La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

martedì 15 luglio 2014

Nadine Gordimer, l’anima bianca dell’Africa

da il manifesto

Nadine Gordimer, l’anima bianca dell’Africa

Nadine Gordimer. La scrittrice sudafricana è morta nella sua casa di Johannesburg all’età di 90 anni. Nobel per la letteratura nel 1991, vicina a Mandela nella lotta contro l’apartheid, aveva esordito nel 1953 con il romanzo «I giorni della menzogna»
Quasi ven­ti­cin­que anni fa, e pre­ci­sa­mente nel 1991, l’Accademia di Sve­zia con­fe­riva il Pre­mio Nobel per la let­te­ra­tura alla suda­fri­cana Nadine Gor­di­mer (scom­parsa dome­nica scorsa per un can­cro al pan­creas), sot­to­li­neando come, «attra­verso la sua magni­fica prosa epica», Gor­di­mer (nata a Springs, una pic­cola citta del Tran­svaal, a cin­quanta chi­lo­me­tri da Johan­ne­sburg, nel 1923) avesse dato, para­fra­sando le parole dello stesso Alfred Nobel, un «grande con­tri­buto all’umanità».
Nel discorso sti­lato per l’occasione, dopo aver dis­ser­tato sul nodo che lega la parola scritta alla pre­senza (
Wri­ting and Being) e aver ricor­dato, tra gli altri, Ngugi wa Thiong’o, Brey­ten Brey­ten­bach, Jack Mapa­nje, Mon­gane Wally Serote e tutti que­gli intel­let­tuali che, con il loro esem­pio, si erano oppo­sti all’oppressione e alla discri­mi­na­zione, nella poe­sia come nei fatti, finan­che scon­tando la più dura deten­zione, la scrit­trice con­cluse richia­mando i doveri di verità che la lin­gua ha di fronte alle sue stesse men­zo­gne e aldilà delle stesse con­vin­zioni o delle idee dell’artista (inteso come per­sona al ser­vi­zio del genere umano), met­tendo alla ber­lina il raz­zi­smo, il ses­si­smo e il pre­giu­di­zio attra­verso cui il potere, nella sua acce­zione nega­tiva didomi­na­tion, eser­cita la pro­pria tiran­nia. A quell’altezza, ovvero al cul­mine di una car­riera che già van­tava oltre venti titoli tra romanzi, sil­logi di rac­conti, testi per il tea­tro e di sag­gi­stica, il pre­sti­gioso rico­no­sci­mento non solo cele­brava il talento indi­scusso di una per­so­na­lità di cara­tura inter­na­zio­nale, ma spo­stava l’attenzione della civiltà let­te­ra­ria verso una realtà lace­rata da con­flitti e lotte fra­tri­cide per il rico­no­sci­mento dei più ele­men­tari diritti civili; lotte alle quali Gor­di­mer aveva par­te­ci­pato sin dai primi anni Ses­santa, quando, dopo l’arresto dell’amica e atti­vi­sta Bet­tie du Toit, abbrac­ciò la causa anti-apartheid e arrivò ad essere uno dei più stretti col­la­bo­ra­tori di Nel­son Man­dela. Con lui, Gor­di­mer scrisse il cele­bre discorso che que­sti tenni nel 1964 in occa­sione del pro­cesso ai capi dell’African Natio­nal Con­gress arre­stati l’anno prima a Rivo­nia (I Am Pre­pa­red to Die), cemen­tando un’amicizia e un soda­li­zio ultratrentennale.
PAROLE PAR­TI­GIANE
Durante tutta la sua mili­tanza, Gor­di­mer svolse un ruolo sem­pre più deci­sivo nel movi­mento, conobbe la cen­sura (il suo secondo romanzo, Un mondo di stra­nieri, del 1958, fu ban­dito per oltre un decen­nio, e lo stesso accade a Il mondo tardo bor­ghese, del 1976) e con­si­derò il giorno più impor­tante della sua vita, quello in cui, nel 1986, testi­mo­niò, nel pro­cesso Del­mas Trea­son, a favore di Simon Nkoli, Mosiuoa Lekota e altri venti mem­bri di spicco dell’Anc. Dal punto di vista storico-politico, il Nobel del 1991 pre­co­niz­zava la svolta che, di lì a poco, nell’aprile del 1994, sarebbe stata uffi­cia­liz­zata dalle prime ele­zioni demo­cra­ti­che con suf­fra­gio uni­ver­sale esteso a tutte le etnie che por­ta­rono Man­dela a capo della Repub­blica Suda­fri­cana, e mise anche la scrit­trice in una dif­fe­rente posi­zione rispetto all’opera che fino ad allora tanti debiti aveva con­tratto con il suo enga­ge­ment (è risa­puto quanto, per Gor­di­mer, con­ta­rono le let­ture da Jean-Paul Sar­tre e Albert Camus).
Per John Max­well Coe­tzee (dopo di lei il secondo scrit­tore suda­fri­cano cele­brato col Nobel, nel 2003), la fine dell’apartheid segnò un deci­sivo spar­tiac­que nella pro­du­zione let­te­ra­ria dell’autrice di
