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lunedì 1 novembre 2010

Accabadora ''l' ultima madre'' , di Ludovica De Nava


Una giovane scrittrice sarda (Michela Murgia, 1972, vincitrice del premio Campiello 2010) rompe la monotona sfilata dei tanti ''giovani scrittori emergenti'' usciti freschi e un po' troppo omologati dalle scuole di scrittura e dagli editing di tipo seriale di cui abbondano i romanzi sugli scaffali delle librerie.
Michela Murgia, non so se abbia fequentato un corso di scrittura, ma una cosa e' certa: e' sfuggita all' omologazione.
Il suo linguaggio scabro incide immagini forti e inusuali, che restano impresse in un lettore avido di buon nutrimento. La sua prosa rapida non tralascia nulla di cio' che serve a far passare chi legge attraverso curiosita' e domande, e ne suscita altre, in un susseguirsi di finestre che si aprono su una o piu' prospettive.
Ma entriamo nel vivo, nella carne del romanzo.
Acabar e' voce spagnola. Significa ''finire''(una mia personale traduzione ''andare a capo''.
Quella dell' Accabadora e' una leggenda popolare che si fonda su un ruolo pietoso riservato a una donna che in Sardegna - e anche in Spagna - si potrebbe definire ''la levatrice della morte'' o l' angelo che aiuta i moribondi che non riescono - pur desiderandolo - a sganciarsi dalla vita.
''Chi sono io?'' dice tzia Bonaria a Maria, sua ''fill' e anima'' (cioe adottiva). ''Io sono l' ultima. Sono l' ultima madre che molti vedono.
Maria esplora con dolore sulla propria pelle quel terreno tanto difficile che divide le coscienze inconsapevoli che discettano su quel che e' lecito fare e non fare, se e' giusto l' accanimento terapeutico o e' piu' sano e pietoso dire basta.
Leggendo e vivendo le esperienze dei personaggi che ruotano intorno a Maria Listru e a tzia Bonaria, il lettore con emozione varca quella barriera divisoria, per capire che e' solo un abuso nato dalla perversa alleanza tra due arroganze: quella della ''fede'' e quella della tecnologia, e' solo questo abuso infatti ad aver ridotto sempre piu' lo spazio dell' ascolto, della umilta', dell' empatia, della compassione e dell' accettazione.
Di fronte alle aspre parole di condanna rivoltele da Maria, l' Accabadora si difende: ''non dire mai: di quest' acqua io non ne bevo. Potresti trovari nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata''.
Se l' agonia e' lunga e' perche' l' anima e' trattenuta da troppi legami, o dai sensi di colpa. E' necessario sciogliere ogni laccio, e sapersi perdonare. E non c' e' niente che avvenga se non deve avvenire.
L' anima, se e' leggera, sa quando e' il momento di staccarsi. L' Accabadora aiuta soltanto: con un cuscino, o chiudendo al sofferente il ''terzo occhio''.
Si e' aiutati a nascere. Lo si puo' essere anche a morire.
D' altronde, ''non c' e' nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri ad ogni angolo di strada''.

Ludovica De Nava
filologa

''Accabadora'', di Michela Murgia (Einaudi, pp 164, € 18,00, Premio Campiello 2010)

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