La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

lunedì 7 luglio 2014

ANDARE SCRITTO DA GIANNI ZANATA

Andare, stare seduti, fare nulla.
C’è stato un periodo in cui io e Paolo ce ne stavamo seduti per ore su una panchina alla stazione dei treni. A fare nulla. A pensare di andare.
Andiamo, andiamo, diceva Paolo. E rideva.
Andiamo dove?
Su, dai, andiamo, mi diceva Paolo. E rideva.
Ma dov’è che vuoi andare, gli chiedevo io.
Andiamo, andiamo, non importa dove. E rideva.
Andiamo a fare che cosa, gli chiedevo io.
Non c’è bisogno di fare, mi diceva lui, ma di andare.
Ma come andiamo, gli chiedevo io.
Ma lui niente. Andiamo, andiamo, ripeteva. E rideva.
Lo guardavo, scuotevo la testa. Ma dov’è che vuoi andare, gli dicevo.
Lo guardavo e scuotevo la testa.
Andare.
Che poi, per Paolo, andare, voleva dire mille cose. Matto d’un Paolo.
Andare voleva dir donne, voleva dir sesso, voleva dir musica, voleva dir fumo.
Andare voleva dire svegliarsi tardi la mattina, far colazione all’aperto, strizzar gli occhi e guardare in cielo, ché se c’erano molte nuvole allora era meglio star sdraiati sul divano dentro casa, e magari dormire un altro po’.
Andare voleva dire sperare di non tornare più da dove si era partiti. Voleva dire spedire una cartolina a tutti gli amici che invece erano rimasti.
Andare.
Andare voleva dire comprarsi un paio di scarpe nuove. Perché non si può andare da nessuna parte senza un paio di scarpe nuove.
Paolo voleva sempre andare. Matto d’un Paolo.
E non c’era verso di fargli capire che puoi pure pensare di andare dove vuoi, ma se poi non ti muovi, non puoi mica andare.
I genitori di Paolo, per dire, non s’erano mai spostati da casa, dal loro paese, dalla loro provincia, dalla loro regione. Non s’erano mai spostati. Proprio mai. Mai un viaggio. Mai una vacanza.
A parte quel giorno, e quella gita al mare, per andare a vedere l’isola di Carloforte. Che mica c’erano andati, poi, a Carloforte. Si erano fermati a Portoscuso. A guardare l’isola da lontano. Erano rimasti sul molo, a guardare quell’isola che pareva vicina, tanto che se allungavi una mano ti sembrava di poterla toccare.
Erano arrivati sino a Portoscuso, avevano viaggiato su una vecchia fiat millecento grigia del sessantatre, per poi scoprire che l’ultimo traghetto per Carloforte era già partito.
Quando si dice andare senza sapere che per andare bisogna anche saper andare.
I genitori di Paolo. Che ora non ci sono più.
Era stato un bel funerale, il funerale della madre di Paolo, nel pomeriggio di un sabato d’aprile, con la luce gialla del sole che si diffondeva dai rosoni e disegnava strane figure sul pavimento della chiesa.
Anche il funerale del padre di Paolo era stato un bel funerale, in un mattino di dicembre, sotto la pioggia fredda e il vento umido che soffiava dal mare. Il parroco, durante l’omelia, aveva letto un passo del Vangelo, qualcosa sul viaggio lento e dolce che compiono le anime verso il cielo, verso il Paradiso. Un viaggio. Verso il cielo. E dire che non erano mai andati da nessuna parte, i genitori di Paolo.
Andare.
Andiamo, andiamo. Quel matto d’un Paolo.
Ma andiamo a fare che cosa, gli chiedevo io.
Che poi, per andare, bisogna aver coraggio.
Io Paolo l’ho conosciuto che voleva sempre andare.
Una volta se n’era andato per davvero. Era scappato di casa. E non mi era mai capitato che un mio amico, un mio amico del cuore, se ne andasse via da casa, via dai genitori, a quindici anni. Era stata una sorpresa. Una di quelle cose che non ci sono parole per spiegare. Una di quelle cose che ti sorprendono, e basta. Specie se anche tu hai quindici anni e il tuo miglior amico se n’è andato senza nemmeno dirti ciao.
