle partiture di Kind of Blue. L’insegnante di armonia le aveva definite deboli, insulse e fuori luogo.
«Diffidate di queste ottuse linee di basso», era stato il suo commento, «sono serpenti sordi e inutili, si muovono a balzi brevi, da minori di terze a quarte. Ricordatevelo: sono schifezze, non musica».
Filippo aveva atteso il tizio all’uscita. Quindi s’era avvicinato, lo aveva fissato scandendo una frase lunghissima per il suo standard orale.
«Ma tu. Tu che cosa ne sai? Eh? La musica di Miles rendeva felici anche i bambini».
Dopodiché lo aveva massacrato di botte.
Non avevo mai visto Filippo in compagnia di una donna.
Però c’erano diverse storielle che circolavano sul conto di un matrimonio fallito, di una vicenda d’amore giovanile andata in fumo per via della sua passione per la musica.
Qualcuno sosteneva che si fosse trovato nei guai per aver messo incinta una ragazzina di sedici anni. Una faccenda oscura, una specie di favola attorno alla quale, di volta in volta, si accumulavano particolari scabrosi e dettagli peccaminosi.
Il più delle volte tendevo a non dar retta ai pettegolezzi sul passato di Filippo.
Meno ne sapevo, meglio era: così la pensavo. E così la penso tutt’ora.

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