 Occa­sione d’amore (1984) e Sto­ria di mio figlio(1991): a detta di Coe­tzee, con «il rilas­sarsi degli impe­ra­tivi ideo­lo­gici che sotto l’apartheid ave­vano oscu­rato tutte le que­stioni cul­tu­rali», Gor­di­mer si liberò dalla con­di­zione di lace­ra­zione che l’aveva spinta a porre, al cen­tro della sua nar­ra­tiva, «per­so­naggi, per lo più suda­fri­cani bian­chi, che in ter­mini sar­triani vivono in mala­fede fin­gendo con se stessi di non sapere come stanno le cose». Se ciò è in parte vero, almeno stando alla let­tura di romanzi come Un’arma in casa (1998) o L’aggancio (2001) – soprat­tutto da quest’ultimo Coe­tzee trae le sue con­clu­sioni; se, dun­que, dal pieno com­pi­mento del pro­cesso demo­cra­tico in Suda­frica la scrit­tura di Gor­di­mer apparve più sca­bra ed allu­siva, meno sche­ma­ti­ca­mente avvinta al dato reale, ma più inte­res­sata ad esplo­rare ter­ri­tori ine­diti ed ori­gi­nali, è altret­tanto evi­dente come la pul­sione che, tra anni Cin­quanta e Ottanta, l’aveva por­tata a inter­ro­garsi inces­san­te­mente su cosa signi­fi­casse, per un intel­let­tuale, scri­vere in nome di un popolo per essere letto da un popolo, non venne mai del tutto meno.
UNA PARA­BOLA ESISTENZIALE
Nei rac­conti com­po­sti nel primo decen­nio del nuovo secolo e poi rac­colti nel 2007 in Bee­tho­ven era per un sedi­ce­simo nero (pub­bli­cato in ita­liano, come tutti i suoi altri titoli, da Fel­tri­nelli), l’impressione di Coe­tzee è giu­sti­fi­cata dalla scom­messa sti­li­stica di Gor­di­mer, che riversò tutta la sua sapienza nar­ra­tiva nella forma del com­po­ni­mento breve, sulla lastra delle poche pagine che cat­tu­ra­vano, per effetto di una sug­ge­stione cul­tu­rale o del fascino di un det­ta­glio di cro­naca, il senso di una para­bola esi­sten­ziale, facendo riful­gere l’essenzialità di un atto lin­gui­stico prima ancora che nar­ra­tivo; in que­ste shorts­to­ries, la con­cre­zione for­male dei rap­porti umani, dello scacco della lin­gua e della morte – il tutto sor­retto da quell’analogia senile e cor­po­rale che diventa il nucleo della realtà, lo spar­tiac­que tra quanto è solo pen­sato e ciò che dav­vero si pati­sce — si coniuga in modo impre­ve­di­bile al rovello della soli­tu­dine: tema irre­pa­ra­bil­mente legato alla per­dita di qual­cuno, all’assenza non con­di­vi­si­bile di un affetto, di una parte di noi che è stata e ora non è più se non nei ricordi, cioè «nella pos­si­bi­lità del ricordo, nel richia­mare alla memo­ria tutti i momenti, le fasi, i posti, le emo­zioni e le azioni di ciò che lui(la per­sona scom­parsa) era, di come ha vis­suto men­tre era». Ma come in ogni auten­tico scrit­tore, ovvero in ogni essere umano con­sa­pe­vole dei pro­pri mezzi e delle pro­prie respon­sa­bi­lità eti­che, una scom­messa for­male non fa che pre­pa­rare il rilan­cio di una nuova posta, sic­ché, dalla rastre­ma­zione più spinta di rac­conti come «Sto­ria», «Gre­gor» o «Alle­svor­le­ren», nel 2012 Gor­di­mer tornò al romanzo con Ora o mai più, sorta di summa della sua intera espe­rienza let­te­ra­ria in cui la vicenda dei due pro­ta­go­ni­sti prin­ci­pali, il bianco bene­stante Steve e la nera zulu Jabu — cre­sciuti entrambi, ma su fronti diversi, nella lotta al regime segre­ga­zio­ni­sta -, rac­co­glie la sfida di un paese gio­vane, un paese in cui rico­struire sulle mace­rie del pas­sato è forse più dif­fi­cile che con­se­gnarne la memo­ria (ed il senso) agli scia­calli della Sto­ria. I poli socio­cul­tu­rali de L’aggancio ven­gono qui rove­sciati: se nel primo è la donna, Julie, l’espressione dell’ordine costi­tuito, men­tre Abdu, l’uomo di cui si inva­ghi­sce, rap­pre­senta, in ter­mini socio­lo­gici, l’altro, il diverso, inNo Time Like the Pre­sent (que­sto il titolo ori­gi­nale di Ora o mai più), l’inversione del sesso rie­dita in una nuova chiave, più rea­li­stica e con­no­tata, i ter­mini emi­nen­te­mente poli­tici di Luglio (July’s Peo­ple, del 1981), ponendo in una chiave scet­tica e dubi­ta­tiva, fin quasi sim­bo­lica, l’ineludibile tema della giu­sti­zia ter­rena.
Sessant’anni dopo l’esordio, nel 1953, con
 I giorni della men­zo­gna, Gor­di­mer ha affi­dato alle oltre quat­tro­cento pagine del suo ultimo, grande romanzo, il pro­prio testa­mento arti­stico e il com­pito di fare i conti con quella sto­ria che, come riporta l’epigrafe tratta da Guerra e pace, «ha a che fare con mani­fe­sta­zioni della libertà umana nel con­te­sto del mondo esterno, con il tempo e con la dipen­denza dalle cause», ricor­dando a noi let­tori, con le parole del poeta e atti­vi­sta dell’African Natio­nal Con­gress Keo­ra­pe­tse Kgo­si­tsile, come «seb­bene il pre­sente rimanga / Un luogo peri­co­loso in cui vivere / Il cini­smo sarebbe un lusso avventato».


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.