Paolo aveva lasciato un biglietto sul tavolo in cucina. Me ne vado, non torno più, vi voglio bene, grazie, ma io devo andare. Aveva scritto proprio io devo andare.
Ma dove te ne vai senza di me, avevo pensato io. Non è così che si abbandona un amico.
Paolo lo avevano cercato dappertutto, in paese. E pure nei dintorni.
I parenti erano andati dai carabinieri. E i carabinieri erano saltati su una camionetta e si erano messi a girare tra le stradine di campagna.
Io lo sapevo dove era andato Paolo. Ma non avevo detto niente. E pure se qualcuno me l’avesse chiesto, non avrei detto niente. Perché Paolo era il mio migliore amico.
Paolo era andato al fiume, dove di solito andavamo a catturare rane e serpenti, e a tirar sassi a pelo d’acqua. Dove c’era un posto che sembrava una grotta, anche se non era una vera grotta. Ma a noi piaceva pensare che lo fosse.
Paolo era andato al fiume. E lì lo avevo trovato.
Seduto su una stuoia, sotto un salice bianco, Paolo mi aveva visto sbucare da dietro un cespuglio e s’era messo a ridere. Matto d’un Paolo. S’era messo a ridere come solo lui sapeva. S’era messo a ridere e non la smetteva più.
M’ero avvicinato ed ero rimasto in piedi a guardarlo. E basta. Senza dire nulla. E dopo un po’ che continuavo a guardarlo, senza parlare, a chiedermi che cosa sarebbe successo se in quel momento fossero arrivati i carabinieri, dopo un po’ che continuavo a fissarlo, senza parlare, dopo un bel po’, m’ero seduto a fianco a lui e m’ero messo a ridere pure io. Matto d’un Paolo.
Dove volevi andare, gli avevo chiesto.
Non lo so, mi aveva risposto lui, volevo andare.
Andare.
Andare.
Che poi, andare, per noi, voleva dire mille cose.
Come quella volta che dovevamo andare in campeggio.
Io e Paolo c’eravamo svegliati alle cinque, per partire alle sei. Zaino e sacco a pelo in spalla, un tocco di fumo in tasca, avevamo viaggiato in pullman sino a Muravera. Poi a piedi, sotto il sole, lungo la statale centoventicinque.
Un camionista di Nuoro che trasportava acqua, birra, frutta e verdura, c’aveva caricato all’uscita dal paese.
Il camionista si chiamava Beppe, aveva cinquant’anni, rugoso il viso, gli occhi verdi.
Ma dov’è che andate, c’aveva chiesto lui.
Già, dov’è che andiamo, m’ero chiesto io.
Andiamo, gli aveva risposto Paolo. Andiamo.
Sì, ma dov’è che andate di preciso, gli aveva detto lui, il camionista.
Dove ci capita, andiamo dove ci capita, gli aveva detto Paolo.
E Beppe prima lo aveva guardato, e poi s’era fatto una risata sorda. Va bene, vi ci porto io, aveva detto.
Beppe c’aveva portato su, sino a Orosei, e noi lo avevamo ringraziato di cuore, lo avevamo abbracciato e salutato con strette di mano fortissime, e lui alla fine s’era quasi commosso e c’aveva regalato due bottiglie di birra a testa e un melone grande come un pallone.
Quel campeggio lì era l’estate in cui Paolo era andato di testa per via di un acido che s’era fatto una notte in tenda.
A un certo punto s’era messo a camminare per andare non so dove, s’era messo a camminare a quattro zampe attorno alla tenda, aveva cominciato ad abbaiare, s’era messo nudo, in piedi, steso, in piedi, seduto, nudo, in piedi, s’era messo a correre, e io dietro di lui, a correre, lui nudo, e io dietro, lui nudo sull’asfalto nero della strada, sotto la luna bianca, nudo, io davanti, e lui sempre nudo, s’era messo a strisciare su un lato, io dietro, lui pallido, sempre più pallido, s’era messo a correre, io dietro, era montato sul tettuccio di un’auto in sosta, io sotto, a dirgli di scendere, lui nudo, sul tettuccio di un’auto, poi s’era messo a urlare e l’avevo tirato giù, ma lui s’era messo nuovamente a correre, nudo, come un folle, io dietro, due folli, lui con le braccia protese ad acchiappare il nulla, nudo, di corsa, verso il precipizio, sul ciglio del belvedere, gli scogli sotto, e lui nudo, un passo avanti, il vuoto, Paolo, ragiona, gli dicevo, ragiona, Paolo, lui niente, folle e nudo, ragiona, gli dicevo, Paolo, ascoltami, gli dicevo, lui nulla, io volo, mi diceva, io posso volare, se voglio posso, se voglio posso, mi diceva, un passo avanti, il vuoto, gli scogli sotto, io posso, io volo, io posso, lui nudo, io volo, diceva, ragiona, dicevo, un passo avanti, gli scogli sotto, il vuoto, non voli, dicevo, io volo, diceva, non voli, dicevo, io posso, diceva, voleva volare.
