La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

sabato 11 luglio 2015

L’eleganza alessandrina tra una Porsche e un Martini Dry

da il manifesto

L’eleganza alessandrina tra una Porsche e un Martini Dry

Icone. Volto amato dei blockbuster anni Settanta, Omar Sharif incarna l'immagine dea di un cinema glamour fuori dal tempo
Fra i volti che popo­la­vano i bloc­k­bu­ster degli anni Set­tanta, quello di Omar Sha­rif era uno dei più amati. Lo si tro­vava sovente in com­pa­gnia di pen­da­gli da forca come Telly Sava­las o Harry Andrews. Lui, emis­sa­rio dell’eleganza ales­san­drina, era affian­cato dalla truppa degli apo­lidi inglesi (Anthony Quayle, Tom Cour­te­nay e, ovvia­mente, Peter O’Toole), migranti fra copro­du­zioni impro­ba­bili orga­niz­zate tra Europa e vec­chia Hollywood.
Sha­rif por­tava con sé il vento di terre lon­tane, un’idea di (medio)oriente facile da imma­gi­nare come inca­sto­nata fra un Mar­tini Dry, una corsa in Por­sche in Costa Azzurra e una mistero da scio­gliere all’ombra delle pira­midi. Ele­gan­tis­simo com­pri­ma­rio, sem­pre cir­con­dato da un alone di insop­pri­mi­bile malin­co­nia, ha diviso lo schermo con vete­rani in cerca di ricol­lo­ca­zione come Gre­gory Peck e Anthony Quinn. Era lui, l’ingrediente in più di un cinema che si voleva ancora più grande del mondo, ma che era giunto un po’ fati­co­sa­mente al capolinea.
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Sha­rif sem­brava come saperlo, ma si pre­stava al gioco. Con una sapienza tale, che la sua imma­gine è soprav­vis­suta al suo pro­gres­sivo allon­ta­narsi dalle scene. E quando tor­nava, tor­nava esat­ta­mente per rimet­tere in scena il cinema di una volta, quello che aveva fatto lui. Basti pen­sare al 13° guer­riero di John McTier­nan, tra­va­glia­tis­sima pro­du­zione cri­ch­to­niana, nella quale divide lo schermo con Anto­nio Ban­de­ras, oppure a Hidalgo – Oceano di fuoco, ancora un ruolo di sceicco. Un cinema, quello di Sha­rif, che si sognava sem­pre big­ger than life. Per­ché sor­pren­dersi che è lui il nar­ra­tore di 10.000 A.C. di Roland Emmerich?
Sha­rif ha diviso il set non solo con una gal­le­ria di facce oggi asso­lu­ta­mente impen­sa­bile ma soprat­tutto è stato diretto da un gotha di nomi che com­prende hol­ly­woo­diani in cerca di ricol­lo­ca­zione (Ana­tole Lit­vak, John Frank­e­n­hei­mer dal cui Cava­lieri sel­vaggi sem­bra quasi discen­dere Hidalgo…), autori che non erano rico­no­sciuti come tali (Blake Edwards su tutti) e pro­fes­sio­ni­sti impec­ca­bili come Terence Young, hol­ly­woo­diani in esi­lio (Bob Rafel­son), altri come Ivan Pas­ser peren­ne­mente sospesi fra più mondi.
E, caso più unico che raro, inter­preta bene due volte Funny Girl, diretto una volta da Wil­liam Wyler e l’altra da Her­bert Ross. Rara­mente un attore ha incar­nato più di Omar Sha­rif il momento stesso della sua mas­sima espo­si­zione divi­stica. Sha­rif era l’immagine stessa di Omar Shar divo. Nell’arco di tempo che daLaw­rence d’Arabia con­duce giunge alle soglie degli anni Ottanta, Sha­rif incarna un’idea di cinema di gla­mour asso­lu­ta­mente fuori dal tempo; una sorta di resi­stenza reni­tente a un cinema che cam­biava, lad­dove nel suo mondo, popo­lato di emiri e stre­goni, sedut­tori e scas­si­na­tori, avven­tu­rieri e prin­cipi, il tempo si pre­sen­tava cri­stal­liz­zato e impenetrabile.
Kabir Bedi è stato l’unico erede cre­di­bile al trono di Omar Sha­rif. E non conta che lui fosse indiano e l’altro egi­ziano. Ad acco­mu­narli era que­sta idea di alte­rità «orien­tale», rigo­ro­sa­mente trans­na­zio­nale, che sem­brava come strap­parli a una con­no­ta­zione etnica pre­cisa. Come fis­sati per sem­pre nell’immacolato peri­me­tro del jet set inter­na­zio­nale. Per avere un’idea di que­sta bolla tem­po­rale, basta dare un’occhiata ad Ashanti, l’ultima delle copro­du­zioni fal­li­men­tari hol­ly­woo­diane, distri­buita negli ultimi bar­lumi degli anni Set­tanta, e popo­lata come al solito da inglesi in tra­sferta e hol­ly­woo­diani in cerca di un ultimo posto al sole. Con Omar Sha­rif scom­pare defi­ni­ti­va­mente tutta un’idea di copro­du­zione e di cinema. Resta l’elegante malin­co­nia di un cre­pu­scolo di nome Omar Sha­rif, nato nel 1942 con il nome di Michel Shalhoub.

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