Matto d’un Paolo.
Che alla fine aveva spalancato le braccia e con lo sguardo rivolto alla luna aveva dettoandiamo. E poi s’era come afflosciato e allora l’avevo dovuto prendere per le spalle e trascinarlo via, prima che si buttasse di sotto per davvero, di sotto nel vuoto, sugli scogli.
Matto d’un Paolo.
Che poi c’erano voluti due giorni per farlo tornar sano. Che lui non se lo ricordava mica, tutto quel che aveva combinato.
Matto d’un Paolo.
Andare.
Andare, star seduti, fare nulla.
C’è stato un periodo in cui io e Paolo ce ne stavamo seduti per ore su una panchina alla stazione dei treni. Proprio a fare nulla.
Prendiamo il treno e andiamo, diceva lui.
Andiamo, sì, dicevo io. E poi?
Andiamo e basta. Senza fermarci mai, diceva lui.
Senza fermarci.
Il primo viaggio in macchina con Paolo, sembravamo due emigrati, di quelli che si vedevano nei documentari alla televisione. Uno zio di Paolo, uno che aveva fatto i soldi grazie all’espianto dei vigneti, ci aveva prestato una A112 monocolore con paraurti in metallo e fascia in gomma.
C’aveva pure la radio, l’A112 dello zio di Paolo. Una radio che suonava sul serio, con le audiocassette e tutto il resto. Una macchina che però ci volevano due pieni di super per fare duecento chilometri, se andava bene.
Andiamo, aveva detto Paolo.
Andiamo dove, avevo detto io.
Andiamo a vedere Bob Dylan, aveva detto lui.
Bob Dylan, avevo detto io.
Sì, Bob Dylan, aveva detto lui.
Ed eravamo andati sino a Porto Torres, e da lì c’eravamo imbarcati su un traghetto per Genova. E da Genova eravamo andati ad Avignone, dove c’era davvero Bob Dylan che suonava e cantava. E durante il concerto era successo qualcosa di strano, era mancata l’energia elettrica, così, di botto, era saltato tutto, e s’era scatenato un pandemonio. Tutti al buio, c’era chi si muoveva, chi si spostava, e noi, che eravamo sdraiati per terra ed eravamo parecchio distanti dal palco, vedevamo la gente in lontananza che faceva avanti e indietro, come una specie di risacca umana. Poi le luci s’erano riaccese, e Bob Dylan aveva ripreso a suonare e a cantare. Aveva cantato e suonato per più di due ore. Ma già a metà concerto io e Paolo c’eravamo stancati di ascoltare le canzoni e di ballare, e allora avevamo cominciato a fare gli stupidi con queste due ragazze tedesche che stavano qualche metro avanti a noi.
Erano carine, e quella più carina aveva un paio di tette che mi era proprio venuta voglia di dirglielo, che aveva delle tette straordinarie. Erano carine, le due tedesche, e quella più carina si chiamava Mila, l’altra Jule, venivano da Stoccarda, e quella più carina era davvero la ragazza più carina che avessi mai incontrato, mentre l’altra non è che non fosse carina, ma rispetto a Mila scompariva.
Paolo, che non sapeva nemmeno una parola di tedesco, aveva cominciato a dire frasi senza senso, così, giusto per far ridere le ragazze, parole come krapfen, doberman, strudel, kaputt, fahrenheit, Muller, Rummenigge. E loro, le ragazze, piegate in due dalle risate, che se non le avessi viste con i miei occhi non c’avrei mai creduto.
Che poi Paolo s’era alzato e s’era avvicinato alla più carina, Mila, e l’aveva presa per mano e insieme s’erano messi a correre verso il palco, e l’altra, Jule, mi aveva guardato e s’era alzata anche lei e anche lei m’aveva preso per mano e c’eravamo messi a correre pure noi verso il palco.
A correre e a ballare. Che ce ne vuole per mettersi a ballare le canzoni di Bob Dylan, eh.
Dopo il concerto eravamo andati tutti e quattro a mangiare patate fritte e bere birra. E dopo aver mangiato patate fritte e bevuto birra eravamo saliti sull’A112 dello zio di Paolo, io alla guida, Jule a fianco, dietro Mila e Paolo, e dopo aver girato in lungo e in largo per le strade di Avignone c’eravamo fermati vicino a dei giardini bellissimi e con dei prati verdi che erano verdi, anche se era notte e i colori non è che si distinguessero tanto bene.
E poi eravamo rimasti in silenzio per un po’ ad ascoltare la radio e a guardare i giardini con i prati verdi, seduti dentro l’A112 dello zio di Paolo, con Mila e Jule che ci guardavano e cercavano di ripetere i nostri nomi. Che a un certo punto avevo guardato nello specchietto retrovisore e avevo visto che lui e Mila si stavano baciando, e un po’ c’ero rimasto male, ché Mila era davvero la ragazza più carina che avessi mai incontrato. E avrei voluto baciarla io, Mila. Ma poi Jule mi aveva buttato le braccia al collo e s’era messa a sbaciucchiarmi le orecchie, così m’ero distratto, avevo chiuso gli occhi e avevo baciato Jule, anche se il mio desiderio sarebbe stato quello di baciare Mila, e la sua bocca di pesca e di rugiada.
Andare.
Andare, star seduti, fare nulla.
C’è stato un periodo in cui io e Paolo eravamo proprio stanchi di star seduti per ore su una panchina alla stazione dei treni. A fare nulla.
Prendiamo il treno e andiamo, diceva lui.
Andiamo, sì, dicevo io. E poi?
Andiamo e basta. Senza fermarci mai, diceva lui.
Guarda che questa è un’isola, gli dicevo io.
E allora, mi diceva lui. E allora?
Allora puoi andare dove vuoi, fin che vuoi, ma poi ti devi fermare, c’è il mare, e ti devi fermare per forza, gli dicevo io.
Dovrebbero inventare i treni subacquei, mi diceva lui.
I treni subacquei. Ne sparava di cazzate, Paolo.
Cazzate.
Poi però.
Un giorno.
Poi però un giorno Paolo non l’ho visto più. Sparito. Svanito.
Niente andare, niente star seduti sulla panchina alla stazione, niente far nulla.
Era sparito, Paolo. Non lo si trovava più. Da nessuna parte. Proprio come quando era scappato da casa e l’avevo trovato giù al fiume. Sparito.
Matto d’un Paolo.
Da quel giorno lì, non ho fatto altro che cercarlo. Dappertutto.
Sono andato in tutti i posti dove lui diceva di voler andare. Ho preso il treno, e poi mi sono fermato davanti al mare. Ho preso il treno subacqueo, e sono sceso a tutte le stazioni. Non ne ho saltata una. Ma di Paolo neanche l’ombra.
Ho continuato a cercare. A vagabondare per piazze e viali di città mai viste prima, a scrutare nei vicoli e nelle strade, nei palazzi e nei cortili, a bere nei bar, a incontrare gente, a chiedere, a scrivere, a dire, a raccontare, a spiegare, a ricordare. Ho continuato a inseguire il suo profilo, a braccare la sua immagine.
Ma Paolo non l’ho più trovato.
Ora che è estate e fa sempre caldo, ora che è buio dentro, e che vivo in una città di confine, ora che non guardo più le stelle, ora che gli anni son meno leggeri, ora sì, ora Paolo ho smesso di cercarlo.
E mi piace pensare che sia sempre stato in viaggio, quel matto d’un Paolo, come un vero migrante, come un nomade senza destino, come una nuvola spronata dal maestrale.
Paolo, con le labbra distese in un sorriso.
E nella testa un blues di frontiera.


SCRITTO DA  IN RACCONTI
da http://kontendi.it/andare/

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